Filosofia Postumanista Italia

7 gradi sotto. c’è un freak del calcolito nel freezer

Il freddo e il gelo lo hanno strappato all’Universo che ne reclamava la carne e le ossa. Se l’è mangiato il ghiacciaio ricoprendolo di acqua e di fiocchi di neve, imprigionandolo per millenni dentro ad una autentica teca di cristallo. Un uomo preistorico dell’età del rame, 45 anni, 150 cm per 60 kg circa, venne trafitto a morte più di 5000 anni da una freccia all’altezza della scapola ai piedi del Similaun, nelle Alpi Orientali. È stato soprannominato Ötzi e si può osservare il suo orrorifico ghigno sbirciando da un piccolo oblò di una cella frigorifera all’interno del Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano.

Il corpo mummificato di Ötzi è adagiato su di un tavolo di acciaio da obitorio in una posa innaturale, asciutto, duro, teso nel suo inflessibile rigor mortis che gli conferisce un aspetto austero, ripugnante e spaventoso. Non si stratta semplicemente di un cadavere o di uno scheletro, di carne inerte o di ossa spolpate ed esposte, ma di una autentica mummia. Una di quelle configurazioni del mostruoso che ci mettono di fronte alla meraviglia del terrore, allo stupore dell’inaspettato, alla possibilità concreta e reale di trovare dinanzi a noi ciò che si ha solo l’ardire di immaginare o la sventura di sognare. Nei pochi secondi che ho a disposizione prima di lasciare il posto al prossimo visitatore in coda dopo di me, mi sporgo sullo spioncino e cerco con gli occhi i suoi tatuaggi, osservo il colore scuro della pelle ma lo sguardo si sofferma soprattutto sul suo volto dalle orbite sporgenti, sul setto nasale mutilato e sul labbro superiore spaccato a metà, aperto come un frutto, da cui fuoriescono ordinati semi d’avorio. Un uomo intrappolato, un corpo esposto, materia sfuggita all’entropia. Quasi esito a continuare ad ammirare questo freak del calcolitico…ma siamo tutti qui per questo, no? L’interminabile attesa lungo una linea chilometrica sotto la pioggia per riuscire ad entrare in museo, la fitta coda dietro di me che aspetta trepidante di poter godere dei propri, brevissimi, secondi di voyeuristica tanatofilia pagante…tutto ruota attorno a quella cella frigorifera il cui oblò’ catalizza la massima attenzione di grandi e piccini, orifizio pornografico di vetro e metallo, cattura e concentra tutta la carica emotiva della visita. Tutti vogliamo vedere la mummia. Un corpo proprio come il nostro, vissuto però in un periodo in cui una freccia dalla punta in selce poteva raggiungerti e ferirti a morte dopo essere stata scoccata da un arco in legno di tasso. Un cadavere quasi angelico nella sua essenziale anatomia asessuata, nel suo essere esibito e ostentato come una reliquia sacra da quel pulpito di acciaio a cui è inchiodato dal freddo glaciale, così simile ad un cristo preistorico disteso nel suo sepolcro asettico. Il pellegrinaggio verso questa creatura mitica, verso questo «sensazionale ritrovamento archeologico, star mediatica, oggetto di ricerca, reperto museale»[1], è un cammino verso l’anomalia, la rarità, l’eccezionale e l’incredibile incarnati, lo stupore fatto umano: un vero mostro il cui corpo non ha conosciuto putrefazione e decomposizione, ingannando in qualche modo la morte ma soprattutto la vita e i suoi processi di ordinaria trasformazione. Questo cadavere immobile e rinsecchito, ha trattenuto mummificate dentro di sé una miriade di informazioni su chi fosse Ötzi, ci racconta molto a proposito delle relazioni tra umano e non-umano nell’età del rame. Altresì eloquente è il suo corredo composto da ciò che indossava al momento della morte, gli utensili e gli strumenti che aveva con sé, le sue scorte di vegetali medicamentosi. La sua formidabile ascia dalla punta in rame puro a lama trapezoidale ci racconta di traffici e scambi in cui materie prime, oggetti e conoscenze percorrevano allora, come oggi percorrono, notevoli distanze coinvolgendo genti diverse. Quel metallo proviene con certezza da giacimenti toscani. Vettori umani e non-umani hanno trasportato sul loro dorso come vento o come acqua granuli pollinici di conoscenza, sementi di materiali e di artefatti tessendo intrecci, tracciando percorsi, contaminando culture. Un perizoma di pelle di pecora copriva le pudenda di Ötzi e un mantello di capra le sue spalle. Sul capo portava un cappello di pelliccia d’orso e calzoni in capra terminavano in un paio di sneakers dalle caratteristiche eccezionali, vere e proprie calzature tecniche per l’ambiente alpino avendo suola in orso, tomaia in cervo e imbottitura interna di fieno trattenuta da una rete d’erbe. Alla cintura in cuoio era sempre a disposizione un pugnale in legno di frassino dalla punta in selce estratta nei Monti Lessini e un marsupio in erba intrecciata che conteneva una lesina d’osso, utensili in pietra tra i quali un perforatore, un raschiatoio e una lama tagliente assieme ad un fungo-esca da innesco. Per cacciare le sue prede poteva contare su un arco in tasso e frecce di viburno dall’impennaggio di picchio o di qualche volatile locale, contenute in una faretra in pelle di capriolo rinforzata con legno di nocciolo. Stambecco e cervo accompagnati da un po’ di farro monococco sono stati il suo ultimo pasto. Una complessità che ci racconta un ovvio e intenso rapporto con il territorio circostante non solo a livello macroscopico ma anche micro: dall’analisi dei visceri è stato accertato che Ötzi ospitava tracce di dna del batterio Borrelia burgdorferi trasmesso dalle zecche e migliaia di uova di tricocefalo (Trichuris trichiura), un parassita intestinale per contrastare il quale portava con sé una scorta di poliporo (Polyporus), il fungo della betulla, noto antiparassitario. Il suo corredo genetico, inoltre, tradisce una discendenza dai primi gruppi di agricoltori neolitici dell’Anatolia e di conseguenza una parentela con la gente di Sardegna. Le distanze si perdono in una goccia di sangue così come in essa si diluisce lo scorrere del tempo. I confini si mostrano per ciò che sono: illusioni affette da un principio di indeterminazione. Interno ed esterno, organismo e ambiente sono convenzioni, interpretazioni intuitive di un’osservazione distratta. Il nostro passato racconta la stessa storia di concatenazioni e ibridazioni, relazione e contaminazione tra alterità alla base non solo di ciò che siamo ma della vita stessa.

