Filosofia Postumanista Italia

Un darwinismo espanso: il caso degli “equilibri punteggiati”

Articolo di: Massimiliano Marcucci

La teoria degli equilibri punteggiati venne proposta da due paleontologi statunitensi, Stephen Jay Gould e Niles Eldredge, nel 1972[1]. Essa ha acceso, fin dalla sua prima uscita, un vivace dibattito all’interno della biologia evoluzionistica e non solo per la sua rilevanza scientifica ma anche per le sue implicazioni di ordine culturale.

Avendo infatti come referente polemico il darwinismo novecentesco nella versione più raffinata, la Sintesi Moderna[2], la proposta di Eldredge e Gould ha suscitato interesse fuori e dentro l’accademia.

Il principale bersaglio polemico dei due paleontologi era quello neodarwiniano del “gradualismo filetico”, ovvero che il concetto che le nuove specie sorgano per trasformazione lenta e continua da una popolazione ancestrale.

Ma se ciò fosse vero, “nel caso della nascita di nuove specie, il record fossile dovrebbe mostrare una lunga e continua sequenza impercettibilmente graduale di forme intermedie che collegano progenitori e discendenti[3]”.

Di questa sequenza graduale non si trovano tracce nella documentazione paleontologica[4]; “la stasi evolutiva è un dato”, sottolineano  Eldredge e Gould.

In breve, la teoria si compone di 5 asserti fondamentali:

(1) i momenti evolutivi primari sono concentrati negli eventi di speciazione, ove avvengono, quindi, le più importanti diversificazioni genetiche, anatomiche e comportamentali;

(2) la speciazione, ossia il modo di formazione di nuove specie per ramificazione (“cladogenesi”), avviene quasi sempre rapidamente dal punto di vista geologico (il che significa al massimo un centinaio di migliaia di anni) a partire da piccole popolazioni (in gran parte “allopatriche”[5]).

(3) nel corso della sua vita una specie si conserva, nelle caratteristiche fenotipiche distintive, praticamente immutata fino all’estinzione: questo è il fenomeno della stasi evolutiva[6].

(4) durante la speciazione vi è una rapida e drastica (anche se non totale) riorganizzazione del materiale ereditario, spesso di natura non selettiva e non adattativa.  In questo ambito particolarmente interessanti sono le conseguenze di piccole alterazioni genetiche che possono provocare vistosi effetti fenotipici[7].

  • Se una specie ha un tasso speciativo più alto di un’altra (cioè produce in un minor tempo più specie figlie), si conserveranno e si rafforzeranno le caratteristiche tipiche del clado a cui appartiene[8].

Così equipaggiati, i puntuazionisti intravedono nel darwinismo e neodarwinismo forti elementi riduzionistici.

            a) Riduzionismo microevolutivo

Il binomio variazione/selezione è stato usato dai neodarwinisti per spiegare anche la formazione dei grandi gruppi con i principi e le tecniche della microevoluzione.

Come le mutazioni sono le unità di base della microevoluzione, così le specie lo sono per la macroevoluzione; in questo senso Eldredge e Gould affermano che “la speciazione è il rozzo materiale della macroevoluzione”[9]. La conseguenza di questa analogia che la macroevoluzione è un ‘livello di realtà’ autonomo dalla microevoluzione: per i puntuazionisti il mondo naturale è strutturato in livelli gerarchici, ognuno autonomo ma nello stesso tempo interdipendente dagli altri[10].

Ad una tradizionale selezione naturale operante a livello di microevoluzione, si aggiunge la “selezione tra specie”. Quest’ultima non viene considerata un nuovo meccanismo evolutivo[11] bensì semplicemente il modo di operare della selezione darwiniana ad un altro piano. Così “lo stesso processo lavora in modi differenti a differenti livelli di complessità e organizzazioni”[12].

