wunderkammer – la camera delle meraviglie

wunderkammer – la camera delle meraviglie

WUNDERKAMMER  – LA CAMERA DELLE MERAVIGLIE

Che forma ha la meraviglia?

Frugando nel rapporto tra umano e non-umano, convinto della centralità della materia e delle sue intra-azioni (Barad 2007), vi propongo di concentrare lo sguardo su dicotomie che diamo spesso  per scontate, come organismo\ambiente, naturale\artificiale, vivente\non-vivente, soggetto\oggetto o mente\corpo, fino a quando non le vedremo sfuocate sovrapporsi e mescolarsi tra di loro.  Un minerale, una pianta, un animale, uno strumento o un’opera d’arte saranno di volta in volta gli inneschi e i propulsori di un viaggio, scuse meravigliose per perdersi e stupirsi nella prospettiva postumanista. Questo blog è una vera e propria wunderkammer in divenire, un ambiente in cui diffrangere ed ibridarsi digitalmente assieme attraverso storie di ogni tempo e di ogni dove.

La Wunderkammer o Camera delle meraviglie era anticamente, specie in Europa tra XVI e XVII secolo, una stanza privata dedicata alla raccolta e all’esposizione di stranezze e rarità provenienti dal mondo della natura (naturalia), dell’artigianato (artificialia e mirabilia), dall’ambito della ricerca scientifica (scientifica) etc. Il fascino esotico ed eccentrico di tali oggetti, la loro bizzarria e stravaganza dovevano destare lo stupore di ospiti, studiosi o collezionisti, accendere la loro curiosità e, perché no, suscitare invidia e ammirazione nei confronti del loro proprietario, possessore privilegiato di cotante cose meravigliose e desiderabili poiché estremamente rare o leggendarie.   

La wunderkammer è il luogo degli altrove. Uno spazio in cui ogni cosa è un varco misterioso, una soglia da oltrepassare, un campo magnetico che attrae una molteplicità di stupefacenti occasioni per perdersi. La wunderkammer è anche un esercizio di potere, incarnazione della potenza, della prepotenza e dell’incoerenza del raccogliere selezionando. Un miscuglio anche di mistificazioni e falsificazioni anatomiche, di scheletri ontologici e di impalcature epistemologiche. In questo senso la wunderkammer è anche narrazione, è cosmologia, un coacervo di materia inerte e silenziosa che comunica prevalentemente per via emotiva, non conscia, non verbale: le cose suscitano, evocano e si insinuano tra inquietudine e mania, tra curiosità e stupore.

Ogni corpo è un altrove. Altrove è un paesaggio abitato da forze e da energie, da frammenti di desiderio collimanti e divergenti. Altrove è lo spazio percorso dal desiderio nel tempo che la curiosità impiega a divenire meraviglia. Se dovessi immaginare le geometrie dello stupore esso farebbe la sua epifania come una pareidolia, lo troverei d’improvviso tra le molteplici configurazioni di linee diffuse e prepotenti, linee pesanti e penetranti di cui è possibile avvertire le solide e infinite proiezioni sulla pelle. Vibrando tra attrazione e ripugnanza, tra paura ed eccitazione, i corpi sono invischiati in una melma relazionale di materia che unisce e distingue, materia che si tuffa dalla freccia del tempo annegando in un vortice senza origine e senza direzione che nei suoi gorghi e nelle sue spirali lascia impronte di un passaggio dalla copia (dimensione celeste, divina, pura, animata, genetica, biocentrica e motocentrata) alla copula (dimensione ctonia, mortale, impura e melmosa, materica e mostruosa).