Ötzi, stecchito e chiuso nella sua cella frigorifera sette gradi sotto zero è un testimone involontario di un’altra umanità, di un’altra cultura, di un’altra epoca che tradisce lo stesso, intrinseco e ricorsivo modo di divenire umani. I suoi tatuaggi, 61 in totale e i più antichi ritrovati fino ad ora, sono modificazioni corporali che raccontano di processi antropopoietici in cui il ripetersi del battere che incide la carne, traccia solchi, sposta, lacera, mutila le membra, “apre” il corpo per poi innestarvi, ospitare qualcosa d’altro, carbone vegetale, ostentando un’alterazione che certamente doveva rimarcare, potenziare all’esterno la forza d’azione interna e terapeutica[2]. Questa apertura è in realtà l’eco di processi già in atto e fuori dal nostro controllo che operano su scale differenti e temporalità diverse, un desiderio di marcare territori che solo in apparenza ci appartengono, di tracciare relazioni e stabilire frontiere inesistenti: il nostro corpo è davvero necessariamente ed esclusivamente nostro? Non è forse un corpo un tentativo di trattenere il mondo piuttosto che di separarsi da esso? Non è forse una concatenazione di molteplicità, un’alleanza tra alterità, una comunità in lotta e cooperazione piuttosto che un principio di identità e separazione? Ötzi non esiste, quella mummia è tante cose. Siamo noi Ötzi, lo sono quel parallelepipedo di rame, quell’orso e quel ramo di tasso, quei pezzi di fungo di betulla, il carbone sotto la sua pelle e quei bacilli di Borrelia. Cosa stiamo davvero guardando attraverso quello spioncino in quel sarcofago glaciale? Ciò che doveva dissolversi ci fissa oltre il vetro e la sua smorfia sardonica ci ricorda che il corpo, qualsiasi corpo, non è una prigione dell’anima ma un dispositivo relazionale, un vettore di contaminazioni e di ibridazioni plurali, uno squarcio organizzato nella materia che, come un buco nero, attrae a sé l’intero Universo: ecofagocitazione. Un corpo non è mai solo un corpo. Vivo o morto che sia. La pratica culturale della mummificazione sembra cogliere e amplificare proprio questo aspetto poiché la configurazione somatica è l’attimo in cui calpestando il mondo il mondo ci finisce dentro. Ad ogni passo il mondo ci finisce dentro, ad ogni gesto di mondo ci sporchiamo, ogni sguardo, ogni parola detta, ogni esperienza che avvertiamo nostra è come l’eco di un batter d’ali che il bruco non potrà mai sentire. Siamo parte di un respiro che non siamo noi ad aver esalato, come sàmare e spore vortichiamo e planiamo lungo l’arcaico soffio dell’evoluzione. Nella sua effimera e transitoria conformazione un corpo fa quel che può e altri corpi fanno ciò che esso non può fare per sé stesso. Un corpo non può generarsi, un corpo non può distruggersi. La mummia cercando di salvare l’autonomia e l’identità di un corpo ritualizza, esalta e ostenta esattamente l’opposto. Dinanzi ai nostri occhi non resta che un essere mostruoso, qualcosa che lo sguardo fa fatica a sostenere: ciò che dovrebbe essere assente è presente…nel riconoscere ciò che ci appartiene, amplifichiamo inesorabilmente ciò che non torna, ciò che non è come dovrebbe essere mettendoci difronte a ciò che non faremo mai in tempo a vedere che saremo diventati. Freaks a cui diamo il benestare dell’esistenza a condizione che trattengano loro ciò che noi ripudiamo donandoci conforto e salvezza. Il mostro è maestro e nella irresistibile attrazione della repulsione che è in grado di scatenare, a metà tra terrore e seduzione, ci istruisce sul passato e ammonisce sul futuro.

