“Gli animali sono fatti per essere mangiati”, “anche le piante soffrono”, “non possiamo vivere senza proteine animali”, “non lo sai che anche Hitler era vegano/vegetariano?” sono un costante refrain che ronza nelle orecchie di ogni persona veg*[1]. Ogni veg* sa che dietro l’angolo vi può sempre essere appostato un amante dei barbecue, che sente minacciato, per il solo avere davanti una persona non carnista[2], il suo “inviolabile diritto” di cibarsi di animali uccisi e che quindi si sente chiamato a dover rispondere a questa minaccia. Come mai e perché vi è questa esigenza irrefrenabile, da parte di molti mangiatori di carne, di pescare da un repertorio codificato – e ormai trito e ritrito – di obiezioni alle posizioni dei vari membri della comunità veg*? Questo comportamento è una delle tante espressioni della vegafobia presente nella nostra società. La vegafobia è l’oggetto di studio di Anche Hitler era vegano, testo del semiologo Dario Martinelli uscito a luglio di quest’anno per Mimesis. Essa può essere descritta come quell’atteggiamento, sistemico e radicato, di stigma che porta ad atteggiamenti irridenti o addirittura discriminatori verso le persone veg*, che veicola stereotipi e pregiudizi nei confronti della comunità veg* e delle sue istanze etiche e politiche, e che, soprattutto, permette attraverso queste prassi di non problematizzare e dunque di legittimare il consumo di carne e lo sfruttamento animale. Il concetto di vegafobia, come ricorda Marco Reggio in una recensione al testo di Martinelli[3], è stato introdotto in Francia da parte di gruppi militanti nell’ambito del Veggie pride, una manifestazione annuale di rivendicazione delle istanze vegetariane e vegane. In ambito anglosassone, il fenomeno della vegafobia è stato approfondito da alcunǝ studiosǝ come Matthew Cole e Karen Morgan. La vegafobia, però, non è stata per ora oggetto di un gran numero di studi di tipo accademico e rappresenta un fenomeno da esplorare ancora in modo approfondito; tanto meno è stata affrontata nel campo di competenza di Martinelli (professore ordinario alla Kaunas Univerity in Lituania), cioè la semiotica[4].
Anche Hitler era vegano esplora quindi le manifestazioni e le cause profonde della vegafobia con un approccio articolato e una prosa leggera: attraverso gli strumenti della semiotica e una conoscenza della questione animale derivante da anni di attivismo antispecista[5] e ricerca, Martinelli mostra le dinamiche delle varie strategie vegafobiche e le riconnette al più vasto sistema di sfruttamento degli animali non umani. Il testo mostra anche l’infondatezza dei vari pregiudizi e stereotipi intorno al veg*ismo con una rigorosa ricostruzione della sua storia ma con anche uno stile ironico – smontando anche nella prassi un luogo comune molto radicato nel nostro contesto sociale, cioè che noi persone veg* non siamo ironiche e autoironiche.
Il lavoro di Martinelli non punta solo a una descrizione del fenomeno della vegafobia, ma si addentra all’interno delle questioni etiche correlate aiutandosi con gli strumenti della semiotica. Quest’ultima, configurandosi come prescrittiva e non solo come descrittiva, ha il dovere di individuare e descrivere determinati problemi sociali con il fine di aiutare ad affrontarli. Un approccio «militante ma non fanatico»[6], quindi, che rigetta la ricerca di una presunta neutralità e dichiara fin da subito il proprio posizionamento: lungi dall’essere un ostacolo, la prospettiva militante di Martinelli permette invece di mostrare i presupposti problematici e la retorica della nostra società antropocentrica, che sarebbero stati invece assunti come dati di fatto neutrali senza un occhio di riguardo alla condizione odierna degli animali non umani.