Le cose divengono così partner di ibridazione, alleati, componenti di assemblaggi che incarnano dicotomie sfuocate e confuse ma pluripotenti, configurazioni di coniugazioni, di commistioni piuttosto che di esclusioni e distanziamenti. La forza di tale intima chimerizzazione incarna la potenza di una reciproca partecipazione dei corpi con i corpi, della materia con la materia. Gli oggetti di queste antiche collezioni di cose prodigiose non fanno eccezione, e le relazioni di cui sono materica incarnazione pesano più dell’anima che gli manca, vanno ugualmente immobilizzati, classificati, estrapolati e scarnificati per essere ridotti a mera rappresentazione. Proprio come ad un mostro mitologico, è stato necessario costruirgli attorno un dedalo di percorsi e passaggi in grado di contenerne la forza, un labirinto capace di ostacolare e trattenerne le potenti linee di fuga, la carica bestiale e sovrannaturale. Ecco allora profilarsi una cornice, elevarsi un piedistallo, erigersi una bacheca, assemblarsi una cassettiera o un espositore.

Quello della wunderkammer è un altrove in cui il fascino dell’insolito, di ciò che si distanzia dal nostro ordinario e confortevole orizzonte culturale e cosmologico, ci spinge a mettere in discussione chi e che cosa siamo, ci costringe a ripensare il nostro rapporto con li non-umano. Spalancata la bocca per lo stupore il capo si ritrae all’indietro giusto il tempo perchè l’eccitazione scuota le viscere costringendo il corpo a protrarsi in avanti ficcando il naso nella curiosità, così che gli occhi possano finalmente, dopo aver visto, perdersi nella conoscenza.

 Benvenutə nella Wunderkammer – La Camera della Meraviglie.

Testi consigliati:

BARAD, KAREN. Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning. Duke University Press, 2007. 

Anti-specismo, Post-umanesimo e Post-specismo

Anti-specismo, Post-umanesimo e Post-specismo

Saremo mai post-umani, e come?

Se essere-umani™ è un atto performativo, esplorare con azioni e pensieri nuovi modi di stare al mondo è già adottare una postura post-umana. In questa avventura, parafrasando Timothy Morton, saremo tutt* più stran*, per lo meno agli occhi di quell’idea di umano che stiamo decostruendo. Dalla prospettiva umanista le filosofie (post-sofie) del post-umano sono sicuramente non-normative, stravaganti e, forse, per tale motivo più adeguate a ragionare e giocare con la materialità del mondo da cui esse stesse emergono.

In questo blog, Orizzonti di Postsofia, rifletteremo assieme su cosa significa abitare corpi e mondi post-umani e quali orizzonti possiamo immaginare a partire dall’intreccio multispecie del reale. La postsofia è una filosofia del fare e del pensare assieme, per tanto questo blog è da leggere-con: leggere con me, Eleonora, con l’ambiente in cui vi trovate e con gli umani e i non-umani che incontrate ogni giorno. Questi articoli sono gocce sospese nell’aria che aspettano di essere lette per poter rifrangersi in nuovi colori, lungo orizzonti ancora da scoprire.

Ho deciso di dedicare questo primo articolo ad un tema fondamentale per i postumani e a me carissimo: lo specismo e la sua decostruzione nel mondo postumanista. Rifletteremo brevemente sulle possibilità esistenziali che tale decostruzione porta seco, ma anche su come alcune interpretazioni di spicco nel discorso postumano nascondano derive antropocentriche. Concluderò sostenendo che, essere-con il mondo in modo postumano richiede giustizia per tutti i non-umani, una giustizia multispecie.

Iniziamo dunque dalle basi!

Cos’è lo specismo?

Con questo si intende generalmente che l’oppressione e l’utilizzo degli animali non-umani è giustificato, solo o primariamente, dalla loro non appartenenza alla nostra specie. Dunque, si tratta di una discriminazione basata su di una divisione antropocentrica: noi umani da una parte, tutti gli altri animali dall’altra (con un dualismo violento). Da Peter Singer ai Critical Animal Studies, decostruire lo specismo ha significato anche decostruire l’antropocentrismo: la credenza che noi umani, o almeno un certo modello di umano™ debba avere di diritto una posizione di privilegio e superiorità nel mondo. Estendendo queste considerazioni, il post-umanesimo decostruisce la nozione di umano™ come qualcosa di definito, immutabile, separato dagli ecosistemi e, al contempo, al vertice dell’evoluzione della vita. L’umano è un animale, e non quello più speciale. Questa decostruzione ci lascia tutt’altro che scissi, anzi, è di per sé una decostruzione che costruisce e unisce: il post-umano è un divenire-con denso di relazioni e storie, intrecciato con la materialità del mondo e delle soggettività che essa racchiude.

