Filosofia Postumanista Italia

Finché c’è morte c’è speranza

Nel racconto di Borges El Inmortal, Marco Flaminio Rufo comprende, dopo aver bevuto dal fiume dell’immortalità, che gli immortali vivono l’esistenza come un divenire privo di senso, in cui memoria e identità si dissolvono nell’infinito ripetersi degli eventi. Travolto dalla noia e dallo smarrimento di una vita senza fine, Rufo intraprende allora la ricerca di un altro fiume, capace di restituirgli la morte.

Un’esistenza infinita sarebbe davvero auspicabile, o piuttosto una forma di condanna? Non è forse la morte a conferire significato alla vita stessa? Non è l’essere umano tale proprio in virtù della consapevolezza della propria inevitabile fine?

Forse una vita senza termine non sarebbe desiderabile per nessuno e finirebbe per richiedere, prima o poi, una “bella morte” — un’eutanasia — compiuta nel rispetto dell’autonomia e della libertà di ciascuno di decidere del proprio corpo e, soprattutto, della propria vita: un diritto inalienabile di ogni individuo.

Nell’esercizio dell’autonomia, o dell’autodeterminazione, gli individui si assumono la responsabilità della propria esistenza, anche in riferimento alla scelta di come e quando morire. Il concetto di base è logico:

  • la morte è parte della vita;
  • ogni individuo è autonomo e ha diritto di attuare scelte per la propria vita;
  • ne consegue che il modo in cui un individuo sceglie la propria morte è parte di ciò che significa prendersi cura, in modo autonomo, delle scelte e delle responsabilità della propria vita.

Chi si oppone all’eutanasia, però, sostiene di solito che le scelte autonome sulla propria condizione esistenziale siano viziate da problemi di depressione; afferma, in sostanza, che gli individui possano sbagliarsi nel valutare se la loro vita valga o meno la pena di essere vissuta. Se, infatti, da un lato alcuni ammettono la possibilità di scegliere l’eutanasia in caso di malattia terminale che comporti un ultimo periodo di vita di estrema sofferenza, ritengono però non idonei a una scelta autonoma coloro che soffrono di demenza o di depressione, malattie non solo non terminali, ma che mettono in dubbio la competenza autonoma di chi ne è affetto.

Questo atteggiamento paternalistico è in parte comprensibile, ma affonda le sue radici in un contesto culturale specifico e, proprio per questo, può essere messo in discussione: quello ereditato dall’Occidente dalla tradizione giudaico-cristiana, che ha interpretato l’eutanasia e il suicidio come peccati o crimini. È forse per tale retaggio che oggi tendiamo a considerarli come qualcosa di moralmente negativo da cui difenderci. Eppure, non è sempre stato così.

Se cambiamo quadro di riferimento, infatti, la parola eutanasia deriva dal greco εὐθανασία (eu + thanatos), letteralmente “buona morte” o “bella morte”: εὖ «bene» + θάνατος «morte». Il termine è attestato già in età antica e ha assunto il significato moderno di «morte serena, indolore» nella storia del pensiero medico e filosofico.

Per comprendere il diverso atteggiamento verso la morte nelle culture antiche è utile guardare a come i Greci pensavano la vita e la mortalità. In greco esiste il termine θνητός (thnētós, «mortale, soggetto alla morte»), che indica la condizione umana come “essere soggetto a morire”.

Da qui nasce una differenza di prospettiva rispetto alla tradizione giudaico-cristiana: mentre il mondo greco-romano spesso accettava la morte come elemento della condizione umana e discusse apertamente pratiche di “buona morte” (in certi casi anche la pratica della morte volontaria o assistita è documentata nell’antichità, Seneca, 2010), la tradizione cristiana sviluppò un discorso che tendeva a rifiutare il suicidio e l’uccisione intenzionale, enfatizzando la speranza di una vita oltre la morte e collocando la questione in un orizzonte teologico differente.

Lo stoico Senecanelle Lettere a Lucilio scrive:

<<Non è un bene il vivere, ma il vivere bene. Perciò il sapiente vivrà tutto il tempo che ha il dovere di vivere, ma non tutto il tempo che può vivere>> (Seneca, 2000)

La morte non è un male: per gli stoici diventa persino un dovere filosofico, quando la vita non può più essere vissuta in armonia con il logos. È un atto di autonomia, non fuga né disperazione, ma una scelta lucida e coerente con la propria visione del mondo. Una prospettiva radicalmente filosofica, una sorta di liberalismo spirituale di alto rango, dove ad essere posta in discussione non è una parte della vita, ma la vita stessa.

Decidere quando e come morire rappresenta, in questo orizzonte, l’espressione più alta della libertà individuale. Come scrive Nietzsche:

«Lodo a voi la mia morte, che viene a me perché io voglio» (Nietzsche, 1979)

Ma cerchiamo di rispondere all’obiezione di chi si oppone alla libera eutanasia e solleva il problema dell’autonomia in chi soffre di depressione: è davvero libero nelle sue scelte? Costoro si chiedono se non sia necessario, prima di tutto, curare la depressione stessa. È vero che i tentativi di suicidio, o più in generale il desiderio di morire, possono talvolta esprimere una disperazione passeggera. Chi obietta a questa tesi introduce però il concetto di desiderio duraturo, sostenendo che, quando l’aspirazione a morire persiste nel tempo, vada presa sul serio. Ma anche questa posizione è problematica: quanto deve essere “duraturo” un desiderio per essere considerato autentico? E se esso permane solo finché durano dolori insopportabili o una lunga depressione, possiamo davvero ritenerlo stabile e fondato?

A mio avviso, da questo dibattito non si esce facilmente. Persino strumenti giuridici come i testamenti biologici o le direttive anticipate di trattamento — che danno voce a chi preferisce l’eutanasia a terapie prolungate — sollevano la stessa difficoltà: un individuo può davvero esprimere un giudizio competente, duraturo e volontario sul fatto che sia meglio morire piuttosto che continuare a soffrire, prima ancora di aver vissuto quelle condizioni e, soprattutto, prima di aver vissuto la morte stessa?
Forse, allora, non si tratta solo di discutere di diritto o di desiderio, ma di accogliere un cambio di paradigma: riconoscere che la morte non è soltanto una fine, ma una dimensione intrinseca della vita. Una sensibilità che il mondo antico aveva già intuito, vedendo nell’eutanasia non un atto di disperazione, ma un gesto di libertà, una virtù. In una società davvero liberale e pluralista, dovrebbe esserci spazio anche per questa visione: se la sofferenza ha valore solo finché chi la vive la ritiene significativa, non possiamo negare a nessuno la possibilità di congedarsi con coerenza e dignità.

Dopotutto, finché c’è morte c’è speranza.

 

Bibliografia

Nietzsche Friedrich,Così parlò Zarathustra tr. it. di S. Giametta Adelphi Milano 1979

Seneca Lucio Anneo, De brevitate vitae. Testo latino a fronte, a cura di Carlo Carena, Mondadori, 2010

Seneca Lucio Anneo,Epistulae Morales ad Lucilium a cura di G. Reale Bompiani Milano 2000

 

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