In questo senso il “sistema ecologico” diviene altrettanto importante per l’evoluzione quanto quello genetico.

            b) Riduzionismo selezionistico

Secondo Gould e Lewontin in particolare, la Sintesi Moderna avrebbe continuato ad avallare quello che i due definiscono il “programma adattazionista”, ossia l’idea “panselezionista” (di derivazione tardo ottocentesca, reso popolare da Wallace[13]) secondo la quale è “la quasi onnipotenza della selezione naturale a forgiare le forme organiche e il migliore dei mondi possibili[14]“.

Se la ‘omeostasi ontogenetica’ è un dato biologico ossia il fatto che ogni individuo è costretto a svilupparsi ‘canalizzato’, cioè entro norme rigide, il concetto di organismo stesso, allora, riacquista centralità nel processo evolutivo. Così la metafora selezionista dell’organismo come sfera (che può essere, cioè, trasformato dalla selezione a suo piacimento),  deve essere sostituita dalla visione per la quale “l’organismo è un’entità integrata che esercita costrizioni sulla propria storia[15]“.

Interessante il caso degli “exattamenti” (“exaptation”, neologismo creato da Gould e dalla paleontologa Elisabeth Vrba), riadattamenti, ovvero adattamenti che possono essere definiti tali solo a posteriori, mentre nascono casualmente per altri scopi o come prodotto accidentale[16].

Il “panselezionismo” contemporaneo, ben reso da Daniel Dennett[17], viene stigmatizzato da Gould, definendolo un processo algoritmico[18].

I meccanismi evolutivi diventano così plurali[19].  

            c) Riduzionismo genetico

Uno dei fondatori della Sintesi Moderna, il genetista T. Dobzhansky, affermò che “poiché l’evoluzione è un cambiamento nella composizione genetica delle popolazioni, i meccanismi evolutivi riguardano i problemi della genetica di popolazioni[20]“.

Più recentemente, Richiard Dawkins ha sostenuto che “l’unità fondamentale della selezione, e quindi dell’egoismo, non è né la specie né il gruppo e neppure, in senso stretto, l’individuo, ma il gene, l’unità dell’ereditarietà[21]”.

Il determinismo genetico comporta lo schiacciamento della dimensione evolutiva nemmeno più sugli individui (come in Darwin), ma addirittura sui geni; commenta Gould: “considero una logica sbagliata e fondamentalmente una stupida caricatura degli intenti autenticamente radicali di Darwin l’idea che i geni lottino per il successo riproduttivo all’interno di corpi passivi (organismi)”[22].

            d) Riduzionismo disciplinare

L’atteggiamento critico dei puntuazionisti era motivato da anche un’altra esigenza, ben più profonda: ridare alla paleontologia la dignità di centrale disciplina evoluzionistica, dopo l’involuzione subita negli anni della Sintesi[23].

La sintesi tra paleontologia e teoria evoluzionistica si compì “ad un prezzo molto alto in quanto era inibita agli studi macroevolutivi la possibilità di produrre nuove ipotesi”[24].

A questo “suicidio volontario” della paleontologia, Gould e Eldredge hanno contrapposto una visione gerarchica della natura che vuole rendere giustizia a quella nobile disciplina, considerandola scienza autonoma, ancorché interdipendente con le altre.

Il caso della paleontologia è emblematico di altre discipline storico-descrittive, considerate inferiori perché non provviste di apparati matematici sofisticati, di leggi universali e di facili predizioni (come ad esempio la fisica e la chimica).

La verve polemica di S.J. Gould, espressa in centinaia e centinaia di articoli e decine di libri,  ha alimentato un costante dibattito sulle modalità dell’evoluzione darwiniana e stimolato aperture in settori che precedentemente erano stati relativamente presi in considerazione[25].

Trasferita nel campo degli studi sull’evoluzione umana, Eldredge, insieme al paleoantropologo Ian Tattersall[26], hanno attaccato “il modello gradualista e lineare dell’evoluzione umana ancora dominante … anche il percorso verso Homo sapiens doveva assomigliare sempre più ad un cespuglio ramificato di forme nel quale i differenti percorsi evolutivi sono ricchi di discontinuità, di biforcazioni contingenti, di convivenze tra specie, di lunghi periodi di stabilità solcati da brevi periodi di cambiamento”[27].