Ma di che relazioni stiamo parlando? Come immaginare incontri oltre lo specismo? 

Tra le filosofie post-umaniste vi è una differenza tra un approccio anti-specista “classico” e uno che Corey Lee Wrenn definisce “post-specista”.

Cosa siamo? Post-umani! Ma…come lo siamo?

Donna Haraway è sicuramente una figura chiave per immaginare futuri postumani. Nel suo celebre libro Staying With the Truble (2016), Haraway ci parla di “mondi multispecie” fatti di identità ibride e companion species, specie che hanno con noi un legame sociale, psicologico ed evolutivo. Haraway ci invita ad abitare un mondo multispecie con esse, basato su di un divenire-con e prendersi cura reciproco, un mondo dalle volontà complesse e multidirezionali, in cui l’umano è un abitante tra gli abitanti.

Ma cosa significa praticamente? Come la nostra relazione con le altre specie muta a seguito di queste considerazioni?

La visione di Haraway a tal riguardo è per molti post-umanisti, me compresa, estremamente fallace. Haraway, infatti, include nelle relazioni “reciproche” tra umano e non-umano pratiche violente, tra cui quelle dell’allevamento per scopi alimentari e non. La sua filosofa promuove sì una visione di mondo multispecie, ma in cui la volontà e la vita degli altri animali rimane narrata da una prospettiva utilitarista-antropocentrata. Nell’orizzonte di Haraway, umano e non umano si incontrano sul piano della materialità relazionale spogliando l’umano della sua unicità ma, al contempo, questo incontro mantiene una deformazione specista nelle strutture di potere..

Corey Lee Wrenn esamina come la dissoluzione dei confini tra umani e altre specie, il post-specismo, sia facilmente usato da filosofe e filosofi come “porta sul retro” da cui far entrare nuovamente l’antropocentrismo. Pensando con le sue parole, qui tradotte da me:

Il post-speciesismo è un’ideologia che suggerisce che le specie non abbiano importanza […] si basa sulla convinzione che siamo “tutti uno [tutti animali]” e che abbiamo tutti un posto uguale sulla terra o nel “cerchio della vita”. La violenza contro gli animali continua a vantaggio degli esseri umani, ma questo non viene più interpretato come una forma di oppressione o dominazione. In altre parole, le differenze di opportunità di vita basate sull’identificazione di specie vengono cancellate dalla narrazione.”

Wrenn porta ad esempio quello degli allevatori, i quali spesso erodono ulteriormente il confine tra umani e non umani “riferendosi alle loro vittime non-umane come figli, familiari o amici”. Haraway riconosce sì una volontà individuale agli animali non umani, ma ritiene che gli interessi di questi siano in sintonia con quelli umani. Così facendo questo orizzonte di post-umanesimo si differenzia dal mio e da altri, spostandosi da una critica anti-specista del rapporto umani-animali ad un endorsement “al di là del bene e del male” del concetto di divenire-con. Se la nostra è una filosofia post-umanista, questa deve essere per forza di cose una filosofia anti-specista.

L’orizzonte che propongo, assieme a pensatrici come Wrenn e Zipporah Weisberg, è fatto sì di mondi multispecie, ma soprattutto di giustizia multispecie. I futuri post-umani devono essere mondi di liberazione, in cui i soggetti non-umani possano sognare e attuare le proprie esistenze senza essere oppressi.

 

Riferimenti:

Haraway J. Donna, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene,  Duke University Press, 2016.

Weisberg Zipporah, “The Broken Promises of Monsters: Haraway, Animals and the Humanist Legacy” in Journal for Critical Animal Studies, Volume VII, Issue II, 2009.

