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“Si racconta che, quando nel 1945 Hiroshima fu distrutta dalla bomba atomica, la prima forma di vita a spuntare in quel paesaggio raso al suolo fu un fungo matsutake” [1]
Il libro di Anna Lowenhaupt Tsing si apre attraverso uno sguardo personale nei confronti del reame fungino, esplorando connessioni, dati empirici e pratiche che concorrono insieme al fine di rendere “Il fungo alla fine del mondo” un testo necessario per quanto riguarda una più ampia riflessione postumanista.
E’ infatti proprio il background socio-culturale dell’autrice ad aver reso possibile l’avvio dei suoi studi – i quali hanno contribuito alla creazione del Matsutake Worlds Research Group, dalle cui ricerche è tratto il saggio, nonché le sue brillanti intuizioni in ambito non solo micotico, ma anche ecologico. Il fatto che tale ricerca vada al di là della trattazione strettamente accademica non comporta tuttavia una svalutazione del suo lavoro, al contrario la rende autentica e con un chiaro valore rivoluzionario, oltre le maglie di un metodo che è certamente valido, ma forse non sufficiente a coglierne la complessità. Il lavoro che si cela dietro al Matsutake Worlds Research Group ci fa anche comprendere i limiti, squisitamente occidentali, della separazione delle scienze, le quali al contrario, attraverso un approccio comparativo, risultano assai più fruttuose se situate in un contesto sinergico e di autentica cooperazione. Il team di ricerca rivendica, fin dai propri inizi, “un nuovo metodo di fare antropologia”, in contrasto con quel lavoro etnografico che “si è sempre espresso attraverso assoli”. [2]
E se da un lato è il contenuto ad essere inedito, dall’altro non possiamo non notare la filosofia mediante la quale i vari membri del progetto hanno deciso di cimentarsi sul campo. Quello che stupisce è l’approccio all’analisi dei dati e alla creazione del progetto, che, diversamente dalla consuetudine, non aveva fissato obiettivi definitivi prima di avviare il lavoro. Questo rifiuto del modello a priori si richiama certamente ad un tipo di filosofia immersa nella materia e nelle cose sensibili, interessata non tanto alle astrazioni di tipo teorico, quanto più alla pratica nel qui e ora. Valutare più importante il processo attraverso cui si giunge ad un obiettivo anziché l’obiettivo stesso, segnala l’apertura verso un tipo di scienza che vuole mettersi in gioco, che accetta di decostruire il mito del progresso, per cui ad una ricerca, che porta con sé investimenti di risorse, tempo ed energie, deve corrispondere necessariamente un preciso tornaconto – che nel sistema capitalista si traduce in tornaconto economico. Questa impostazione fa sì che il lavoro sul campo sia libero di sperimentare ed esprimersi al meglio, aprendosi alla possibilità senza limiti di sorta.
Ed è proprio a partire dalla consapevolezza della struttura economica in cui siamo immersi che si articola il pensiero di Tsing, la quale propone la nozione di terza natura, e cioè un paradigma che racchiuda l’insieme – estremamente eterogeneo – del mondo vivente che sopravvive e “riesce a vivere malgrado il capitalismo”. [3]
Ci troviamo ad affrontare forse una delle sfide più complesse da quando la nostra specie è comparsa su questo pianeta, quella legata all’Antropocene – definita da molti scienziati come una vera e propria era geologica a sé stante. Siamo chiamati a ripensare il nostro posizionamento da un punto di vista ecologico, questionando il nostro stile di vita, le nostre abitudini e tutte quelle pratiche quotidiane che sono state insegnate a noi e a chi ci ha preceduto. Il termine Antropocene, introdotto da Paul Crutzen, identifica un’era in cui l’essere umano non si limita soltanto ad abitare il mondo e a modificarlo – come ogni altro vivente -, ma lo riduce ad una risorsa da cui attingere senza tuttavia curarsi degli effetti negativi derivanti dal proprio agire. In questo frangente ci richiamiamo alla nozione di prima natura, impiegata da William Cronon e ripresa successivamente da Tsing. [4] In altre parole, non possiamo ripensare le nostre pratiche senza questionare anche il posto che occupiamo nel mondo. Sarebbe insufficiente voler modificare gli effetti del nostro agire nei confronti del pianeta senza ridefinire il nostro rapporto con gli ecosistemi e coloro che lo condividono con noi. Siamo abituati a pensare il mondo attraverso una lente antropocentrica, dimenticando che l’essere umano appartiene – ed è sempre appartenuto – ad un’animalità più estesa.
“Sin dall’Illuminismo, i filosofi occidentali ci hanno proposto una Natura maestosa e universale, ma anche passiva e meccanica. Natura come scenario e risorsa per le intenzioni morali dell’Uomo, in grado di controllarla e addomesticarla” [5]
Diversi studiosi si sono cimentati nella ricostruzione genealogica della spaccatura che ha segnato un divario sempre più marcato tra noi ed il resto del vivente. Chi si è ricollegato alla rivoluzione neolitica, alla tradizione giudaico-cristiana, chi invece al cambiamento culturale insito negli ideali umanisti, chi al colonialismo, al meccanicismo cartesiano o, ancora, all’Illuminismo, come fa la nostra autrice. [6] Poco importa quando tale distanziamento ebbe un inizio effettivo, ma è chiaro che esso sia stato il fattore determinante che ha portato all’attuale stato di cose.
