Pom Poko: una riflessione sull’agency animale nell’antropocene

Pom Poko: una riflessione sull’agency animale nell’antropocene

Nel film d’animazione “Pom Poko”, prodotto dallo Studio Ghibli, il regista Isao Takahata presenta una narrazione stimolante e originale che va oltre i confini di una visione antropocentrica del mondo. Lo spettatore è immerso nel punto di vista di una vivace comunità di tanuki, il cane procione giapponese (Nyctereutes viverrinus). Attraverso le lenti del pensiero ambientalista e antispecista, il film narra la lotta della comunità di tanuki contro la costante espansione dell’urbano e le conseguenti disconnessioni umane dalla natura e dalle sue forze.

Ambientato in Giappone alla fine degli anni ’60, la comunità di tanuki si trova minacciata dalla perdita del proprio habitat a causa del rapido sviluppo urbano nei sobborghi di Tokyo. Con il loro territorio sempre più ridotto di anno in anno, inizialmente la comunità si divide in lotte interne per le risorse e successivamente cerca di limitare la propria crescita demografica astenendosi dalla riproduzione. Infine, i tanuki giungono alla conclusione che la loro qualità di vita non può essere compromessa dall’ingiusta espansione umana. Desiderosi di preservare il proprio modo di vivere, i tanuki si impegnano strenuamente per proteggere la loro terra dall’avanzare dell’urbanizzazione. Sfruttando le loro abilità di trasformazione (in linea con la tradizione giapponese, i tanuki possiedono poteri di metamorfosi), essi intraprendono una serie di azioni di resistenza contro i progetti di costruzione

Sfruttando la loro capacità di trasformarsi in spiriti, cercano di spaventare gli operai edili nella speranza che gli umani riconoscano lo scontento degli spiriti della foresta causata della distruzione dell’habitat. I tanuki si trasformano così in veri attivisti che lottano per la loro esistenza e, di fronte alla mancanza di risultati delle loro azioni, passano a forme di resistenza più decise, sabotando, distruggendo attrezzature e persino ferendo operai. Tuttavia, nonostante gli sforzi, il processo di costruzione continua inarrestabile e i tanuki, ormai allo stremo, cercano aiuto presso un’altra comunità di cani procione. Quest’ultima comunità prospera ancora grazie al rispetto e alla reverenza dei loro vicini umani verso gli spiriti della natura, manifestati attraverso le forme che i tanuki assumono ritualmente. Con il sostegno degli anziani di quest’altra comunità, i tanuki si trasformano in spiriti e organizzano una sontuosa parata in città: un ultimo tentativo per richiamare l’attenzione sulle potenti forze vitali della natura.

Senza dubbio, pensano i tanuki, questo farà comprendere agli umani che le loro azioni stanno danneggiando gli ecosistemi e li porterà a prendere coscienza dei propri errori. Tuttavia, gli abitanti di Tokyo si differenziano nettamente da quelli delle aree rurali da cui provengono gli anziani tanuki. Questi cittadini sono completamente estraniati e indifferenti alla natura e ai suoi spiriti, e assistono allo spettacolo come se fosse una finzione. Un parco divertimenti locale non lascia passare l’occasione per rivendicare il merito di tale evento, mettendo così fine a qualsiasi dubbio sulla natura del fenomeno.

I tanuki hanno fallito. Le costruzioni non si fermeranno.

Senza altre alternative, i trasformisti più esperti utilizzano i loro poteri per assumere le sembianze umane, mentre coloro che non possono trasformarsi rimangono nella loro forma di tanuki. I trasformati cercano di mimetizzarsi il più possibile da umani, adottando le loro consuetudini, lavorando e cercando di integrarsi tra gli altri umani, ma a scapito di un costante affaticamento e di evidenti occhiaie. Quando sono troppo esausti, i trasformati rischiano di tornare alla loro forma di tanuki e per evitarlo devono ricorrere a caffeina e bevande energetiche, l’unico modo per tenere il passo con il ritmo di vita umano.

I tanuki che non possono trasformarsi in umani sono anch’essi costretti a vivere nella nuova area urbana, affrontando le difficoltà di esistere in un ambiente antropogenico, esposti a roadkilling e a innumerevoli altre incertezze. La storia si conclude con uno dei protagonisti, ora divenuto umano, che tornando dal lavoro avvista un gruppo di tanuki non trasformati giocare in un parco. In un gesto di spontanea gioia, abbandona momentaneamente la sua forma umana per unirsi ai suoi compagni e trascorrere una serata meravigliosa  con loro.

