Mordere e baciare hanno la medesima e aggressiva valenza coniugativa. Il bacio simula il morso, il morso emula il bacio. Il morso come il bacio oltrepassano le specie e i generi, le famiglie, le classi e i regni: sono il gesto estremo e rivoluzionario per eccellenza mediante il quale si superano e si abbattono gerarchie arbitrarie, frontiere immaginarie e confini inesistenti. Ti bacio così da poterti mordere ancora e ancora, ti mordo perché non posso, non so come baciarti. Ossessione e incomprensione sono dolci narcotici zoetici, propulsori stupefacenti sotto il cui effetto vita e morte danzano e si confondono. Mordere: voce del verbo baciare, ovvero di come il medesimo organo animale sia il mezzo prediletto di coniugazione con e di conoscenza del mondo. Gli occhi mantengono sempre un’irritante e pavida distanza dall’altro con noi. La vista, a cui diamo specie nella nostra cultura così tanta importanza, è un’esperienza mutilata, infedele, timida e disamorata. Lo sguardo sviene a contatto con il mondo, sfuoca fino a diluirsi e dissiparsi nel buio totale. Sono le labbra ad accogliere, sono le labbra a trattenere, a cercare e afferrare il mondo, la lingua saggia e assapora, esplora, lubrifica e giudica, respinge o insegue ciò che i denti inviteranno a restare in un abbraccio inesorabile. E’ lo stesso gruppo di muscoli, nervi, ossa e legamenti, lo stesso lembo di pelle in noi animali eterotrofi che annienta le distanze con il mondo, che dissolve il distacco tra i corpi, che unisce la materia. Attraverso le labbra il mondo ci entra letteralmente dentro, o meglio esse sono la soglia che scambia aria per un respiro, che baratta fibre per fonemi. Le labbra, la bocca sono un orizzonte epistemologico, un dispositivo cibernetico, biotecnologico che ci consente di masticare la consistenza ibrida dei corpi, di percepire la spirale frattalica in cui la materia è invischiata.
Un morso ad una mela ha cambiato le sorti dell’umana creatura biblica, una mela morsicata è uno dei loghi aziendali oggi maggiormente riconoscibili. Un morso di cinghiale procurò al prode Odisseo una inconfondibile cicatrice mentre il morso di un aspide non lasciò scampo alla celebre Cleopatra. E poi ancora i morsi di Mike Tyson e Luis Suarez, quelli del conte Dracula, di zombies e di soggetti infettati da uno strano virus, il cannibalismo rituale dell’eucarestia cristiana e l’endocannibalismo degli Wari nella foresta Amazzonica del Brasile o dei Forè delle Highlands orientali nella Nuova Guinea. La lotta di Pasteur contro l’idrofobia trasmessa dal morso dei randagi, la pizzica terapeutica per esorcizzare il morso della Tarantola e Paskedda Zau, eroina nuorese che nel 1868 strappa a morsi i documenti che privatizzavano le terre accendendo la rivolta popolare de su connotu. Il conte Ugolino della Gherardesca, si morde le mani prima di divorare, secondo il Sommo Poeta, la sua stessa prole e di azzannare l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini. William Bouguereau nel suo Dante e Virgilio nell’inferno, in primo piano dipinge il morso tra dannati di Gianni Schicchi a Capocchio.
Anche dal mondo vegetale emergono strategie di coniugazione che rievocano il morso animale, il caso forse più conosciuto e quello della Venere acchiappamosche (Dionea muscipula, Ellis 1773) una pianta carnivora originaria del continente americano di cui fu grande estimatore Charles Darwin, il quale non esitò a definire queste Dionee “the most wondeful plants in the world”.
