Abitanti di scuderie lucide e profumate, schierati in sezione sulla pista di sabbia, slanciati oltre ostacoli colorati: i cavalli sono ancora con noi, dopo più di cinquemila anni. Un tempo vivevano al nostro fianco come instancabili compagni nei campi, in guerra, lungo le strade. Lavoravano per noi e con noi, accompagnandoci nella conquista del pasto quotidiano e nel raggiungimento di ogni meta.
Oggi li si può incontrare soprattutto nei centri ippici, luoghi dedicati al loro allevamento e alla loro cura, dove la routine quotidiana condivisa con i custodi umani li ha trasformati in compagni di sport e di svago.
Questo radicale mutamento del ruolo sociale e identitario del cavallo nelle comunità umane è stato oggetto di studio per storic* e antropolog*, che lo hanno descritto attraverso polarità dicotomiche come From working to winning[1] o From servant to therapist[2].
Queste formule sembrano suggerire che il cambiamento degli ultimi due secoli abbia comportato un miglioramento nelle condizioni di vita dei cavalli, dato dal fatto che sono diventati meno indispensabili per la soddisfazione dei bisogni primari umani.
C’è senz’altro del vero in questa lettura, data l’incommensurabilità tra una prestazione lavorativa e una puramente hobbistica, e considerando i progressi scientifici in ambito etologico, cognitivo e veterinario.
Oggi le nostre attività con loro si basano su conoscenze solide e condivise riguardo a ciò che un cavallo necessita per stare bene, fisicamente e mentalmente, e sono quasi sempre accompagnate dall’affetto che lega il custode umano al proprio compagno equino.
Lo slittamento del valore semantico, simbolico e pragmatico del cavallo nella vita umana ha portato all’emergenza, verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso, di nuove pratiche di gestione e di addestramento definite “gentili” ed “etologiche” che sono comunemente conosciute con il termine Natural Horsemanship. Questi programmi rispondono all’esigenza degli appassionati di riscrivere da capo le modalità interattive e relazionali con i cavalli e di dimenticarsi degli evidenti soprusi di cui sono stati protagonisti fino a poco tempo fa. Niente più fruste e percosse, niente più finimenti dolorosi, niente più coercizione: i cavalli della Natural Horsemanship devono vivere da cavalli e interagire con l’umano in quanto cavalli.
Imparare a portare rispetto al cavallo significa conoscere le attitudini dei suoi compagni selvatici che vivono in un ambiente non antropico per riproporle all’interno della relazione con l’umano. In questo modo, dicono, il cavallo sarà liberato dello sforzo di comprendere un compagno umano ai suoi occhi sempre sordo, incoerente e ingiusto e si sentirà apprezzato e compreso nel suo linguaggio, nelle sue preferenze e nelle sue modalità.
La Natural Horsemanship è venduta come un vero e proprio metodo di liberazione dei cavalli dalle costrizioni di una vita performativa con l’umano, dalle sofferenze comportate dal mancato assolvimento dei suoi bisogni primari, dal suo essere un animale così profondamente sfruttato e incompreso. Quali sono, allora, i preziosi insegnamenti di queste metodologie?
Primo tra tutti, i pilastri della gestione naturale: il cavallo deve vivere in ampi spazi aperti, in compagnia dei suoi simili, con fieno a disposizione tutto il giorno e, possibilmente, scalzo. La ricerca scientifica ha prodotto solide evidenze a riguardo, confrontando i livelli di benessere psicofisico di cavalli gestiti in paddock e di cavalli gestiti in scuderia. I custodi che hanno vissuto insieme ai loro cavalli questa transizione gestionale riportano con grande sorpresa un miglioramento che si ripercuote anche sulle attività svolte insieme: i cavalli che vivono in paddock sono, generalmente, più collaborativi, riflessivi e atletici dei cavalli che vivono in scuderia.
La Natural Horsemanship, facendo sue queste evidenze, denuncia i soprusi del passato dovuti all’ignoranza umana e dichiara che, fin tanto che il cavallo non avrà la possibilità di vivere secondo questi principi, non sarà possibile progredire serenamente nel lavoro con il compagno umano.
In secondo luogo, la Natural Horsemanship propone metodologie addestrative fondate sulla teoria dell’apprendimento e prive, di conseguenza, di violenza e coercizione. Alcuni tra i programmi più famosi insegnano ai binomi allievi umani-equini a comunicare tra loro attraverso il rinforzo negativo: se l’umano, ad esempio, vuole chiedere all’equino di compiere un passo indietro dovrà applicare una pressione sul cavallo e aumentarla gradualmente fino a quando questi non risponderà correttamente. Nel momento in cui il cavallo accenna a compiere il movimento richiesto è necessario che l’umano tolga con grande tempismo la pressione ed entri in uno stato di “rilascio” o “assenza di richieste”. In questo modo il cavallo capirà che per togliersi quel lieve fastidio comportato dallo stato di richiesta dovrà quanto prima rispondere adeguatamente.