I tanuki che non possono trasformarsi in umani vivono anchessi nella nuova area urbana, affrontando le difficoltà di esistere in un ambiente antropogenico, incorrendo a roadkills e in innumerevli altri pericoli ed incertezze. La storia si conclude con uno dei protagonisti, ora umano, che torna dal lavoro e vede un gruppo di tanuki non trasformati giocare sull’erba in un parco. In un balzo di gioia, abbandona la sua forma umana per unirsi ai suoi compagni e divertirsi con loro per l’arco di una magnifica serata.

Agency animale in un mondo antropico:

L’animazione di Isao Takahata ha moltissime linee di analisi di cui qui ho deciso di non occuparmi. Tra le evidenti, il film rappresenta la perdita di connessione con la natura a causa dell’alienazione causata dallo stile di vita cittadino. Mentre gli umani prioritizzano la crescita economica e lo sviluppo tecnologico, trascurano l’interconnessione tra loro e il mondo naturale che una volta esisteva. L’antropocentrismo regna supremo, relegando gli esseri non umani ai margini della considerazione. La lotta tra antropocentrismo ed ecocentrismo, tra forze vitali e dominio umano sulla natura, è un tema comune nei film dello Studio Ghibli, come possiamo vedere in Nausicaä della Valle del Vento o nel La Principessa Mononoke.

Tuttavia, a mio parere, la caratteristica più originale di questo film è il suo meraviglioso focus sulla rivoluzione, sull’agency e la sulla resistenza degli animali in un mondo che costantemente li opprime. Infatti, lo sviluppo della storia stessa è resa possibile dall’agency che i tanuki reclamano. L’agency degli animali non umani è qualcosa che facilmente dimentichiamo, come mostrato in Pom Poko. Gli abitanti della città sono così disconnessi dalla natura, così dimentichi delle sue voci e manifestazioni, che non possono concepire che gli spiriti che spaventano gli operai edili e, successivamente, la parata degli spiriti, siano modi con cui il mondo naturale, attraverso i tanuki, parla loro.

Il film ci ricorda che il primo passo per permettere l’oppressione continua di una minoranza è silenziarli, negare le loro voci e dunque non rispondere alle loro rivendicazioni. Questo è esattamente ciò che accade quando gli umani ignorano le performance di trasformismo dei tanuki, anche se il loro significato è evidente per le persone più “superstiziose”. Nelle filosofie umaniste, l’agency del mondo non umano è vista come una fabbricazione di menti superstiziose e non scientifiche. Anche dopo aver avuto innumerevoli prove scientifiche che mostrano chiaramente le capacità cognitive delle menti animali, l’atteggiamento generale nei confronti dell’agency non umana è al massimo scettico. Assordati e accecati dall’antropocentrismo, non importa quante modifiche comportamentali gli animali selvatici facciano per segnalare il loro disagio, chiedendo attenzione a fronte dell’oppressione umana, la maggior parte del mondo è restia a fare spazio a coloro che pensano non avere una voce, e quindi una rivendicazione. Per la maggior parte della fauna selvatica, resistere senza essere assorbiti dalle attività umane è impossibile, e il film, a differenza delle altre produzioni dello Studio Ghibli, non ha un lieto fine. Gli habitat vengono distrutti ogni giorno, e gli animali selvatici vengono costretti nelle aree urbane. Quale tipo di vita offre la città alla fauna?

