Filosofia Postumanista Italia

La felicità come “cattiva fede”. Critica femminista al concetto di felicità (e perché interessa anche la nostra relazione con le non umane)

La femminista guastafeste (killjoy feminist), com’è definita da Sara Ahmed nel suo libro Manuale della femminista guastafeste e non solo1, ha il ruolo – spesso anche solo con la sua presenza, esistenza e sopravvivenza – di guastare la festa, appunto, ovvero di smantellare i presupposti oppressivi su cui si fondano la società e un certo tipo di socialità. Dipinta come colei che crea problemi – anziché come colei che li fa notare –, infelice, fastidiosa, ostinata, disadattata, distruttrice di momenti sociali (la cui coesione è basata sull’accordo intorno a sessismo, razzismo, abilismo, specismo e così via), sempre arrabbiata, troppo seria perché non ride quando è giusto ridere, la guastafeste in realtà non intende portare infelicità, ma è disposta a farlo, se felicità significa coesione di un gruppo basata sull’oppressione.

Anche un animale non umano, quando si autodetermina, esprime i propri bisogni, scappa da un allevamento o da qualche altra situazione di reclusione o disagio, è a suo modo guastafeste. Crea uno squarcio nel velo di Maya che copre le fondamenta della società specista, diventa scomodo, fuori luogo – fuori dal luogo a lei destinato. Ogni forma di resistenza, spesso anche “solo” di esistenza, guasta la festa dell’oppressore – e meno male, perché è la festa a essere il problema, non chi la guasta.

Ecco quindi che un sistema oppressivo, per essere così radicato, ha bisogno di giustificazioni che devono essere accettate anche dall’oppressa. Il concetto di felicità, nella visione femminista intersezionale di Sara Ahmed, diventa un’insidia, un elemento introdotto in «cattiva fede»2: ti opprimo, e poi ti dico che è giusto che tu occupi quella data posizione da me decisa, perché so io dov’è la tua felicità. Ce lo fa notare Mary Wollstonecraft nel testo Sui diritti delle donne, dove mostra come l’oppressione delle donne si basi sul fatto che gli uomini, appunto, affermino di sapere come renderle felici.

Le classi subalterne sono state tenute al loro posto per molto tempo con la scusa del destino e del divino, ora sostituito dalla retorica del merito: sei lì perché qualcun’altra è stata più brava di te, ha avuto più forza di volontà di te, e si è meritata più di te un riscatto sociale.

Alle donne viene ancora detto che il lavoro di cura non retribuito è un obbligo biologico a cui non possono sottrarsi. E l’immagine dell’uomo come protettore della donna (da proteggere, s’intende, dagli uomini stessi) è una delle più frequenti obiezioni alla misandria di cui le femministe sono accusate.

I corpi grassi vengono medicalizzati e a chi li abita viene detto a prescindere che “la loro condizione” è automaticamente causa di infelicità e malattia, senza indagare oltre. Stessa cosa si può dire rispetto a molte persone disabili o trans. Sicuramente la persona disabile è infelice e va compatita e aiutata. Sicuramente il corpo trans va medicalizzato e psichiatrizzato, perché qualcosa non va. Lo riassume bene Ahmed: «il desiderio per la felicità altrui può essere un ordine»3.

Più difficile è convincere un animale non umano che la sua oppressione è giusta ed è parte della “natura delle cose” – e infatti le non umane resistono, come resistono le oppresse umane (se non fosse così, la zootecnia non starebbe affinando da secoli sempre di più le proprie modalità di detenzione e macellazione). Ma fra noi possiamo raccontarcela. Pensiamo di sapere noi cos’è meglio per i “nostri” animali “domestici” – meglio la cattività a vita che i rischi della vita “naturale” e libera e in linea con le caratteristiche specie-specifiche. Oppure rapiamo cani e gatti liberi che chiamiamo randagi, magari ci impietosiamo per loro e li costringiamo alla città o al canile. Perché alla fine un cane, senza di noi, dove va? Chi è? Probabilmente questo dubbio dice molto più di noi che dell’altra specie. E un gatto? Ha sicuramente bisogno di essere contenuto in casa, altrimenti fa danni. Per non parlare delle specie addomesticate inette alla vita libera come le pecore.

La felicità diventa quindi un atto di cattiva fede, l’ennesimo marchio imposto dall’oppressore. Per guastare la festa allo specismo, è necessario contestare quindi il concetto di felicità come atto violento che serve a tenere le oppresse lì dove l’oppressore ha deciso di metterle; ma anche come sovradeterminazione di alcuni approcci paternalistici da salvatori (umani, bianchi, etc).

La felicità così intesa, non è altro che un modo per mantenere l’ordine sociale attraverso l’accettazione di un destino o di una logica naturalizzata, normalizzata e da considerarsi necessaria. Di conseguenza la guastafeste, vista come infelice perché femminista e femminista perché infelice e insoddisfatta, finisce per contaminare anche la felicità altrui.

Alla base c’è un opprimente obbligo di essere positive a tutti i costi, un ottimismo che non è che una forma di conservatorismo, e un’idea di felicità, in ultima istanza, che in realtà è accettazione, una «forma di offuscamento»4, un adattamento a dei limiti imposti, una prossimità a uno standard (che abbiamo ormai capito essere arbitrario: l’uomo bianco cis-etero proprietario abile etc), l’occultamento di crudeltà che devono essere ignorate perché la società continui a reggersi.