Così facendo, ogni bagliore di antropocentrismo, ancora risultante dalla visione lineare dell’evoluzione umana, veniva definitivamente cancellato.

Una “unfinished synthesis” (con le parole di Eldredge) quella della teoria evoluzionistica, di stampo darwiniano, quindi antifinalistica, un cantiere sempre aperto.

In definitiva, ci pare che, in una visione postumana, la teoria puntuazionista assolva a quegli assunti di apertura, pluralistici, antiriduzionistici e antideterministici che il mondo della vita ci prospetta.

BIBLIOGRAFIA

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Dawkins, R. (1976), Il gene egoista, Mondadori, 1992

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Dobzhansky, T. (1941), Genetics and the origin of species, Columbia Un. Press, 1941

Eldredge, N. (1982), “Phenomenological levels and evolutionary rates”, Systematics Zoology, 31:338-347

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Gould, S. – Lewontin, R.      (1979), I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss: critica del programma adattazionista, Einaudi, 2001

Gould S. – Vrba E. (1982), Exaptation: il bricolage dell’evoluzione, Bollati Boringhieri, 2008

Jablonka E. (2008), Le cinque madri: eredità e evoluzione da una prospettiva di sviluppo, in Il futuro di Darwin. L’individuo, UTET, 2008

Marchesini R. (2002), Post-human: verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, 2002

Mayr, E. (1982), Storia del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino, 1990

Pievani T. (2002), Introduzione, in Eldredge N., Le trame dell’evoluzione, Raffaello Cortina, 1999

Pievani T. (2008), Introduzione in Gould S., L’equilibrio punteggiato, Codice, 2008


[1]           Eldredge, N. – Gould, S.     (1972), “Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism”.

[2]           La Sintesi Moderna (Modern Synthesis), come la battezzò Julian Huxley nel 1942, rappresenta un caso interessante nella storia della scienza. Essa si costituì, infatti, a partire dagli anni ’40 in un blocco teorico più o meno omogeneo, raggruppando entro una cornice comune alcune discipline di scienza naturale che prima di allora possedevano criteri e metodologie indipendenti.             Il concetto di evoluzione, e in particolare la sua articolazione nella nuova teoria, fornì a quei settori (tra i quali la zoologia, la genetica, la botanica, la paleontologia, per menzionarne solo alcune) un punto di riferimento comune su cui basare le loro procedure analitiche e sperimentali.

[3]           Eldredge, N. – Gould, S. (1972), p. 89.

[4]           Lo stesso Darwin si trovò di fronte a questa difficoltà, che ammise essere “la più seria obiezione che può essere mossa alla mia teoria” (Darwin C. (1859), p.360)? La risposta fu che: “secondo me la spiegazione va ricercata nell’estrema imperfezione della documentazione geologica” (ibidem, p.360). Così si espresse in un passo celebre: “considero l’archivio naturale della geologia alla stregua di una storia del mondo assai mal redatta e scritta in un linguaggio soggetto a continui mutamenti. Inoltre è una storia della quale possediamo solo l’ultimo volume e, per di più, riferito solo a due o tre paesi. E’ un volume del quale si è conservata solo qualche pagina sparsa, nelle quali sono leggibili solo poche righe prese a caso” (ibidem, pp. 384-385). In ogni caso, in un passo della quarta edizione poi inserito anche nella sesta ed ultima del suo capolavoro, Darwin affermò: “il periodo durante il quale ciascuna specie è andata incontro a modificazioni, sebbene lungo se misurato in anni, è stato … breve rispetto al periodo durante il quale le stesse specie sono vissute senza subire mutamenti di sorta” (ibidem, p. 389).