Nelle filosofie postumaniste, si compie uno sforzo significativo per capire come poter trasformare pragmaticamente le città per ospitare molteplici interessi e corpi, compresi quelli non umani. Esplorare come progettare città che possano migliorare la vita degli altri animali è una domanda che il film ci lascia, partendo dal fatto che ormai la distruzione degli habitat è ormai avvenuta. In Pom Poko, il tema delle città come geografie di oppressione per altri animali (sia quelli che lottano per sopravvivere sia quelli che prosperano troppo bene e quindi sono considerati parassiti) è chiaramente rappresentato attraverso la distruzione dell’habitat dei tanuki, la loro rimozione e i pericoli affrontati dai non-trasformati, come le roadkill. Nella scena finale, quando il protagonista tanuki-umano incontra di nuovo i suoi simili non trasformati, un cane procione chiede al tanuki-umano di convincere gli altri cittadini a creare un migliore habitat in città per gli animali che non possono trasformarsi. I trasformisti sono l’unico ponte che può comunicare il messaggio al resto della città, poiché gli umani accettano solo messaggi consegnati attraverso la propria voce umana. L’agency dei tanuki è anche evidente qui, attraverso il ruolo di messaggero del trasformista. Se parlerà con gli umani, è perché i tanuki lo hanno chiamato a farlo. (Ti ricordi, nelle tue scelte quotidiane, nel tuo attivismo, nella tua scrittura, che stai facendo queste cose perché l’agency di qualcun*, la voce di qualcun*, ti ha chiamat*?) Attraverso i loro sforzi collettivi, la comunità di tanuki sfida l’egemonia del dominio umano e afferma il loro diritto ad esistere in due momenti: prima, al di fuori delle aree umane, e poi, all’interno delle geografie antropiche a loro forzate. Le vite dei tanuki non saranno mai assimilate; infatti, neanche quelli in grado di trasformarsi vivono veramente come umani. A mio parere, una delle riflessioni fondamentali di questo film è la costtazione che gli animali non umani combattono ogni giorno per la loro esistenza, per una vita che, anche quando soffocata e uccisa dalle geografie urbane, si rifiuta di rinunciare a cercare di prosperare. I tanuki continuano a formare comunità, giocare, accoppiarsi e creare nuovi modi di vita. Nelle scene finali, la contrapposizione tra il tanuki morto per un incidente stradale e la danza gioiosa dei cani procione in un parco è emblematica del mondo che la fauna deve abitare. Essa dimora nell’ambivalenza di un’esperienza di vita condivisa da molte comunità rese minoritarie: respirano in una società non respirabile, corrono attraverso strade di morte, sono forzatamente rimossi dalle loro case e costretti a costruirne di nuove.

Alla fine del film, la comunità di tanuki viene violentemente catapultata nel mondo urbano senza possibilità di scelta. Tuttavia, non vengono mai assorbiti da esso; non perdono la propria identità potente solamente nel ruolo di vittime, ma affermano piuttosto l’agenzia delle proprie vite, un’agenzia spesso espressa proprio perché le loro vite sono negate. I tanuki continuano a creare gioia in mezzo alla morte e allo spostamento.

Questo film ci ricorda che tutti gli animali non umani hanno ancora la possibilità di prosperare, di creare il proprio futuro e le loro storie personali, e ci offre un ultimo appello all’azione basato su questa consapevolezza. Da un punto di vista post-umanista, le città e le aree urbane sono sempre geografie in cui gli animali non umani sono presenti. Non solo formano le proprie comunità, ma contribuiscono attivamente all’emergere di molteplici modi di navigare i nostri spazi condivisi. Partecipano a controculture umane in corso e la loro esistenza ci interpella e suscita profonde domande su cosa significhi vivere bene insieme. Essi illustrano la relazione tra colonizzatore e colonizzato, tra comunità oppresse e le strutture alienanti del potere e della biopolitica.  Pom Poko è un appello struggente ad ascoltare le richieste di coloro che non possono rinunciare alla vita, perché creare nuovi spazi di esistenza è l’unico ricorso quando si è oppressi dalla morte. Fermare questa oppressione è il nostro dovere. Rispondere alla loro voce sottolinea il riconoscimento della loro agency, il che ci richiede di smantellare l’umanesimo e l’antropocentrismo. Pom Poko ci chiede di abbracciare una posizione post-umanista nei confronti dei tanuki e della natura nel suo complesso.

Ripensando allo Scarafaggio: un’ Incarnazione Postumana ed Ecofemminista di Liberazione

Ripensando allo Scarafaggio: un’ Incarnazione Postumana ed Ecofemminista di Liberazione

