La vicinanza di uno sguardo

By Giulia Girodo

23 Maggio 2023

Guardo la Balli negli occhi. Profondi occhi scuri. Chissà cosa hanno visto, prima che ci conoscessimo. Mi piacerebbe me lo potesse raccontare.
Aguzzo la vista: forse, attraverso gli occhi, posso guardarle dentro? Scoprire cosa pensa? Scrutarne l’interiorità?
No, ciò che trovo è una superficie riflettente. Ciò che trovo, guardando meglio, sono solo me stessa mentre fisso i suoi occhi. Credevo di poterle guardare dentro e invece trovo solo me stessa.
Io sono in lei, tanto sulla superficie del suo occhio quanto nel suo sguardo, come ‘oggetto’ osservato e intenzionato.

Sulla superficie del suo occhio si gioca uno sdoppiamento interessante: ci sono io che osservo la Balli ma vedo solo il mio riflesso e la Balli, il cui occhio si rivolge a me e mi tematizza. Sulla superficie del suo occhio il mio essere si sdoppia tra come io appaio a me stessa e come appaio a lei. Sulla superficie del mio, a sdoppiarsi è l’immagine della cavalla per me più speciale.
Ma allora chi sono io? Chi è la Balli? Io sono ciò che io stessa vedo di me o ciò che appare a lei? O forse entrambe le cose?

Ma, poi, come mi riconosco nel suo sguardo? Faccio parte dell’orizzonte da lei percepito, ma come appaio? Come si presenta la mia figura? Che odore ho? Cosa sono per lei? Come posso sapere tutto questo?
Le nostre strutture oculari sono molto diverse e determinano colori, ma anche orizzonti visivi e prospettive, totalmente diversi. Non posso mettermi completamente nei suoi panni e vedere con i suoi occhi, ma la scienza può aiutarci a comprendere: i cavalli hanno una vista di quasi 360°, due punti ciechi (uno immediatamente di fronte a loro e uno posteriore) e percepiscono una gamma di colori inferiore alla nostra (vedono meglio il giallo, il verde e il blu, non percepiscono in maniera dettagliata lo spettro del rosso).
Per la Balli probabilmente sono tutta una sfumatura di giallo e grigio/blu, a dispetto dei colori reali come il rosa della mia pelle e il rosso della T-shirt che indosso.
Reali? È della realtà che stiamo parlando? Non stiamo forse confrontando solo due percezioni diverse, la mia e la sua, condotte con strumenti differenti? Reale è per ognuno ciò che percepisce come tale.
Ma allora come sono io realmente? È più vera la me che vedo riflessa o quella che la Balli vede?

Facciamo un passo di complessificazione ulteriore: lo stesso assunto che io sia innanzitutto vista è antropocentrico. In quanto essere umana, privilegio la vista come accesso al mondo, ma questo non è vero per un vastissimo numero di specie animali. Prima di essere una cosa vista, posso essere un rumore o un odore, o posso percepita in modalità che non riesco neanche a immaginare.

E poi c’è la memoria. La Balli per me non è solo un cavallo, ma la Balli, un essere vivente unico, con cui ho passato momenti fantastici, giorni felici e tristi, soddisfazioni e delusioni, successi e fallimenti. Ma per lei io sono la Giulia? Si ricorda delle esperienze fatte insieme? E quelle esperienze che sfumature hanno? Si è sentita bene, accanto a me? Le piaccio? A quali ricordi sono associata?
Non c’è modo di saperlo: non intendo impiantarle nel cervello elettrodi per sondare l’attività cerebrale e cercare di cavarne qualche risultato. Smettila di speculare, Giulia, e concentrati sull’adesso. Chi sei tu, qui ed ora, di fronte a lei? Sicuramente sono collegata alle tonnellate di cibo che le porto ogni volta che vado a trovarla, come oggi. La mia voce le dice qualcosa, deve essere così se è l’unica che si sporge dal box e mi nitrisce quando da un capo all’altro della scuderia la chiamo con il suo nome.
Il suo nome. Lei lo sente? Sa che quelle sillabe le appartengono? Sa che ‘Balli’ è il diminutivo che le ho dato io, partendo dalla falsa credenza che il suo nome avesse due L e non una sola? Lei è Balettina, non Ballettina, come credevo.
Nata in Belgio, come pronunciava il suo nome il suo primo padrone umano? Forse per lei il suo nome è connesso a quella esclusiva vocalizzazione? O forse è il richiamo che sua madre le rivolgeva? Che suono avrà avuto, mi chiedo. In ogni caso, non potrei replicarlo, non saprei ricordarle la madre e chiamarla con quel nome.