Questo non significa che non possa esistere gioia nella lotta, soprattutto quando significa lottare con altre sorelle, che non sia possibile essere guastafeste e felici – ma la felicità, nel nostro mondo capitalista, iper-individualista e competitivo, oppressivo per molte e retto da un intreccio di sistemi che sottomettono i corpi non conformi allo standard di cui sopra, non è un ideale perseguibile senza che sia prima messo in discussione insieme allo status quo che si rischia di mantenere se viene accettato così com’è. Il polo opposto all’ottimismo a tutti i costi è occupato dalla sensazione, anch’essa opprimente, di impotenza e insignificanza completa – anche questo comodo al capitalismo.

Come ci viene presentata la felicità come accettazione? La donna aliena la vita al marito padrone e al capitalismo offrendo (forzatamente) un lavoro di cura gratuito, che poi a suo modo somiglia a quello che chiediamo ai cosiddetti pet quando li trasformiamo in surrogati di relazioni che non riusciamo a instaurare con altre umane. Il genere è una lezione5, un dover essere in un determinato modo e non altrimenti: ti spiego io chi sei, come sei, come devi essere e performare l’etichetta – di genere, di specie – che ti ho affibbiato. Lo spiega bene Carole Pateman ne Il contratto sessuale: in cambio di protezione e sostegno economico, le donne sono tenute a dare subordinazione, rapporti sessuali e lavoro domestico non retribuito (magari cucinando anche carne ai mariti: la carne diventa ancora di più un simbolo del dominio maschile).

«La dipendenza – spiega Sunaura Taylor in Bestie da soma – spesso diventa la scusa dello sfruttamento, in parte perché ha connotazioni estremamente negative: nessuno vuole essere dipendente. Ma la verità è che tutti noi siamo dipendenti»6

Anzi: se proprio c’è qualcuna che dipende da qualcun’altra, è l’oppressore a dipendere dall’esistenza dell’oppressa, perché senza di lei in quella specifica posizione non esistono il potere e il privilegio – per questo ha tanto interesse a tenerla lì, a riaffermarne la subordinazione e a fermarne la resistenza con la forza e con la persuasione. Se la subordinazione fosse innata, non servirebbe riaffermarla con così tanta veemenza e sforzi filosofici.

Continua: «La dipendenza è stata utilizzata per giustificare la schiavitù, il patriarcato, l’imperialismo, la colonizzazione e l’oppressione della disabilità»7

Il cane e il gatto odierni hanno, quasi tutti, comfort, comodità, welfare (spesso a scapito del wellbeing): tu alieni la tua vita al “padrone” (termine schiavista ancora usato per indicare l’umano con cui vivono), e lui ti offre tutto questo in cambio di amore che dev’essere incondizionato, vicinanza a suo piacimento, assunzione di un ruolo spesso di surrogato affettivo, etc. Il costo? Maltrattamenti etologici e genetici, frustrazione delle motivazioni di specie e di razza e dei bisogni individuali, reclusione – con qualche ricatto per avere ore d’aria: possiamo passeggiare insieme, se ti lasci legare dal collo…8

È il fardello dell’uomo (inteso come essere umano maschio cisgender eterosessuale abile) bianco, decidere cosa rende felice (secondo i crismi dello status quo che ha interesse a mantenere) la donna, la persona razzializzata, l’animale non umano che sceglie di considerare pet.

Tutto questo ci riporta alle origini dell’intersezionalità, del femminismo afroamericano che ha fatto presente al femminismo bianco come le istanze delle donne bianche e quelle delle donne razzializzate fossero differenti – le une volendo abbandonare l’obbligo di svolgere mansioni casalinghe e di cura, le altre rivendicando la casa come spazio lontano dal suprematismo bianco che le aveva costrette per secoli a lavorare come schiave a fianco degli uomini neri. Una prospettiva realmente femminista, intersezionale, antispecista, non sovradetermina e non si presenta come salvatrice ma come alleata – al fianco, e non in sostituzione, di chi lotta.

Quando contestiamo il concetto di felicità com’è stato presentato storicamente alle classi oppresse per convincerle della bontà e naturalità dell’oppressione, rivendichiamo forme di resistenza animale, e quindi anche umana, in cui le oppresse si autodeterminano e resistono per sé, con le loro modalità, bisogni e tempi, con i loro stessi corpi ed esistenze.

  1. Le riflessioni di questo articolo sono nate dalla lettura di Sara Ahmed, Il manuale della femminista guastafeste, tr. it. M. Baldo – feminoska, Fandango libri, Roma 2024, in particolare delle pp. 109-143 ↩︎
  2. Ivi, p. 112 ↩︎
  3. Ivi, p. 115 ↩︎
  4. Ivi, p. 119 ↩︎
  5. Ivi, p. 168 ↩︎
  6. Sunaura Taylor, Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale, tr. it. feminoska, Edizioni degli Animali, Milano 2021, p. 310 ↩︎
  7. Ivi, p. 260 ↩︎
  8. È certo che le relazioni con gli individui eterospecifici che vivono con noi non sono tutte così problematiche, sul piano individuale. Ma è importante vedere il sistema in cui sono calate, e metterle in discussione. Gestire bene la libertà del cane nei nostri contesti iperurbanizzati e con una grande densità di persone, cani e soggetti di altre specie, è necessario; ma se ciò è necessario, forse dovremmo chiederci se è anche giusto, e rivedere il contesto in cui noi stesse per prime viviamo ↩︎

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