Tra Cataclismi e Adattabilità

Nel considerare le possibilità delle comunità multispecie postumane, desidero spostare la nostra attenzione da creature maestose come il cervo, il leone o l’orso, così come dagli animali domestici familiari. Preferisco entrare in dialogo su una specie spesso accolta con apprensione: lo scarafaggio. La resistenza degli scarafaggi attraverso eventi di estinzione di massa, come quelli che segnano la conclusione del periodo del Permiano e dell’era del Paleozoico circa 245 milioni di anni fa, sottolinea l’affascinante storia evolutiva di questi insetti. Appena il cinque percento delle specie ha sopravvissuto a questi due cataclismi, facendo dello scarafaggio una specie che a lungo ha accompagnato la vita sulla Terra. Le epoche successive hanno riconfermato la tenacia dello scarafaggio nel sopravvivere a estinzioni, comprese quelle del tardo Triassico (208 milioni di anni fa), Giurassico (144 milioni di anni fa), l’evento ‘K-T’ dei dinosauri, il tardo Eocene (37 milioni di anni fa) e il Pleistocene (circa 10.000 anni fa). Sebbene i dati sulla distribuzione delle specie lo smentiscano, gli scarafaggi sono diventati nel nostro immaginario una specie strettamente legata agli ambienti urbani moderni. Tuttavia, sappiamo che diverse specie di scarafaggi sono legate a habitat specifici, che vanno dall’interno del bambù alle zone umide al di sotto delle cascate, ai nidi di formiche e termiti, alle grotte dei pipistrelli, alle tane di animali (compresi quelle umane!) e persino alle miniere. Globalmente, esistono circa 4.500 specie di scarafaggi, molte delle quali in pericolo di estinzione. Nonostante il gran numero di queste specie, solamente 26 di esse sono incluse nell’elenco IUCN e per nessuna di loro se ne conoscono le dinamiche di popolazione. Gli artropodi attualmente costituiscono oltre il novanta percento delle specie animali esistenti. Ignorare la narrazione storica di queste specie perpetua una visione ristretta della vita planetaria, favorendo l’erronea idea che l’evoluzione si sviluppi invariabilmente lungo una traiettoria predeterminata che culmina nella vita umana. Un’analisi approfondita della cronaca degli scarafaggi sarebbe affascinante e la loro testimonianza offrirebbe un punto di vista unico, fornendo preziose intuizioni sulle comunità multispecie di cui sono stati parte. Oltre ad aver associato questi animali alla sola città, essi sono anche ritenuti sporchi. Gli scarafaggi non sono però intrinsecamente sporchi, ma possono diffondere germi in un ambiente già contaminato. Le allergie o le malattie associate agli scarafaggi derivano dalla loro residenza in ambienti inquinati. Come decompositori naturali, essi contribuiscono alla fertilizzazione del suolo e al riciclo di foglie morte e rifiuti verdi, estendendo la loro rilevanza ecologica persino nei paesaggi urbani. Riconoscere il loro ruolo poliedrico nella gestione dei rifiuti invita a riflettere sulla vita che questi insetti conducono negli ecosistemi dominati dall’uomo, vita che, dal nostro sguardo antropocentrico, viene ridotta violentemente al ruolo di “peste”.

Esistenze ai margini

Una ricognizione critica nella storia della tassonomia e delle scienze naturali rivela come l’osservazione e lo studio delle vite, umane e non, sia intrinsecamente legati a giudizi morali, estetici e, più ampiamente, a una prospettiva antropocentrica e gerarchica. La classificazione delle forme di vita spesso si fondava su criteri come l’edibilità, la docilità e l’utilità. Un’altra categorizzazione si focalizzava su giudizi estetici, basati su una valutazione soggettiva dell’appeal visivo. Specie quali scimmie, rane, ratti, rettili, insetti e anfibi risultavano spesso condannate a essere percepite come dotate di un aspetto ridicolo e ripugnante. La repulsione verso rettili, insetti e anfibi raggiunse un culmine significativo alla fine del XVIII secolo e ancora oggi specie in grado di evocare repulsione o carenti di “carisma” si trovavano frequentemente sottoposte a marginalizzazione, un fenomeno opportunamente denominato “chauvinismo tassonomico”. Questa marginalizzazione si evidenzia sia nelle iniziative di conservazione che nel dibattito pubblico sull’impegno per la biodiversità. Fondamentalmente, essa riflette un pregiudizio secondo cui alcune specie, giudicate poco attraenti o sgradevoli secondo gli standard umani, vengono trascurate o sottovalutate sia negli sforzi volti alla conservazione sia nelle narrazioni più ampie destinate a coinvolgere il pubblico. Tale pregiudizio può generare uno squilibrio nelle priorità di conservazione e ostacolare la comprensione più ampia dei complessi ruoli che queste specie meno carismatiche o repulsive svolgono negli ecosistemi. Prospettive antropologiche contemporanee avanzano l’ipotesi che il diffuso pregiudizio contro creature come gli scarafaggi possa essere attribuito al loro status percepito come estremamente “diverso da noi”, caratterizzato come una “deformità” che provoca disgusto e apprensione. Questa inclinazione trova ancora riscontro storico nel movimento romantico del XIX secolo, nonostante la sua generale difesa del mondo naturale. I romantici, pur elogiando la natura, la concepivano ancora come uno specchio dell’umore e delle emozioni umane. In contrasto con l’ammirazione riservata a scarabei e farfalle per la loro vibrante diversità di forme e colori, lo studio degli scarafaggi è storicamente alimentato dall’avversione umana. La maggior parte delle ricerche dedicate agli scarafaggi è stata orientata allo sviluppo di metodologie più efficaci per la loro eliminazione.