[5]           Fu lo zoologo Mayr il primo a teorizzare, già dal 1942, un modello che prevedeva un rapido cambiamento evolutivo. Egli fornì la prima elaborazione articolata della teoria della speciazione allopatrica, ossia di quel modo di speciazione per isolamento spaziale che oggi viene riconosciuto di gran lunga il prevalente nelle specie animali. Sono gli “isolati geografici”, cioè piccole popolazioni, talvolta solo di poche unità, a costituire la base per la nascita di nuove specie. In queste piccole comunità generalmente la speciazione avviene rapidamente, addirittura entro poche generazioni (qualche migliaio o centinaia di anni), con conseguente rivoluzione genetica (cfr Mayr, E. (1982)). 

[6]           Da questi primi tre cardini della teoria consegue che i salti morfologici riscontrati nella documentazione fossile non sarebbero più semplicemente attribuibili all’imperfezione della raccolta, bensì sarebbero dovuti al modo stesso di speciazione. “Il salto rivela la migrazione della specie figlia (dall’area perifericamente isolata in cui essa è nata) nel territorio della specie madre … Dal momento che la speciazione avviene rapidamente in piccole popolazioni che occupano piccole aree lontane dal vasto territorio dei progenitori, raramente scopriremo il vero momento di speciazione nel record fossile” (Eldredge, N. – Gould, S. (1972), p. 96).

[7]              Studi di embriogenesi hanno mostrato che piccole modificazioni genetiche nel tempo di regolazione dello sviluppo provocano, con effetto di amplificazione, evidenti alterazioni morfologiche nelle forme adulte. Le difficoltà di incrocio con i partner non modificati (una delle più serie obiezioni rivolta contro i macromutuazionisti) sarebbero superate in quanto l’individuo mutante sarebbe geneticamente compatibile con gli altri (Cfr. Gould S. (1980a), p. 219).
Scrive Marchesini: “L’antinomia tra i fautori del gradualismo e i teorici degli equilibri puntuati potrebbe trovare una composizione affermando che i processi che realizzano la variabilità genica si muovono all’insegna del gradualismo darwiniano, attraverso l’accumulazione di semplici mutazioni puntiformi, mentre la trasformazione delle specie, che riguarda i fenotipi come soggetti riproduttivi avviene per salti quantici ogniqualvolta il sistema supera il livello di soglia” (Marchesini R. (2002), p. 101).

[8]           “Le tendenze possono verificarsi semplicemente perché alcune specie vanno incontro a speciazione più frequente di altre, non perché le nuove morfologie abbiano un vantaggio selettivo” (Gould S. (1982b), p. 166).

[9]           Gould S. – Eldredge N. (1977), p. 130.

[10]         Eldredge individua cinque livelli gerarchici, ognuno con il proprio oggetto specifico (dal più basso al più alto: il pool genico, il fenotipo, la specie, i taxa monofiletici e gli ecosistemi): “per ogni tipo di individualità ontologica nel regno biotico, c’è un livello fenomenologico del processo evolutivo” Eldredge N. (1982), p. 339.

[11]            Cfr. Eldredge N. – Gould S. (1972), p. 112.

[12]         Gould S. – Eldredge N. (1977), p. 139.

[13]         Ma non da Darwin che così argomentava: “Però, siccome, ultimamente, le mie conclusioni sono state oggetto di interpretazioni errate, tanto che si è arrivati ad affermare che io attribuisco la modificazione delle specie esclusivamente alla selezione naturale, mi sia consentito far rilevare, che, nella mia prima edizione di questa mia opera, e nelle edizioni successive, ho messo bene in vista (cioè alla fine dell’introduzione) le seguenti parole: ‘sono convinto che la selezione naturale è stata la causa principale, ma non l’unica, delle modificazioni'” (Darwin (1859), p. 565). Dal tempo di Darwin il concetto di selezione naturale ha cambiato in parte il suo significato: da lotta per l’esistenza e sopravvivenza del più adatto, essa divenne sinonimo di successo riproduttivo differenziale (la capacità di produrre più prole feconda).