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La Venere acchiappamosche incarna perfettamente quel connubio tra eros e tanatos, tra bacio e morso, tra gioco e delitto. L’origine del suo nome si inserisce sullo sfondo, oggi per noi altamente discutibile, di uno scambio epistolare tra naturalisti del XVIII in cui si mescolarono un po’ di latino, un pizzico di sarcasmo da osteria con epiteti allusivi in lingua nativa, ottenendo in fine un omaggio a Dionea, divinità legata all’erotismo nonché madre della dea Venere. Del resto sessualità e flora hanno un intimo, intenso e antichissimo rapporto che vibra tra sacro e profano attraverso i secoli, i miti, le arti e le letterature di tutto il mondo.
L’animale è affetto da una dacnomania tutt’altro che patologica. L’impulso di molte specie animali, e non solo animali, di mordere e quindi baciare, di baciare e quindi di mordere, ha una profonda valenza coniugativa e ibridativa: il bacio come il morso sono un atto celebrativo della vita stessa, effusione chimerica e metamorfica della materia.
L’ambiguità del rapporto umano-non umano, di Diogene con la sua lampada, del teschio di Piltdown e delle isole crimsoniane fa eco al rapporto tra interno ed esterno, tra organismo e ambiente, un rapporto contraddittorio in cui ciò che sembra influenza e contemporaneamente è influenzato da ciò che è. Se ci delineiamo e avvertiamo come frontiera di un mondo di confini, se il fatto di percepirci distaccati e diversi, separati e separabili poiché autonomi dal tutto il resto, ha avuto e continua ad vere una valenza in termini evolutivi di convivenza e trasformazione, non è possibile ne conviene negarlo. Per secoli abbiamo guardato il sole attraversare la volta celeste girando attorno alla Terra e in base a questo abbiamo navigato, coltivato, costruito intere città, recitato preghiere e compiuto sacrifici. Aver successivamente visto che il nostro pianeta intrattiene una differente relazione con la sua stella ha modificato profondamente le nostre coscienze ma ha risparmiato i nostri occhi che continuano incuranti a seguire il sole nel suo viaggio uranico. Individualità ed eliocentricità condividono entrambe la necessità di una discendenza, sono posizionamenti fortemente legati alla memoria, sono sistemi dipendenti dalla trasmissione e dal passaggio di un ricordo. Sono costruzioni bio e geo-culturali capaci di convivere e sovrapporsi in pace e contraddittorietà con altri, infiniti, posizionamenti e sistemi, con gradi di influenza diversi ma pur sempre in reciproca contaminazione tra loro. Eppur si muove, eppur sono mondo. Accogliere questa dimensione eco-ontologica (Marchesini 2018) non modificherà forse i nostri occhi ma può intimamente influenzare il nostro sguardo ed educare certamente la nostra visione.
Corro, salto, mi arrampico.
Striscio, nuoto, volo.
Mangio, mi accoppio, dormo. Sogno.
Animale vagile, vago, mi muovo, passo e passo oltre.
Attraverso il corpo, altri corpi schiaccio, afferro, evito e scosto, mi sposto.
Io penso dico io, potrei dire io faccio io sono
ma come ignorare gli occhi, i suoni e tutto il resto che mi sento addosso?
Essi sono sono io e io con loro divengo, mi confondo
ho piume tra le dita e nel ventre una foresta, sassi nella bocca e metallo nella testa.
Mi insinuo in un ronzio, vorticante desiderio perdo conoscenza e mi ritrovo mondo,
senza più confini, dimentico di ciò che ero e ora sono, io riemergo sfondo.
Marchesini, Eco-ontologia. L’essere come relazione, Bologna, Apeiron, 2018.
[1] Questo è quanto ha dichiarato il musicista Brian Eno (1948) nel giugno 2011 quando, intervistato da Riz Khan nel suo programma “One on One”, gli è stato chiesto di parlare delle origini della musica ambient .
Ho sognato di Diogene di Sinope, quel filosofo cibernetico che viveva in una botte e con una lanterna cercava l’Uomo in pieno giorno, intento ad abbaiare davanti ad un dipinto, un non-quadro magrittiano ad olio raffigurante un cranio umano sottotitolato da una didascalia che recita: Ceci n’est pas un crâne.