Veg* nel mondo e forme di vegafobia
Il libro di Martinelli fornisce un ampio campionario delle varie manifestazione della vegafobia e delle varie strategie comunicative atte a depotenziare il portato sociale e politico del veg*ismo. Riprendendo gli studi di Julia Minson e Benoît Monin, le varie manifestazione dell’ostilità verso i veg* rappresentano, per Martinelli, casi di “do-gooder derogation”, cioè di disprezzo per chi tenta di avere un comportamento moralmente e socialmente corretto. Attraverso il semplice barricarsi dietro lo spauracchio della libertà individuale – Cruciani docet – oppure etichettando il veganesimo come semplice moda passeggera, la rappresentazione delle persone veg* attua un continuo tentativo di depoliticizzazione del veg*ismo. Martinelli, attraverso il ricorso a dati di svariati istituti ed enti internazionali e ad analisi sociologiche, mostra invece come questa rappresentazione stereotipica sia fortemente sganciata dalla realtà. Il termine vegan, sin da quando nel 1944 è stato coniato da Donald Watson, è sempre stato legato al tema etico e politico dello sfruttamento animale: non su una scelta di salute o di gusto, il veganesimo si basa sulla volontà di condurre, per quanto possibile, la propria vita senza perpetuare nessuna forma di violenza e sfruttamento verso i non umani. Attraverso alcuni dati disponibili oggi su chi ha scelto una dieta senza carne e derivati, possiamo inoltre vedere come la stragrande maggioranza delle persone adotta una dieta vegana o vegetariana per questioni ambientali, per la questione animale o per questioni sociali come la povertà alimentare[7]. In conclusione, il veg*ismo è sempre stato, intrinsecamente, etico e politico.
Nel testo di Martinelli disponiamo inoltre di una lunga lista delle più svariate strategie comunicative in cui la do-gooder derogation si esplicita. Per citarne solo alcune, mi focalizzo su tre strategie – denominate da Martinelli “il dogma della libertà personale”, “il cambio del bersaglio” e “la sindrome del leone e della gazzella” –, a parere mio esemplificative del tentativo di depoliticizzare il veg*ismo. Le prime due strategie appaiono simili, ma partono da presupposti molto differenti: il “dogma della libertà personale” parte dal presupposto della libertà di ognuno di praticare le proprie scelte, comprese quelle alimentari[8]; il “cambio del bersaglio” sposta invece il fulcro della questione al solo apsetto alimentare, preferendo definire il veg*ismo come dieta o come stile di vita e non come posizione etica e/o politica. Entrambe queste strategie attuano una invisibilizzazione della questione animale, nascondendo la violenza intrinseca alla produzione di prodotti dell’industria zootecnica. Rendendo invisibile la violenza sugli animali non umani, veg*ismo e carnismo sembrano solo posizioni personali, dettate da preferenze individuali, da una certa sensibilità a determinati temi o dal semplice gusto; anzi, appaiono particolarmente “prepotenti” – o rompiscatole, guastafeste, politicaly correct a seconda dell’aggettivo che si preferisce – le persone veg* che cercano, come viene detto dalla controparte carnista, di “diffondere e convincere le altre persone ad adottare il proprio stile di vita”. Per chi tratta da un po’ queste tematiche, risulta ovvio come queste strategie attuino un capovolgimento della realtà: tale rovesciamento, però, contribuisce in modo significativo alla costruzione dell’immagine delle persone veg* a livello sociale e, se non scovato, induce paradossalmente a dare ragione al carnista.