Qualunque sia la difficoltà che un binomio umano-equino può incontrare sul suo percorso, la Natural Horsemanship avrà sempre la ricetta atta a risolvere il problema. Se un cavallo si comporta male nelle attività con il suo custode umano, mettendo in atto una serie di comportamenti sgradevoli o pericolosi, basterà ristabilire i parametri della sua gestione e della sua comunicazione per riottenere, in pochissimo tempo, un cavallo sereno e collaborativo. Ad esempio, se il cavallo si rifiuta di entrare in campo, si spaventa frequentemente in passeggiata, non si fa mettere i finimenti o tenta di scappare alla corda, la promessa è che, con le giuste pratiche, tornerà presto a comportarsi bene e ad apprezzare l’attività con l’umano.
Il punto su cui vorrei riflettere è questo: attraverso la vendita di un prodotto standardizzato, la Natural Horsemanship garantisce il successo, dal punto di vista umano, nell’espressione comportamentale dei cavalli. Ma cosa avviene dal punto di vista del cavallo durante questo percorso, nel suo mondo soggettivo e individuale, nel suo essere cognitivo? Riesaminiamo il caso: un cavallo si comporta male nelle attività proposte dall’umano. La metodologia Horsemanship risolve il problema attraverso una pratica universalmente valida.
È interessante notare come soprattutto le espressioni di disagio e di dissenso dei cavalli sono prese in considerazione a priori proprio come un “problema”, come qualcosa “da risolvere”. Se il cavallo scappa ogni volta che lo si conduce verso un’area del maneggio all’interno della quale normalmente si lavora, questo è un “problema” in quanto ostacola il raggiungimento del successo performativo dell’umano che lo vuole cavalcare o girare alla corda. Il metodo Horsemanship potrà certamente restituire a quello stesso umano un cavallo che entrerà calmo all’interno del campo in sabbia, senza più manifestare il suo dissenso.
Il comportamento ritenuto sgradito viene disincentivato attraverso la premiazione di tutti gli altri comportamenti ritenuti positivi. Il pensiero della fuga viene deviato su altro da una pressione che gradualmente aumenta e crea un nuovo fastidio a cui il cavallo dedica tutta la sua attenzione.
Si fa tangibile la mancanza di un passaggio fondamentale: perché quel cavallo non vuole entrare in campo? Cosa sta esprimendo attraverso la fuga? Cosa pensa, cosa prova rispetto al lavoro con l’umano? Cosa cambia nel suo mondo cognitivo durante l’applicazione del metodo Horsemanship? Cosa pensa dopo il raggiungimento del successo attraverso la pratica? Dall’altra parte, per l’umano invece poco è cambiato: prima voleva portare il suo cavallo in campo, ma non ci riusciva, ora vuole la stessa cosa e riesce a ottenerla con facilità.
Agendo solamente sul comportamento del cavallo attraverso pratiche definite “gentili” ed “etologiche”, questa tipologia di pratiche di Natural Horsemanship rischia di perpetuare un approccio puramente meccanicista e comportamentista nei confronti del cavallo. L’espressione comportamentale del cavallo viene categorizzata come buona o sgradevole unicamente secondo il punto di vista umano ed è quella a essere oggetto del lavoro: in un certo senso, non importa cosa il cavallo pensa, importa che si comporti bene per il suo umano. Riportare al centro il mondo cognitivo delle soggettività coinvolte e investire sulla relazione tra i partner non può che comportare una ritrattazione generale dei presupposti delle attività svolte insieme. Non più “problemi”, ma “messaggi, segnali, espressioni”, non più perfomatività ma relazionalità e non più metodi, ma soggettività uniche che crescono insieme.
Nonostante la Natural Horsemanship abbia indubbiamente accresciuto la consapevolezza e le competenze dei custodi umani, e continui ogni giorno a promuovere il benessere dei cavalli, siamo ancora lontani da una reale prassi postumanista e biocentrica nel mondo equestre. Agire solamente sul comportamento di un essere vivente non significa modificarne i pensieri o le disposizioni interiori. Per riconoscere pienamente la soggettività e l’agentività equina non basta agire sul comportamento: è necessario entrare nel mondo cognitivo del cavallo, comprenderlo e abbracciarlo dall’interno. Non è sufficiente essere gentili nelle domande: occorre anche interrogarsi sul senso delle risposte. Amare i cavalli significa, soprattutto, saper rinunciare alla nostra idea di bene e di giusto per accoglierne un’altra; imparare a decifrare i segnali secondo il loro linguaggio; decentrare l’attenzione dalla performance alla relazione, riconoscendo in essa la vera misura del nostro incontro con loro.
[1] Brown Claire J., From working to winning: the shifting symbolic value of Connemara Ponies in the West of Ireland in D.L. Davis e A. Maurstad (a cura di), The meaning of horses. Biosocial encounters, Routledge, Abingdon – New York 2016, pp. 69-84.
[2] Leinonen Riita-Marja, From servant to therapist: the changing meanings of horses in Finland in D.L. Davis e A. Maurstad (a cura di), The meaning of horses. Biosocial encounters, Routledge, Abingdon – New York 2016, pp. 54-68.