Il pregiudizio nei confronti di questi insetti si palesa anche nel linguaggio.

Utilizzare l’appellativo “scarafaggio” per descrivere un individuo comporta il sottinteso di attribuirgli la posizione più bassa nella scala sociale e suggerisce una dispensabilità che ne permette l’eliminazione senza alcun senso di rimorso. Questo linguaggio dispregiativo è spesso rivolto alle minoranze etniche e agli individui provenienti da altre nazioni, raffigurandoli come parassiti da dover gestire ed eradicare. Tali espressioni linguistiche non solo riflettono atteggiamenti discriminatori, ma contribuiscono a rinforzare la marginalizzazione e l’oggettificazione di specifici gruppi sociali, al contempo perpetuando stereotipi e pregiudizi nei confronti degli scarafaggi.

Nelle rappresentazioni letterarie, emergono chiare analogie tra gli esseri umani e gli scarafaggi. Questo tema ricorrente, che affonda le sue radici almeno nella Grecia Classica, evidenzia il ruolo prominente a loro assegnato. Essi non sono solo i protagonisti di narrazioni individuali, ma simboleggiano in modo emblematico le lotte dei vulnerabili, degli oppressi e di coloro relegati ai margini, individui costretti a sopportare sotto la superficie, tra i buchi e le crepe. Nel contesto della letteratura latinoamericana, gli scarafaggi emergono frequentemente come figure simboliche strettamente legate alle esperienze della comunità. In questo contesto, il poeta portoricano Pedro Pietri, nel suo lavoro ‘Suicide Note from a Cockroach in a Low-Income Housing Development’, attribuisce al suo narratore scarafaggio un monologo toccante. Il protagonista riflette sulle difficoltà patite nella sua esistenza povera e marginalizzata, una condizione in cui si ritrovano gli esseri umani confinati nelle slum. L’incontro giornaliero tra i corpi umani e i corpi degli scarafaggi nelle slum risulta in una comprensione della condizione di oggettificazione che unisce le vite umane e non umane, creando un potente dispositivo narrativo e gettando luce sulle lotte condivise indipendentemente dalle specie. Ricordo che lo specismo si trova alla base del processo di deumanizzazione, permettendo l’oggettificazione affrontata dalle minoranze umane. Entrambe le discriminazioni comportano la marginalizzazione di gruppi specifici, concedendo loro una considerazione morale inferiore basata su criteri arbitrari.

Intraprendere un dialogo con lo scarafaggio ci permette inoltre di individuare una risonanza simbolica con l’ecofemminismo e le filosofie postumane.

 

CATHERINE CHALMERS – FLOATING CORPSES, from AMERICAN COCKROACH, EXECUTIONS.

 