La terza strategia, “la sindrome del leone e della gazzella”, ha suscitato particolarmente il mio interesse, anche perché ultimamente credo sia una strategia particolarmente inflazionata: esemplificazione di tale retorica è l’inflazionata frase “anche i leoni mangiano le gazzelle nella savana”. Penso che tale retorica possa essere descritta come una versione basata sull’analogia di ciò che in filosofia viene definita fallacia naturalistica. La fallacia naturalistica, definita in questo modo da George Moore ma già affrontata tra Sette e Ottocento dai filosofi britannici David Hume e John Stuart Mill, è una fallacia all’interno del discorso etico, che porterebbe a far derivare una norma o una giustificazione morale da una situazione di fatto, cioè a trasformare un “essere” in un “dover essere”. Nel caso preso in esame da Martinelli, dal fatto che altre specie animali (spesso la specie chiamata in causa è il leone) si cibino di carne, ne conseguirebbe che è giustificato moralmente il nostro consumo di prodotti animali. Oltre alla fallacia di derivare da un dato di fatto una giustificazione morale, tale strategia risulta, inoltre, estremamente problematica per il fatto stesso di porre in essere un’analogia tra un comportamento di un’altra specie e un nostro comportamento. Come scrive Martinelli, «l’idea di trovare una giustificazione morale in qualsiasi pratica sulla base della sua comparsa in qualche altra specie apre a una serie di altri possibili confronti, che vanno dal terrificante al ridicolo» (p. 106). Pescando dal vasto repertorio dei comportamenti delle altre specie animali troviamo, come si suol dire, tutto e il contrario di tutto. Un altro punto critico è anche la mancanza totale di aderenza scientifica di questo paragone, essendo noi polifagi e non carnivori e non essendoci nessun vincolo “naturale” per la nostra specie al consumo di carne.
Spostandoci dal campo etico all’analisi dei discorsi, reputo questa strategia esemplificativa di certe dinamiche di naturalizzazione dei rapporti di potere: di fatto, richiamarsi al comportamento di un’altra specie, seppur con tutte le aporie mostrate, è un forte strumento per legittimare pratiche di sfruttamento, come spiegato da studiosǝ e attivistǝ come Colette Guillaumin[9]. Il richiamarsi a un comportamento di un’altra specie per naturalizzare un comportamento diffuso nelle nostre società, inoltre, credo sia sintomo di quanto il sistema basato sul privilegio umano possa risultare contraddittorio nella giustificazione di determinate pratiche. Nella nostra cultura, infatti, la condizione di “natura” gioca un ruolo ambiguo, rappresentando sia una condizione da cui emanciparsi sia fonte di norme sacre che vengono violate da chi considerato “contronatura”. Da un lato siamo diversi e speciali rispetto agli altri animali, siamo collocati in un’altra categoria ontologica rispetto a “L’animale”; d’altro canto, gli animali non umani vengono sempre chiamati in causa, quando vi è da affermare un qualche tipo di “stato di natura” da non violare. La natura si rivela in questi discorsi una costruzione culturale, che poco si preoccupa di essere compatibile o meno con i risultati odierni di determinati saperi e che sceglie e ritaglia alcune porzioni o descrizioni della realtà per rendere una naturale conseguenza determinate strutture sociali, le quali in realtà hanno una formazione storica e delle alternative che possiamo percorrere.