Si tratta (?) del cranio di un esemplare di Eoanthropus dawsoni, nome scientifico dell’ominide a cui vennero ricondotti i resti di un teschio umano fossile ritrovati nel 1908 a Piltdown, nel Regno Unito. E’ una vera rarità poiché non esiste. E’ un’autentica chimera paleoantropologica frutto della fantasia truffaldina di un archeologo amatoriale inglese che, come verrà definitivamente stabilito quarant’anni dopo la sua “scoperta”, realizzò il reperto assemblando pezzi di un esemplare di Pongo pygmaeus e di due individui di Homo sapiens.
I resti di quello che all’epoca venne acclamato come il primo uomo inglese, come il tanto ricercato anello mancante tra noi e quelle scimmie di cui saremmo una forma più evoluta ed intelligente, vennero ritrovati durante dei lavori in una cava dell’isola anglosassone, la mandibola di orango proveniva dall’isola del Borneo e, come suggerisce uno dei titoli del non-quadro che ho sognato, l’ Île, il cranio di Piltdown dipinto ricorda proprio un’isola circondata da un cielo, un mare azzurro di fossili liquidi.
Isole vulcaniche, isole artificiali, isole immaginarie, isole di plastica…
Magritte L’isola del tesoro, 1945.
Materia che emerge nel mezzo dei flutti, l’Isola incarna perfettamente l’illusorietà dell’individualità, dell’autonomia di organismo e ambiente, della separazione tra me e l’altro da me, tra dentro e fuori. Trovo che quella dell’isola sia un’immagine piuttosto evocativa anche della precarietà stessa del concetto dell’umano e della sua irriducibilità ad una essenza pura e separata dallo sfondo indistinto del così detto non-umano. L’isola è un’occorrenza momentanea, affioramento della medesima crosta sommersa, sporgenza pronta ad inabissarsi e a perdersi nel suo strato, spazio liminale e luogo peculiare di relazione, attimo dissociativo e interferenza del flusso di diffrazioni, altare asciutto da cui osservare il magma caosmotico da cui proveniamo. La nostra configurazione ibrida e assemblata non è solo corpo emerso ma anche sommerso, nascosto sotto i flutti, attraversato dalle maree del divenire le cui onde si infrangono come vento sulle sue rive e sulle sue rocce: sedimentazioni e stratificazioni bio-culturali che ne tracciano il perimetro ontologico costituendo simultaneamente, come arcipelaghi e costellazioni, una cartografia relazionale molteplice e plurale, una vera e propria mappa epistemologica. E così, per orientarci, ci siamo isolati, con un artificio, vittime di un miraggio percettivo in cui abbiamo ceduto alla seduzione, all’immediatezza e all’intuitività della rappresentazione e del linguaggio.
Come isole ci siamo pensati soli e persi alla deriva nella complessità.
King Crimson, Islands, Islands, 1971 E.G. Records.
Frugando nel rapporto tra umano e non-umano, convinto della centralità della materia e delle sue intra-azioni (Barad 2007), vi propongo di concentrare lo sguardo su dicotomie che diamo spesso per scontate, come organismo\ambiente, naturale\artificiale, vivente\non-vivente, soggetto\oggetto o mente\corpo, fino a quando non le vedremo sfuocate sovrapporsi e mescolarsi tra di loro. Un minerale, una pianta, un animale, uno strumento o un’opera d’arte saranno di volta in volta gli inneschi e i propulsori di un viaggio, scuse meravigliose per perdersi e stupirsi nella prospettiva postumanista. Questo blog è una vera e propria wunderkammer in divenire, un ambiente in cui diffrangere ed ibridarsi digitalmente assieme attraverso storie di ogni tempo e di ogni dove.
La Wunderkammer o Camera delle meraviglie era anticamente, specie in Europa tra XVI e XVII secolo, una stanza privata dedicata alla raccolta e all’esposizione di stranezze e rarità provenienti dal mondo della natura (naturalia), dell’artigianato (artificialia e mirabilia), dall’ambito della ricerca scientifica (scientifica) etc. Il fascino esotico ed eccentrico di tali oggetti, la loro bizzarria e stravaganza dovevano destare lo stupore di ospiti, studiosi o collezionisti, accendere la loro curiosità e, perché no, suscitare invidia e ammirazione nei confronti del loro proprietario, possessore privilegiato di cotante cose meravigliose e desiderabili poiché estremamente rare o leggendarie.