Scarafaggi ecofemministi

Lo scarafaggio non è soltanto intrecciato, sia materialmente che metaforicamente, con i marginalizzati della società. Esso occupa anche un profondo regno di forze ctonie e vitali, incarnando sia la luce che l’oscurità sfidando le dicotomie occidentali. Gli entomologi culturali hanno osservato che, nella mitologia nativa americana, in particolare quella delle regioni tropicali, gli scarafaggi, insieme ad altri insetti, assumono ruoli spesso cosmologici. Nella tradizione Navajo, per esempio, simboleggiano le origini primordiali della vita. Da un punto di vista biologico e anche mitologico, questi insetti emergono come i nostri antenati e offrono uno sguardo su un mondo quasi dimenticato, una dimensione in cui la nostra connessione con la natura e altre specie trova le sue radici. Nella letteratura moderna, si trova un celebre esempio di scarafaggio nelle “Metamorfosi” di Kafka. Walter Benjamin e il traduttore di Kafka, Jay Neugreshel, tra gli altri, sostengono che Kafka volesse che il suo pubblico percepisse i suoi numerosi personaggi animali, incluso lo scarafaggio, esattamente in quanto tali. Affermano che Kafka avesse l’intenzione di instillare nei suoi lettori una connessione mentale ed empatica verso i personaggi non umani. Accogliere questa interpretazione implica esplorare la storia di Gregor Samsa andando oltre la critica dell’alienazione capitalista. Essa si sviluppa in una contemplazione postumana, un’indagine sulla vita dello scarafaggio stesso e sulla nostra intricata relazione con questo insetto. In un contesto postumano, quale ruolo possono assumere soggetti definiti “parassiti”? Comprendere la presenza degli scarafaggi nelle nostre vite e riconoscere la loro prospettiva nella comunità multispecie richiede un profondo cambio di paradigma. Questa prospettiva sfida la categorizzazione antropocentrica del mondo, che separa i corpi, stabilisce gerarchie e crea “altri” sfruttabili. La narrazione di Gregor si sviluppa nel tessuto del realismo magico, un genere letterario in cui, come afferma Matthew Strecher, “un ambiente altamente dettagliato e realistico è invaso da qualcosa di troppo strano per essere creduto”. Nel pensiero antropocentrico, gli scarafaggi s’introducono come una soglia tra il conosciuto e l’ignoto, tra il reale e il mostruoso, tra il comune e il sotterraneo. Mentre il realismo si rivela come la mera proiezione del nostro limitato punto di vista antropocentrico sul mondo, imprigionandoci in una realtà oggettificata e oggettificante, gli scarafaggi emergono come il pensiero e i corpi dell’altro, sorprendendoci con una frattura che amplia gli orizzonti. Questa frattura non è che un’espansione di esistenze e temporalità, un riconoscimento che puó generare terrore e che in passato avremmo certamente etichettato come “magico”. Gli scarafaggi rappresentano un regno così alieno da resistere all’assimilazione nella nostra comprensione utilitaristica delle altre specie. Mentre gli scarafaggi si muovono attraverso le fessure di un paradigma antropocentrico, non solo lo mettono in discussione, ma intagliano anche territori liminali da queste stesse crepe. Questi spazi trascendono le semplici superfici fisiche; diventano luoghi dove entità non umane e corpi e menti non normabili rivendicano la loro esistenza in presenti e futuri collettivi. In questi spazi gli scarafaggi ci esortano a riconoscere l’inquietante, lo strano e l’indomato come elementi fondamentali che conferiscono alla vita, così come la conosciamo, la sua profonda ricchezza e complessità. Senza questi aspetti il mondo che abitiamo perderebbe l’essenza stessa che lo fa prosperare. Nelle narrazioni ecofemministe, lo scarafaggio emerge come non solo un simbolo di inarrestabile resilienza, ma anche un vettore di energie ctoniche – un ambasciatore proveniente dai regni sotterranei che audacemente sfida il nostro sguardo. L’insetto racchiude l’analisi di Donna Haraway sul Cthulhucene e la sua evocazione di forze profonde, invitandoci ad abbracciare l’autonomia della vita che pulsa sotto la superficie e resiste al nostro controllo. Incorporando il simbolismo dello scarafaggio nell’ambito dell’ecofemminismo e del postumanesimo, abbracciamo con determinazione una prospettiva ecocentrica radicale che riconosce la natura come composta da soggetti e forze intrinsecamente dotate di agency, esistenti indipendentemente dalle nostre preferenze e del racconto umano sulla vita. Nel suo influente lavoro ‘A Cyborg Manifesto’, Haraway abbraccia la figura del cyborg come metafora per superare categorie fisse. Il cyborg è un’entità mostruosa che sfuma le distinzioni tra umano e macchina, natura e cultura. Haraway vede il mostruoso non come qualcosa da temere, ma come un potente simbolo di resistenza e sovversione. Il cyborg, come figura mostruosa, disturba le nozioni convenzionali di identità e sfida le strutture oppressive. Esso diventa un simbolo di potenziamento e liberazione, specialmente per i gruppi emarginati, poiché incarna un rifiuto di conformarsi. Attraverso queste lenti, possiamo vedere che lo scarafaggio è una specie che chiama visceralmente riflessioni analoghe a quelle esposte da Haraway. Gli scarafaggi sono, sia materialmente che metaforicamente, corpi e presenze mostruose nello spazio antropocentrico delle nostre menti. Sono gli estremi “altri” che occupano spazi e si ribellano, sono l’archetipo della “peste” e dell’indesiderato, dell’incompreso e del marginalizzato. Sono i corpi umani e non umani, le entità e le forze naturali di cui ci siamo serviti per realizzare un progetto di mondo antropocentrico e colonialista. Essi sono anche incredibili manifestazioni del tempo geologico profondo e della storia multispecie attraverso la vita e l’estinzione, incarnazioni di orizzonti postumani. Emergendo dalle crepe, sono profondamente collegati con forze ctoniche e rappresentano una natura vibrante e pulsante che sfugge alla gestione e categorizzazione umana. Nel contesto letterario del discorso femminista, Angela Carter, attraverso le sue avvincenti narrazioni in ‘La camera del sangue’, ridefinisce il femminile mostruoso come una forza emancipatrice. I racconti di Carter reinventano fiabe tradizionali, presentando figure femminili mostruose che sfidano le norme sociali e i ruoli di genere convenzionali. Queste figure diventano agenti di trasformazione e liberazione. Proprio come l’esplorazione letteraria di Carter del mostruoso come forza di sfida contro i vincoli patriarcali, lo scarafaggio emerge come una forza ctonia che sfida il controllo umano. Il mostruoso di Carter trova riscontro nelle qualità sovversive dello scarafaggio, incarnando sia il rifiuto di sottomissione che la forza di nascondersi e emergere dalle crepe per aprire le possibilità di un mondo radicalmente differente. Nella danza tra il mostruoso e il ctonico, si svela una narrazione di liberazione che invitandoci ad abbracciare il potenziale trasformativo dello scarafaggio.