Anche Hitler era vegano approfondisce anche i meccanismi attraverso cui gli atteggiamenti discriminatori e pregiudizievoli si consolidano e vengono incentivati. Riprendendo la teoria degli stereotipi di Lippmann e la teoria dei pregiudizi intergruppali di Tajfel, Martinelli analizza funzione e meccanismi di diffusione di pregiudizi e stereotipi. Questi ultimi rappresentano un prodotto di dinamiche sociali della conoscenza: non potendo la nostra mente analizzare e verificare ogni sapere, siamo obbligati a far derivare gran parte del nostro patrimonio conoscitivo da rappresentazioni forniteci da altre persone; queste conoscenze, cioè gli stereotipi, non possono che essere approssimative e inflessibili; al contempo, però, esse non possono essere generate casualmente, ma sono invece motivate da processi culturali e sociali. Gli stereotipi così intesi rappresentano dunque la base cognitiva dei pregiudizi, il materiale di fondo perché si possano poi attuare le varie strategie sopra riportate. Queste rappresentazioni stereotipiche e i pregiudizi che ne derivano vengono prodotti e veicolati in contesti sociali, specialmente attraverso le dinamiche di gruppo. Riprendendo i concetti di ingruop e outgroup di Tajfel, Martinelli mostra come l’ingroup carnista costruisce l’immagine delle persone veg*, rappresentanti dell’outgroup. Mentre per i membri interni al gruppo si tende ad averne un’immagine maggiormente positiva e ad accogliere le conoscenze condivise da loro come più affidabili, si tende invece a vedere i membri esterni come maggiormente estremisti, ad associare loro determinati atteggiamenti negativi – i quali sono invece trasversali tra gruppi –, a rappresentarli come una categoria fortemente omogenea – il classico cliché, declinato ovviamente al maschile, del “sono tutti uguali” –, a giudicare le loro conoscenze in modo approssimativo. Nel caso preso in esame, i veg* diventano quindi estremisti – soprattutto lǝ veganǝ, perseguitatiǝ dalla frase “capisco i vegetariani, ma i vegani no” –, come individui molto simili tra loro, come persone avente un bagaglio di conoscenze scarso e/o prevalentemente errato sulle istanze sollevate.
Alla base di tutto: l’antropoteosi
Siccome non è possibile parlare di veg*ismo senza menzionare la questione animale, non si può comprendere la vegafobia se non la si collega alla più ampia tematica del nostro modo di relazionarci con gli altri animali. Se non deve essere confusa con lo specismo e l’antropocentrismo, la vegafobia ne è però profondamente intrecciata. Il rifiuto, più o meno cosciente, di sottrarsi per quanto possibile a meccanismi di sfruttamento dei non umani provoca nella nostra società carnista astio e meccanismi difensivi[10] vegafobici. Martinelli definisce quello dell’umanità un vero e proprio mito alla base del nostro antropocentrismo. La narrazione intorno alla nozione di essere umano, infatti, rientra pienamente nelle descrizione di mito degli studi culturali e della semiotica; anzi, ne rappresenta forse l’espressione più potente e pervasiva nelle nostre società. Il mito dell’umanità fa di quest’ultima una narrazione che spiega il mondo, una narrazione che incarna e contiene anche l’ideale a cui l’umanità deve aspirare; il concetto di umanità è basato su una serie di nozioni infondate[11] ed è un’entità composta da elementi immaginari. Questi elementi, che compongono il mito dell’umanità per Martinelli, elevano l’umano a uno status quasi divino e producono «una interpretazione dualistica della realtà, basata su criteri di differenza qualitativa e/o di confronto quantitativo e gerarchica» (p. 142): in una parola, questo processo di mitizzazione è sintetizzabile con il neologismo coniato da Martinelli di Antropoteosi. In questo quadro emerge la tendenza quasi spasmodica ad attuare tutta una serie di strategie per tenere in piedi questa costruzione.
Per descrivere una mania di questa tendenza, Martinelli conia in modo ironico l’acronimo di F.I.S.S.A. (la Fondazione Internazionale a Sostegno della Superiorità Antropica): questo organo internazionale di fantasia è un espediente divertente utilizzato da Martinelli per indicare la letterale “fissa” della nostra cultura a cercare e identificare un quid umano, che renderebbe unica e diversa, e quindi speciale, la nostra specie rispetto a tutte le altre.
Martinelli analizza anche i risultati del mito antropocentrico, evidenti soprattutto sotto quattro aspetti. I risultato sono l’antropocentrismo, l’attribuzione umana di centralità e causalità; lo specismo, l’attribuzione di superiorità e unicità all’essere umano; l’antropocrazia, l’attribuzione umana di dominio e controllo; l’antropizzazione, cioè «l’occupazione umana concettuale e fisica del mondo in conformità ultima ed esclusiva con i bisogni e i desideri umani» (p. 140).