Sono quasi sicura, però, che per lei solo la sola essere umana che presta il proprio corpo come morbida superficie per grattarsi senza replicare o scacciarla; sono colei che le permette di entrare in box da sola accompagnandola da lontano; colei che fa sempre lo stesso rituale prima di salire, che le dà i biscottini sempre con la stessa cadenza durante le lezioni: uno prima, un certo numero a lavoro finito facendole allungare il collo prima a destra poi a sinistra, e uno una volta scesa. Sono quasi sicura di rappresentare per lei queste cose perché se le aspetta, anticipa le mie mosse gettando la sua testa verso il mio busto per grattarsi, chiedendomi i biscotti nel momento esatto del nostro rituale, allungandosi dalla parte giusta per afferrare quello successivo quando sono in sella.
Forse per lei più che un insieme di ricordi, di cose vissute e momenti passati insieme, sono un insieme di cose che faccio, un set di comportamenti specifici, un fascio di aspettative che determinano il futuro delle nostre ore insieme.
Io sono il mio comportamento. Una frase semplice all’apparenza, ma credo anche in grado di portare con sé la complessità e profondità del tema e delle riflessioni che stiamo svolgendo.
Io sono il mio comportamento significa che sono ciò che faccio: come dice Merleau-Ponty, il mio comportamento è frutto della relazione di senso tra me e l’esterno. Ogni gesto nasce come risposta sensata e adeguata ad uno stimolo esterno, il quale viene sempre contestualizzato in un orizzonte ambientale percepito e rivestito di un significato specifico da parte del soggetto che lo esperisce. Ogni stimolo assume un significato specifico per ogni soggetto in virtù del suo incrociare interessi e bisogni peculiari di colui che lo percepisce. Quindi essere il proprio comportamento significa essere quell’intenzionalità interna che si cela dietro il gesto concreto, la ‘coscienza’ che legge il mondo, lo interpreta e vi si adegua rispondendo ad esso, cercando un equilibrio tra sé e il mondo.
Ma essere un comportamento significa essere un corpo che si muove sotto altri sguardi. Questo porta con sé il fatto che i gesti vengono osservati e interpretati da altri esseri che non ne sono gli autori. Nei loro confronti, essere il mio comportamento significa prestarsi a loro come gesto esterno e come costitutiva impossibilità di accedere alla mia coscienza, cioè alle intenzioni che danno forma all’azione stessa: significa che ai loro occhi io sono ciò che faccio. E significa, quindi, che se il rapporto con gli altri mi sta a cuore, ossia se voglio che la mia ‘coscienza’, nascosta dietro ai miei gesti, emerga in essi, devo tener conto di come questi appaiono e di che significato assumo agli occhi altrui. Ecco allora che il decentramento è la chiave della relazione tra esseri che non hanno la lingua per comunicare e chiarirsi a vicenda.

Quando voglio fare una carezza affettuosa alla Balli so che non devo toccarle la pancia o precipitarmi con la mia mano immediatamente sulla fronte: lei odia essere toccata sull’addome e la zona compresa tra i duo occhi è uno dei punti ciechi degli equini. Toccarla lì non è farle un piacere, non è dimostrarle affetto: quelli per lei non sono gesti d’amore.
Ecco che allora l’amore e il rispetto passano per la comprensione dell’altro, comprensione necessaria a permetterci di comunicare e comprenderci, cioè di attuare comportamenti che possano veicolare la nostra intenzione e che al contempo possano significare per l’altro questa nostra stessa intenzione.

Sono consapevole che questo articolo è piuttosto differente dagli altri presenti nel blog: sembra più un flusso di coscienza, un trasporto emotivo. Non credo, però, che questo lo renda meno interessante. La forma con cui è scritto è stata scelta proprio perchè intendevo veicolare quel coinvolgimento emotivo che mi ha portato a interessarmi allo sguardo animale. Tutto è nato da un incontro con l’alterità animale, da una vicinanza fisica e affettiva che mi ha fatto pensare che se fosse sperimentata da ogni essere umano sarebbe davvero possibile costruire un mondo di rispetto e comprensione inter-specifico.

RIFERIMENTI:

Merleau-Punty Maurice, La struttura del comportamento, a cura di Alessandra Scotti, Milano, Mimesis, 2019.

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