CATHERINE CHALMERS. ELMO from AMERICAN COCKROACH, RESIDENTS.

Anti-specismo, Post-umanesimo e Post-specismo

Anti-specismo, Post-umanesimo e Post-specismo

Saremo mai post-umani, e come?

Se essere-umani™ è un atto performativo, esplorare con azioni e pensieri nuovi modi di stare al mondo è già adottare una postura post-umana. In questa avventura, parafrasando Timothy Morton, saremo tutt* più stran*, per lo meno agli occhi di quell’idea di umano che stiamo decostruendo. Dalla prospettiva umanista le filosofie (post-sofie) del post-umano sono sicuramente non-normative, stravaganti e, forse, per tale motivo più adeguate a ragionare e giocare con la materialità del mondo da cui esse stesse emergono.

In questo blog, Orizzonti di Postsofia, rifletteremo assieme su cosa significa abitare corpi e mondi post-umani e quali orizzonti possiamo immaginare a partire dall’intreccio multispecie del reale. La postsofia è una filosofia del fare e del pensare assieme, per tanto questo blog è da leggere-con: leggere con me, Eleonora, con l’ambiente in cui vi trovate e con gli umani e i non-umani che incontrate ogni giorno. Questi articoli sono gocce sospese nell’aria che aspettano di essere lette per poter rifrangersi in nuovi colori, lungo orizzonti ancora da scoprire.

Ho deciso di dedicare questo primo articolo ad un tema fondamentale per i postumani e a me carissimo: lo specismo e la sua decostruzione nel mondo postumanista. Rifletteremo brevemente sulle possibilità esistenziali che tale decostruzione porta seco, ma anche su come alcune interpretazioni di spicco nel discorso postumano nascondano derive antropocentriche. Concluderò sostenendo che, essere-con il mondo in modo postumano richiede giustizia per tutti i non-umani, una giustizia multispecie.

Iniziamo dunque dalle basi!

Cos’è lo specismo?