Wrenn L. Corey, Animals in Irish Society: Interspecies Oppression and Vegan Liberation in Britain’s First Colony, State University of New York Press, 2021.

 

 

“Vis-à-vis”: dichiarazione d’intenti.

“Vis-à-vis”: dichiarazione d’intenti.

Benvenuti e benvenute su “vis-à-vis”, il blog gestito da me, Giulia, dottoressa in Filosofia, amante della vita, in ogni sua forma ed espressione.

Perché questo nome? Perché “vis-à-vis” significa “faccia a faccia” ed è di questo tipo di relazioni che il blog si vuole occupare. Ci si chiederà qual è il significato e cosa succede nel momento in cui due paia di occhi si incrociano. Che relazione è questa? Fragile, sfuggente, cosa ci dice sui proprietari di quegli sguardi? E poi, cosa si dicono due sguardi mentre si fissano? Diversi e distanti, eppure sono in gradi di comunicarsi qualcosa anche attraverso il silenzio.

Ma più nello specifico, “vis-à-vis” vuol essere uno spazio di discussione e approfondimento di quelle relazioni che coinvolgono volti dai tratti radicalmente differenti: facce appartenenti ad animali di specie eterogenee, tra le quali l’impossibilità di comunicare linguisticamente sembra tracciare un abisso di incomprensione.

Personalmente sono convinta, sulla scia di Jacques Derrida [2006, pp. 48-51] e John Berger [1980, p. 17], che attualmente noi esseri umani ci concepiamo prevalentemente come ‘osservatori’ del mondo e degli altri esseri viventi, ma che facciamo fatica a riconoscerci anche come ‘osservati’. Ci risulta difficile acquisire e mantenere viva la consapevolezza di essere a nostra volta guardati dagli esseri viventi che ci circondano. Magari sappiamo che il nostro cane ci osserva, ci segue con lo sguardo, ma è un tipo di sapere vago e superficiale, non una consapevolezza così profonda e radicata da essere in grado di influire sul nostro modo di agire e vivere. Solo occasionalmente teniamo davvero in conto lo sguardo animale su di noi, solo di rado ne siamo così profondamente consapevoli da sentire sulla nostra pelle, vivamente, di essere osservati e da plasmare il nostro di agire di conseguenza. Forse ne abbiamo profonda contezza solo nello sfuggente momento in cui incrociamo i loro occhi e questi ultimi ricambiano il nostro sguardo.

Sarà interessante, allora, chiedersi cosa avviene in questo scambio di sguardi. Cosa ci rivela l’occhio vigile che abbiamo davanti, l’occhio che sostiene e ricambia il nostro sguardo? Cosa ci dice del suo proprietario? Ma anche cosa ci dice su di noi: chi siamo per il nostro cane? Che significato abbiamo per l’animale che ci sta di fronte? E, ancora, cosa ci rivela il fatto che agli occhi dell’altro assumiamo un significato che non abbiamo il potere di determinare e scegliere e forse neppure di decifrare?

Ma perché interessarsi a tutto questo e seguirmi? Perché sono convita del potenziale trasformativo di questa consapevolezza. Sono convita che se fossimo più sensibili rispetto a questo, se portassimo sempre con noi la consapevolezza viva di essere osservati dagli altri esseri viventi, allora in primo luogo cambierebbe il nostro modo di concettualizzare i non umani: non più lontani da noi, fuori dalle faccende e dal mondo umani, totalmente estranei; non più macchine, ‘cose’ che si muovono reagendo agli stimoli esterni, ma soggetti autonomi in grado di dirigere liberamente i propri occhi su un mondo che coabitiamo. L’autonoma capacità di osservare dell’altro essere vivente ci dice che egli vive e legge in modo personale e unico la realtà che ci accomuna, che ha su di essa un punto di osservazione irripetibile. Come appare il mondo ai suoi occhi? E se appare diverso, allora cos’è la ‘realtà’? Esiste un modo unico, vero e corretto di osservare il mondo? Quello umano è l’unico modo possibile o il ‘migliore’ di abitarlo?