Ötzi. mummia del Similaun…chissà quante volte gli stambecchi hanno visto il suo corpo riverso sulla roccia, a faccia in giù nella neve, strano animale dalla pelle di capra di cervo e di orso, cacciatore armato appostato in una conca d’alta quota o preda terrorizzata nascosta tra i massi di scisto? Ötzi, faraone delle Alpi, Cristo dell’età del rame, mummia orrorifica imbalsamata dal gelo capace di licenziare il tempo, di arrestare il moto delle stelle imprigionando il cielo in un eterno attimo di cristallo. Il ghiacciaio ti ha consumato, ridotto e custodito intatto per millenni. Solo l’innalzamento delle temperature contemporanee lo ha liberato dalla sua prigione di ghiaccio riportandolo alla luce. Dissepolto dal sole, Ötzi è risorto irradiato dai raggi ultravioletti penetrati attraverso il buco nell’ozono per risplendere circondato da un’aureola di neon nel freezer di un museo, divo prigioniero, sette gradi sotto zero.

Piombino-Mascali, D., Krutak, L. (2020), Therapeutic Tattoos and Ancient Mummies: The Case of the Iceman. In: Sheridan, S.G., Gregoricka, L.A. (eds) Purposeful Pain. Bioarchaeology and Social Theory. Springer, Cham.

Pfister C. and Wanner H. (2021), Climate and Society in Europe. The Last Thousand Years, Bern: Haupt.


[1] Queste le parole con le quali il sito ufficiale del Museo dell’Alto Adige presenta ai visitatori virtuali il signor Ötzi, “l’Uomo venuto dal ghiaccio” https://www.iceman.it/it/oetzi/oetzi-luomo-venuto-dal-ghiaccio.

[2] Si è suggerito infatti che la posizione strategica dei tatuaggi sul corpo di Ötzi, in corrispondenza di articolazioni o punti particolari, sia il risultato di un intervento di tipo terapeutico in risposta a forme di artrosi di cui egli soffriva.

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