Con questo si intende generalmente che l’oppressione e l’utilizzo degli animali non-umani è giustificato, solo o primariamente, dalla loro non appartenenza alla nostra specie. Dunque, si tratta di una discriminazione basata su di una divisione antropocentrica: noi umani da una parte, tutti gli altri animali dall’altra (con un dualismo violento). Da Peter Singer ai Critical Animal Studies, decostruire lo specismo ha significato anche decostruire l’antropocentrismo: la credenza che noi umani, o almeno un certo modello di umano™ debba avere di diritto una posizione di privilegio e superiorità nel mondo. Estendendo queste considerazioni, il post-umanesimo decostruisce la nozione di umano™ come qualcosa di definito, immutabile, separato dagli ecosistemi e, al contempo, al vertice dell’evoluzione della vita. L’umano è un animale, e non quello più speciale. Questa decostruzione ci lascia tutt’altro che scissi, anzi, è di per sé una decostruzione che costruisce e unisce: il post-umano è un divenire-con denso di relazioni e storie, intrecciato con la materialità del mondo e delle soggettività che essa racchiude.

Ma di che relazioni stiamo parlando? Come immaginare incontri oltre lo specismo? 

Tra le filosofie post-umaniste vi è una differenza tra un approccio anti-specista “classico” e uno che Corey Lee Wrenn definisce “post-specista”.

Cosa siamo? Post-umani! Ma…come lo siamo?

Donna Haraway è sicuramente una figura chiave per immaginare futuri postumani. Nel suo celebre libro Staying With the Truble (2016), Haraway ci parla di “mondi multispecie” fatti di identità ibride e companion species, specie che hanno con noi un legame sociale, psicologico ed evolutivo. Haraway ci invita ad abitare un mondo multispecie con esse, basato su di un divenire-con e prendersi cura reciproco, un mondo dalle volontà complesse e multidirezionali, in cui l’umano è un abitante tra gli abitanti.

Ma cosa significa praticamente? Come la nostra relazione con le altre specie muta a seguito di queste considerazioni?

La visione di Haraway a tal riguardo è per molti post-umanisti, me compresa, estremamente fallace. Haraway, infatti, include nelle relazioni “reciproche” tra umano e non-umano pratiche violente, tra cui quelle dell’allevamento per scopi alimentari e non. La sua filosofa promuove sì una visione di mondo multispecie, ma in cui la volontà e la vita degli altri animali rimane narrata da una prospettiva utilitarista-antropocentrata. Nell’orizzonte di Haraway, umano e non umano si incontrano sul piano della materialità relazionale spogliando l’umano della sua unicità ma, al contempo, questo incontro mantiene una deformazione specista nelle strutture di potere..

Corey Lee Wrenn esamina come la dissoluzione dei confini tra umani e altre specie, il post-specismo, sia facilmente usato da filosofe e filosofi come “porta sul retro” da cui far entrare nuovamente l’antropocentrismo. Pensando con le sue parole, qui tradotte da me:

Il post-speciesismo è un’ideologia che suggerisce che le specie non abbiano importanza […] si basa sulla convinzione che siamo “tutti uno [tutti animali]” e che abbiamo tutti un posto uguale sulla terra o nel “cerchio della vita”. La violenza contro gli animali continua a vantaggio degli esseri umani, ma questo non viene più interpretato come una forma di oppressione o dominazione. In altre parole, le differenze di opportunità di vita basate sull’identificazione di specie vengono cancellate dalla narrazione.”

Wrenn porta ad esempio quello degli allevatori, i quali spesso erodono ulteriormente il confine tra umani e non umani “riferendosi alle loro vittime non-umane come figli, familiari o amici”. Haraway riconosce sì una volontà individuale agli animali non umani, ma ritiene che gli interessi di questi siano in sintonia con quelli umani. Così facendo questo orizzonte di post-umanesimo si differenzia dal mio e da altri, spostandosi da una critica anti-specista del rapporto umani-animali ad un endorsement “al di là del bene e del male” del concetto di divenire-con. Se la nostra è una filosofia post-umanista, questa deve essere per forza di cose una filosofia anti-specista.

L’orizzonte che propongo, assieme a pensatrici come Wrenn e Zipporah Weisberg, è fatto sì di mondi multispecie, ma soprattutto di giustizia multispecie. I futuri post-umani devono essere mondi di liberazione, in cui i soggetti non-umani possano sognare e attuare le proprie esistenze senza essere oppressi.

 

Riferimenti:

Haraway J. Donna, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene,  Duke University Press, 2016.

Weisberg Zipporah, “The Broken Promises of Monsters: Haraway, Animals and the Humanist Legacy” in Journal for Critical Animal Studies, Volume VII, Issue II, 2009.

Wrenn L. Corey, Animals in Irish Society: Interspecies Oppression and Vegan Liberation in Britain’s First Colony, State University of New York Press, 2021.