In secondo luogo, cambierebbe anche il modo di relazionarsi agli altri animali: se ogni essere vivente è uno paio di occhi autonomo che ci guarda e che quindi sta lì da prima che lo osserviamo noi e indipendentemente da noi, allora la sua stessa esistenza è indipendente dall’uomo. Questo significa che ogni essere vivente possiede una vita propria irriducibile ed eccedente ad ogni ‘uso’ umano, ad ogni funzione che egli riveste per l’uomo. Nel suo esserci e vivere indipendentemente da noi, nel suo condurre una vita propria, ogni animale ha una propria identità che eccede ogni categoria funzionale l’uomo gli proietti addosso e che non può essere ridotta a mezzo per la soddisfazione di bisogni umani. Il nostro cane è un figlio per il genitore, un padre o una madre per i suoi piccoli, un pericolo per il gatto del nostro vicino di casa, un compagno di giochi per il cane che incontra tutte le mattine al parco, non solo un nostro pet. Allo stesso modo un maiale è molto di più che non solo carne, un topo che non solo cavia e un elefante che non solo oggetto di interesse in uno zoo.

In terzo luogo, sapersi osservati significa anche tenere in conto il fatto che le nostre azioni sono viste, vissute sulla pelle e interpretate dagli altri esseri: questi ultimi, cioè, non ne sono indifferenti. Le azioni umane hanno un impatto sulle loro esistenze e perciò si caricano di un significato ulteriore rispetto quello che viene loro attribuito dall’uomo. Quando percepiscono, gli esseri viventi attribuiscono significati alle sensazioni, i quali sono legati alla loro personalità, al loro stato emotivo contingente, ai loro bisogni e interessi specifici. Agli occhi di un cane come appare e cosa significa il nostro rientro a casa? E la costruzione di un’autostrada agli occhi del cervo che abita quel territorio?

Tutto questo significa, allora, che agendo l’uomo deve tenere in considerazione l’esperienza che altre vite fanno delle sue azioni: è necessario, cioè, riconsiderare le azioni umane alla luce di occhi, sguardi e significati che umani non sono.

Concludo con una nota metodologica che serve soprattutto a me, come campanellino da tener sempre presente: nell’affrontare i vari temi è necessario tener conto del fatto che la stessa indagine sulla relazione tra due volti non è oggettiva. Essa non è condotta da uno spettatore assoluto, bensì da un essere umano e questo è tanto inevitabile quanto fondamentale da tener presente. Ogni indagine, dunque, soffrirà di limiti, pregiudizi, precomprensioni, categorie che non appartengono al fenomeno in sé, ma a me, Giulia, essere umano che lo indaga. Di certo è un limite, ma imprescindibile e inaggirabile, e che può essere anche un punto di forza e di onestà intellettuale se se ne tiene conto continuativamente.

Con questa breve introduzione e presentazione spero di avervi almeno incuriosito e che sia la curiosità a spingervi a seguirmi in un percorso, questo, che non vuol affatto essere l’esposizione di verità ma una ricerca, un continuo domandarsi, mettersi in discussione, cambiare prospettiva e osservare ciò che si rivela. Cercare di comprendere meglio le relazioni umani-non umani assumendo sempre nuovi e inattesi punti di osservazione e, attraverso questi, cercare di ridefinire le coordinate della concezione e delle azioni che l’essere umano riserva agli altri esseri viventi: questo è lo scopo.

Se cercate verità non le troverete, se cercate risposte definitive non le troverete.

Troverete domande e interrogatavi che agitano e muovono una mente che non si vuole accontentare, una mente che crede solo nel potenziale trasformativo del pensiero.

 

 

RIFERIMENTI:

Derrida Jacques, L’Animal que donc je suis, Galilée, Paris, 2006. Edizione utilizzata: L’animale che dunque sono, a cura di Massimo Zannini, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2020.

John Berger, About looking, Writers and readers company, London, 1980. Edizione utilizzata: Sul guardare, a cura di Maria Nadotti, Mondandori, Milano, 2003.