Ponendo quindi in modo così esplicito il problema dell’antropocentrismo e di quelle specifiche relazioni di dominio tra noi e i non umani, Martinelli mostra qual è il contesto della vegafobia. Nella nostra società, «stigmatizziamo la reazione dei veg* al nostro carnismo come “troppo radicale” e aggressiva, e ci aspettiamo che si comportino con calma e che accettino silenziosamente l’abuso sugli animali e sull’ambiente, in nome della “libertà personale”»; «costruiamo una normalità di facciata per giustificare la nostra politica di sfruttamento utilizzando qualunque nozione di superiorità ontologica offerta da qualunque disciplina accademica» (pp. 158-159). Abbiamo una sensazione di straniamento e astio nei confronti delle persone veg*, perché ci ricordano che «tutta la nostra economia e la nostra vita quotidiana sono costruite su privilegi che imponiamo con la violenza al pianeta e ai suoi abitanti» (p. 159).
Retorica del carnismo
Il testo presenta anche due casi studio specifici: il primo riguarda la rappresentazioni delle persone veg* sullo schermo e il secondo riguarda il rapporto tra vegafobia e comunicazione. Un punto che ha suscitato particolarmente il mio interesse è l’analisi della retorica carnista nella presentazione dei prodotti animali, presente alla fine del capitolo VII. Più che sulla rappresentazione mediale delle persone veg*, questa digressione approfondisce come nella nostra società, in cui sono culturalmente e materialmente onnipresenti prodotti animali, venga gestita in svariati contesti il legame tra questi prodotti e la loro derivazione da processi violenti. In soldoni, come gestisce la nostra società il fatto che i prodotti animali derivano da pratiche violente? Porsi questo tipo di domande significa porsi, come ha definito Martinelli, su un metalivello di rappresentazione, cioè sul livello dell’elaborazione e della gestione di «una determinata porzione di realtà attraverso mezzi discorsivi e percettivi che appartengono a un’altra porzione di quella realtà» (p. 196). Bisogna comprendere, quindi, che tipo di discorsi e che tipo di immagini vengono fornite e selezionate per elaborare il prodotto animale: che immagini vediamo sulle copertine dei prodotti? Come viene presentata la carne? Che tipo di frasi vengono dette a un banchetto con carne e derivati?
Nel testo, Martinelli classifica in quattro categorie le varie tipologie di retorica carnista. La prima tipologia è di tipo nascosto/dissimulato. Il metalivello di rappresentazione non ha alcuna somiglianza con l’oggetto vivente e ha la funzione di prevenire e scoraggiare ogni connessione cognitiva ed emotiva tra carne e vittime. La seconda tipologia è quella ambigua/antitecia. La retorica qui si presenta a livelli ambigui, con una trasformazione radicale dell’immagine dell’animale: un caso lampante è quello dell’animale rappresentato come felice di farsi mangiare. Oltre a presentare una postverità che Martinelli ben definisce come crudele e cinica, questo tipo di retorica mostra in modo palese l’antropocentrismo delle nostre società, che rappresentano addirittura esseri senzienti felici di essere maltrattati e uccisi da noi umani, di essere gli strumenti dei nostri bisogni.