[14]         Gould S. – Lewontin R. (1979), p. 6.

[15]         Gould S. (1980b), p. 129.

[16]         Cfr Gould S. – Vrba E. (1982): emblematico il caso delle piume degli uccelli nate prima con uno scopo probabilmente termoregolatorio, poi divenute  adattamenti, cooptazioni, per il volo. Lo stesso Darwin aveva adombrato un concetto simile: “la selezione naturale, purché ne possa trarre vantaggio, non avrà difficoltà a specializzare una parte o un organo, rendendola adatta ad una sola funzione, e quindi cambiando radicalmente, ma per gradi insensibili, la stessa funzione” (Darwin C. (1859), p. 233).

[17]            Cfr. Dennett D. (1985).

[18]         “Allora, ecco l’idea pericolosa di Darwin: il livello algoritmico è il livello che meglio rende conto della velocità dell’antilope, dell’ala dell’aquila, della forma dell’orchidea, della diversità delle specie, e di tutte le meraviglie nel mondo della natura. … C’è qualcosa di immensamente affascinante nell’adattazionismo rigoroso – il sogno di una semplicità di fondo per spiegare un mondo estremamente complesso e vario” (Gould S. (1997)).

[19]         “In un programma adattazionista i grandi temi storici della morfologia, dello sviluppo e del Bauplan sono largamente dimenticati: se la selezione può rompere ogni correlazione e ottimizzare le parti separatamente, allora l’integrazione dell’organismo conta ben poco. Troppo spesso il programma adattazionista ci dona una biologia di parti e di geni, ma non dell’organismo. Si suppone che tutte le transizioni possano avvenire passo a passo sottovalutando l’importanza dei blocchi integrati di modelli di sviluppo e delle costrizioni passive della storia e dell’architettura. Una visione pluralistica potrebbe rimettere gli organismi, con tutta la loro complessità recalcitrante, ma ancora comprensibile, al centro della teoria dell’evoluzione” (Gould S. – Lewontin R. (1979), p. 26).

[20]            Dobzhansky T. (1941),  p. 12.  La genetica di popolazioni tratta dal punto di vista statistico lo spostamento delle frequenze geniche in una popolazione.

[21]         Dawkins R. (1976), pp. 13-14.

[22]         Gould S. (1997). Così, più recentemente, un’esponente della “nuova” epigenetica: “La visione gene-centrica ha portato a una concezione molto ristretta di eredità, sviluppo e evoluzione. Meccanismi evoluti di variazione-generazione non sono stati considerati, e tipi di processi ereditari che sono indipendenti dalla variazione genetica sono stati esclusi o sottovalutati. Il cambiamento evolutivo biologico (non-culturale) è stato ristretto ai cambiamenti che potevano essere spiegati da modificazioni nelle sequenze geniche. Alla luce della nostra comprensione dell’ereditarietà di oggi, questa non è più una concezione sostenibile”(Jablonka (2008), p. 3).

[23]         Un’involuzione particolare, ammette Gould, in quanto il paleontologo Simpson, uno degli architetti della Sintesi Moderna, nel 1944 la liberò dall’ingenuo credo induttivista, introducendo una metodologia teorica corredata di “grafici, distribuzioni di frequenza, figure esplicative” (Gould (1980c), p. 158).

[24]         Gould, S. (1980c), p.170.

[25]         L’intera concezione gouldiana dell’evoluzione è reperibile nel suo ultimo sterminato lavoro,  La struttura della teoria dell’evoluzione, pubblicato nel 2002, poco prima di morire. “Il tentativo di Gould … fu di capire in che modo si potesse costruire una teoria darwiniana “estesa” e pluralista in grado di includere coerentemente al proprio interno i nuovi avanzamenti della ricerca” Pievani T. (2008), p. XXXVI.

[26]         Cfr. Eldredge, N. – Tattersall I. (1992).

[27]         Pievani T. (2002), p. XXV.

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