La wunderkammer è il luogo degli altrove. Uno spazio in cui ogni cosa è un varco misterioso, una soglia da oltrepassare, un campo magnetico che attrae una molteplicità di stupefacenti occasioni per perdersi. La wunderkammer è anche un esercizio di potere, incarnazione della potenza, della prepotenza e dell’incoerenza del raccogliere selezionando. Un miscuglio anche di mistificazioni e falsificazioni anatomiche, di scheletri ontologici e di impalcature epistemologiche. In questo senso la wunderkammer è anche narrazione, è cosmologia, un coacervo di materia inerte e silenziosa che comunica prevalentemente per via emotiva, non conscia, non verbale: le cose suscitano, evocano e si insinuano tra inquietudine e mania, tra curiosità e stupore.
Ogni corpo è un altrove. Altrove è un paesaggio abitato da forze e da energie, da frammenti di desiderio collimanti e divergenti. Altrove è lo spazio percorso dal desiderio nel tempo che la curiosità impiega a divenire meraviglia. Se dovessi immaginare le geometrie dello stupore esso farebbe la sua epifania come una pareidolia, lo troverei d’improvviso tra le molteplici configurazioni di linee diffuse e prepotenti, linee pesanti e penetranti di cui è possibile avvertire le solide e infinite proiezioni sulla pelle. Vibrando tra attrazione e ripugnanza, tra paura ed eccitazione, i corpi sono invischiati in una melma relazionale di materia che unisce e distingue, materia che si tuffa dalla freccia del tempo annegando in un vortice senza origine e senza direzione che nei suoi gorghi e nelle sue spirali lascia impronte di un passaggio dalla copia (dimensione celeste, divina, pura, animata, genetica, biocentrica e motocentrata) alla copula (dimensione ctonia, mortale, impura e melmosa, materica e mostruosa).
Le cose divengono così partner di ibridazione, alleati, componenti di assemblaggi che incarnano dicotomie sfuocate e confuse ma pluripotenti, configurazioni di coniugazioni, di commistioni piuttosto che di esclusioni e distanziamenti. La forza di tale intima chimerizzazione incarna la potenza di una reciproca partecipazione dei corpi con i corpi, della materia con la materia. Gli oggetti di queste antiche collezioni di cose prodigiose non fanno eccezione, e le relazioni di cui sono materica incarnazione pesano più dell’anima che gli manca, vanno ugualmente immobilizzati, classificati, estrapolati e scarnificati per essere ridotti a mera rappresentazione. Proprio come ad un mostro mitologico, è stato necessario costruirgli attorno un dedalo di percorsi e passaggi in grado di contenerne la forza, un labirinto capace di ostacolare e trattenerne le potenti linee di fuga, la carica bestiale e sovrannaturale. Ecco allora profilarsi una cornice, elevarsi un piedistallo, erigersi una bacheca, assemblarsi una cassettiera o un espositore.
Quello della wunderkammer è un altrove in cui il fascino dell’insolito, di ciò che si distanzia dal nostro ordinario e confortevole orizzonte culturale e cosmologico, ci spinge a mettere in discussione chi e che cosa siamo, ci costringe a ripensare il nostro rapporto con li non-umano. Spalancata la bocca per lo stupore il capo si ritrae all’indietro giusto il tempo perchè l’eccitazione scuota le viscere costringendo il corpo a protrarsi in avanti ficcando il naso nella curiosità, così che gli occhi possano finalmente, dopo aver visto, perdersi nella conoscenza.
Benvenutə nella Wunderkammer – La Camera della Meraviglie.
Testi consigliati:
BARAD, KAREN. Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning. Duke University Press, 2007.
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