Queste due tipologie e il concetto di metalivello di rappresentazione sembrano a mio parere molto vicine alle teorie di un’altra teorica antispecista, e femminista, Carol J. Adams, che nel suo testo Carne da macello[12] tenta di mostrare la connessione tra oppressione di genere e oppressione di specie. La filosofa e attivista americana propone infatti di descrivere il rapporto tra gli animali non umani e i prodotti animali secondo le modalità del referente assente. Tale espressione, presa anch’essa dalla semiotica, indica quell’individuo soggetto di determinati discorsi o pratiche che però non viene mai reso esplicito. L’animale non umano è il referente assente della carne (e non solo), in quanto è stato il soggetto che è stato letteralmente rimosso e reso carne, ma che non viene evocato nell’immagine e nei nostri discorsi intorno a essa. Attraverso un continuo attuarsi del ciclo del referente assente, il quale prevede l’oggettificazione la frammentazione e il consumo del referente, e un continuo annullamento dell’individuo a livello letterale, definizionale e metaforico, l’immagine dell’animale si scolla sempre di più dalla carne, è sempre meno evidente il loro legame. Il portato violento delle nostre pratiche viene invisibilizzato e l’immagine animale può essere quindi adoperata senza riferirsi alla reale condizione degli individui e nei contesti più disparati. Fluttuando in un certo senso “libera” tra vari contesti mediali, l’immagine animale può quindi essere adoperata per giustificare altri tipi di oppressione – questa la famosa teoria dei referenti assenti di Adams – e può essere manipolata anche nelle forme più assurde, come quelle accennate circa la seconda tipologia di retorica carnista. La teoria di Adams propone un’architettura teorica molto efficace nella descrizione dei metalivelli di rappresentazione dove la violenza viene occultata e l’immagine dei non umani manipolata per rendere meno evidente possibile la connessione tra prodotto carneo e violenza. Dove però, credo, le teorie di Adams forniscono un apporto meno proficuo, sono le altre due tipologie di metalvelli di rappresentazione: specialmente nell’ultima casistica analizzata da Martinelli, in cui il referente non è assente ma anzi reso esplicito e la connessione con la violenza viene resa manifesta, credo sia meno pregnante il discorso del referente assente[13].
La terza tipologia di retorica carnista è quella del chiaro/informativo. In questo caso il messaggio deve essere il più semplice e immediato possibile: ne sono un esempio le varie sagome stilizzate utilizzate per indicare il tipo di prodotto ed eventuali allergeni. La quarta tipologia è quella esibita/ostentata. In questo caso la connessione tra individuo e prodotto animale viene resa visibile e presentata in modo assertivo ed esclamativo. Un esempio sono le sagre o le feste folkloristiche che espongono corpi animali ben identificabili. Anche in questo caso, anche quando la connessione è esplicita, viene introdotto un metalivello, cioè quello dell’antropocrazia esplicita: il dominio sugli altri animali viene in questo caso ricordato o assunto come un qualcosa di scontato. Più subdola, ma comunque evidente è il caso della carne felice, o comunque di tutte quelle filiere produttive che manifestano il loro lato “welfarista”. La comunicazione di queste aziende rende palese la derivazione delle loro merci e cerca di presentare e valorizzare il prodotto come frutto di un processo virtuoso, che tiene conto del benessere degli animali[14]. Questo tipo di discorso, come sintetizza Martinelli, è espressione dell’antropocrazia umana, di un dominio sul non umano mai messo in discussione ma al massimo esercitato con un pizzico in più di compassione.
Conclusioni
Anche Hitler era vegano rappresenta quindi un testo sì dedito a una tematica specialistica, ma si propone anche di esporre il tema della vegafobia e il più ampio dibattito intorno alla questione animale a un pubblico più vasto possibile. Il testo fornisce anche un ampio campionario di risposte alle sentenze dei carnisti vegafobici, utile soprattutto a chi adesso inizia ad addentrarsi nel mondo antispecista.
Lungo tutto il testo sono presenti numerosi paralleli tra la vegafobia e altre forme di pregiudizi e discriminazioni, tra l’oppressione degli animali non umani e le oppressioni di vari gruppi umani. Sotto questo punto di vista, il testo di Martinelli mostra i collegamenti tra le varie forme di sfruttamento e dominio, su umani e non, e si riallaccia a tanta letteratura antispecista che pone la questione animale in collegamento con le altre questioni del nostro tempo. Se, come ben sottolinea Martinelli, essere antispecistǝ non significa automaticamente essere attentǝ ad altre lotte, nei movimenti antispecisti/animalisti non sono però marginali le riflessioni e le battaglie consce dei collegamenti tra le istanze più disparate; anzi, questi tipi di approcci diventano sempre più diffusi e prolifici, come nel caso dell’approccio intersezionale.
Per concludere quindi, Anche Hitler era vegano rappresenta un testo che tratta la questione della vegafobia in modo rigoroso ma anche leggero, che rende fruibili le riflessioni derivanti da semiotica e militanza senza però banalizzarle. Tutto ciò non perdendo quello che è il fulcro delle battaglie antispeciste o animaliste, cioè la questione animale.
di Fabrizio Ferraro.
[1] Martinelli ha deciso di utilizzare la dicitura veg* per persone vegetariane e vegane e la dicitura veg*ismo per veganismo (o veganesimo) e vegetarianismo. Tale scelta è dettata dal fatto che in una trattazione intorno alla vegafobia non è possibile escludere uno dei due gruppi o una delle due pratiche: infatti, anche le persone vegetariane appartengono alla comunità veg*, subiscono atti di vegafobia e rappresentano dunque una casistica di studio importante per il fenomeno preso in esame. In questa recensione ho deciso di riprendere la terminologia adottata dall’autore.
[2] Il termine carnismo, utilizzato da Martinelli lungo tutto il testo, è stato introdotto dalla psicologa americana Melanie Joy in un testo ormai classico per il mondo animalista, Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche. Il carnismo denota un sistema culturale che giustifica e legittima il consumo di carne attraverso una serie di norme, abitudini e credenze. L’atto di mangiare carne viene quindi visto come un atto primariamente culturale, dettato più da un contesto sociale che da una disposizione “naturale”. Il carnismo diventa quindi un determinato set di pratiche e credenze, che si attua soprattutto in campo alimentare ma non solo, e il carnista diventa colui che consuma carne e che dunque aderisce al sistema carnista.
[3] Cfr. M. Reggio, Vegafobia. “Anche Hitler era vegano”, «Rewriters», 3 agosto 2025, disponibile al seguente link https://rewriters.it/vegefobia-anche-hitler-era-vegano/.
[4] Per chi non conoscesse questa disciplina, la semiotica studia i segni e tutti i processi di significazione. Senza addentrarci nei vari campi e nella storia ramificata della disciplina, la semiotica non si occupa solo dell’analisi logica delle parti di un messaggio, ma studia anche il contesto mediale e le varie forme e meccanismi della comunicazione. Possiamo dire che, perché ci sia uno studio semiotico, è necessario soltanto ci siano un messaggio e un processo interpretativo. Per questo motivo, la vegafobia, come tutti i vari fenomeni di stereotipizzazione e discriminazione, rientra pienamente come oggetto di studio della semiotica e la sua assenza in questo campo rappresenta una lacuna che doveva essere colmata.
[5] L’antispecismo è un movimento di lotta estremamente ramificato, che presenta al suo interno un insieme di pratiche politiche e riflessioni teoriche difficili da racchiudere in modo esaustivo in una definizione sintetica. I vari antispecismi sono accomunati però da un rifiuto del privilegio umano e del sistema di dominio sugli animali non umani: dallo sfruttamento degli animali non umani in campo alimentare agli spettacoli nei circhi fino alla sperimentazione animale, una prospettiva antispecista si oppone alla visione prevalentemente strumentale che abbiamo degli animali non umani, all’assunto che i corpi degli animali non umani siano corpi disponibili e sacrificabili a discrezione degli interessi umani.
[6] D. Martinelli, Anche Hitler era vegano. Demagogia e stereotipi della vegafobia, Mimesis, Milano 2025, p. 19. D’ora in poi le citazioni dirette al testo in esame saranno seguite dal solo riferimento di pagina tra parentesi tonde.
[7] Come è risaputo in ambito ecologista e come riporta anche Martinelli, il consumo di acqua e suolo dei prodotti animali è estremamente più alto di quello dei prodotti vegetali e la maggior parte delle deforestazioni sono causate dell’industria zootecnica. Una comunità che sceglie sempre più prodotti vegetali ha sempre più cibo a disposizione. Per i dati e le analisi più dettagliate, rimando a quanto riportato nel testo in esame.
[8] Esempio paradigmatico in Italia di questo atteggiamento, come prima accennato, è Giuseppe Cruciani, che tra libri pubblicati, le trasmissioni condotte come La zanzara e altre apparizioni televisive ha scelto come suo marchio comunicativo distintivo la difesa a spada tratta di qualsiasi cosa definita come libertà e l’attacco a ogni tipo di denuncia. Che sia sulla questione animale (tema su cui ha pubblicato il testo I fasciovegani. Libertà di cibo e di pensiero), sulle questioni di genere o climatiche, Cruciani professa, spesso con provocazioni e battute irrisorie, la più totale “libertà” di espressione e atteggiamento verso il prossimo, definendo come “opinioni” anche offese e atti discriminatori e appiattendo le posizioni di oppressi e oppressori a semplici visioni contrastanti.
[9] Le posizioni della sociologa e femminista francese sono disponibili in italiano in C. Guillaumin, Sesso, razza e pratiche di potere. L’idea di natura, tr. it. S. Garbagnoli, V. Perilli, V.R. Corossacz, ombre corte, Verona 2020. In ambiente antispecista Yves Bonnardel e Massimo Filippi si sono interessati ad approfondire il tema dell’ “ideologia della Natura”, mentre altre riflessioni intorno alla categoria di natura sono state condotte da filosofe femministe come Donna Haraway e Val Plumwood e da studiosi marxisti come Neil Smith e Jason Moore. Per approfondire si veda: Y. Bonnaerdel, Idea di Natura, umanismo e negazione del pensiero animale, «Liberazioni», vol. 11, n. 3, 2012.; S. Torre, La produzione della natura, in L. Pellizzoni (a cura di), Introduzione all’ecologia politica, il Mulino, Bologna 2023, pp. 97-108.
[10] Un altro testo, ormai classico dei critical animal studies, affronta con strumenti diversi questo tipo di “sbigottimento” della maggioranza delle persone di fronte a persone vegane: il Queer Vegan Maniphest di Simonsen. Ponendo – pur tenendo conto delle loro differenze – un parallelo tra queerness e veganesimo, Simonsen trova in loro un comune effetto estraniante, causato dalla violazione di queste posizioni alle norme della nostra società antropo-eteronormativa. Cfr. R.R. Simonsen, Queer vegan manifesto, tr. it. F. Tarsatti, «Liberazioni», 14 (2016), pp. 44-68.
[11] Una tra queste è la stessa nozione di “animale” come termine che denota tutte le specie animali tranne quelle del genere Homo.
[12] Cfr. C.J. Adams, Carne da macello, tr. it. M. Andreozzi e A. Zabonati, VandA Edizioni, Milano 2020. Per approfondire la figura di Adams, filosofa e attivista sia nel campo antispecista sia in quello femminista, consiglio l’intervisto di Tiengo, che mostra quanto possa essere di ispirazione il lavoro della filosofa americana. Cfr. A. Tiengo, Intervista a Carol Adams: teoria, attivismo, letteratura, «Liberazioni», 12 (2016).
[13] Mi si può obiettare che, nel processo di sfruttamento di un individuo, quest’ultimo venga sempre in qualche modo annichilito, invisibilizzato e che gli animali non umani nella nostra società risultino sempre la parte invisibile dei nostri discorsi. Credo, però, che la proposta teorica di Adams proponga una specifica visione di come avviene tale invisibilizzazione e che la teoria del referente assente non riesca a descrivere in maniera esaustiva alcuni fenomeni.
[14] Quanto sia contraddittoria questa posizione è stato più volto sottolineato dal movimento antispecista, che ha rigettato ogni forma di “mattatoio etico”, humane fishing o carne felice.