“Addomesticare e controllare la Natura ha prodotto un tale pandemonio che non sappiamo neanche se la vita sulla Terra possa proseguire” [7]
Dal Novecento fino ad arrivare ad oggi si è aperto un dibattito sempre più intenso sullo statuto ontologico dell’identità umana, cercando di aprire una breccia su qualcosa che fino a questo momento l’occidente aveva dato per certo o, ad ogni modo, trascurato. Il fungo alla fine del mondo porta con sé il tentativo di decentrare la narrazione rispetto all’attuale modello egemonico e precostituito, quello antropocentrato, proponendo un punto di vista riposizionato sulla base del ripensamento dell’intera sfera della soggettività, ovvero il punto di vista multispecie. Ma se nella letteratura critica si tende ad avere un approccio rivolto all’animalità, Tsing supera, nell’autentico senso del termine, il confine di specie.
L’autrice richiama alla memoria un’esperienza per lei fondamentale, il ricordo della prima volta che andò alla ricerca di funghi matsutake. [8] Durante la sua piccola escursione si era infatti persa e non era riuscita ancora a trovare quello che cercava, finché, mentre tentava di tornare sulla strada di casa, non incontrò due uomini, il giovane Kao e suo zio. Il vissuto personale dell’autrice è determinante per comprendere come quell’incontro abbia modificato, da quel momento in avanti, la sua vita e le sue ricerche. Fu infatti proprio Kao a trovare per lei un esemplare di matsutake, mettendola in contatto con un nuovo tipo di esistenza. Il fungo in questione è un tipo di vita che non è esattamente accogliente, secondo i nostri canoni estetici e le narrazioni botaniche occidentali: esso cresce sottoterra, similmente ai tartufi, rendendosi difficile ad una relazionalità immediata, inoltre sprigiona un odore che a primo impatto può risultare acre e sgradevole. [9] E, proprio in tale frangente, Tsing si chiede:
“Che cosa ci facevamo in una foresta industriale in rovina dell’Oregon io, degli appartenenti al popolo mien e dei funghi considerati una prelibatezza in Giappone?” (10)
L’autrice ci proietta così nella storia del fungo matsutake. E’ infatti a partire dal VIII secolo che lo troviamo nei testi scritti, in particolare grazie alla poesia. In Giappone veniva elogiato per il proprio aroma, definito più volte “autunnale” e poteva essere raccolto nelle zone montuose. [11] Tuttavia, l’incontro tra gli esseri umani di questa particolare regione e tale varietà fungina ha poco in comune con un’idea bucolica di natura: questi funghi hanno iniziato a crescere sulle montagne in seguito alla devastazione antropica degli ecosistemi. La deforestazione, motivata dall’approvvigionamento del legno su scala industriale, e la necessità di costruire templi, su base locale, hanno prodotto infatti una compromissione ecologica tale da “fare emergere il Tricholoma matsutake in Giappone”. [12] L’ospite favorito da questa specie è il pino rosso (Pinus densiflora), una pianta che cresce in luoghi desolati e dal suolo minerale perturbato dall’agire umano. Almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, i matsutake condividevano gli ecosistemi insieme ai pini rossi, finché l’industria dei combustibili fossili non si sostituì a quella del legno. [13] Quando i giapponesi smisero di compromettere il biotipo delle foreste, questi lentamente si adattò, permettendo alle piante di crescere in modo spontaneo. L’ombra delle latifoglie, tuttavia, rese sempre più difficile la vita dei pini rossi, e con essi anche quella dei matsutake. A tale fatto si aggiunse anche l’infestazione di un nematode che ne compromise la sopravvivenza e, nel giro di vent’anni, questo fungo divenne raro in tutto il territorio nipponico. [14]
La storia dei matsutake non è fine a se stessa, al contrario ci fa comprendere la questione da un ulteriore punto di vista, e cioè quello del concetto di Antropocene. Se il termine, come abbiamo accennato poco sopra, ci restituisce un determinato paradigma relazionale, esso tuttavia non esaurisce di spiegarci come tali dinamiche continuino a perpetuarsi, soprattutto considerando la corrente crisi climatica. Ed è proprio per tale motivo che il sociologo Jason Moore introdusse un altro termine: Capitalocene.
“I matsutake sono funghi selvatici che vivono in foreste perturbate dall’uomo. […] Sono disposti a tollerare alcuni dei disastri ambientali causati dall’uomo. […] Grazie alla loro capacità di nutrire gli alberi, i matsutake aiutano le foreste a prosperare in luoghi ostili” (15)
Questi funghi ci restituiscono la loro storia, un punto di vista a cui non siamo abituati, un vissuto che è certamente segnato dalla distruzione, ma che senza di essa non avrebbe potuto nemmeno esistere. La loro vita è un esempio di ciò che in psicologia viene chiamato “resilienza”, una realtà condivisa da tante altre specie, le quali sono soggette agli effetti nefasti del sistema capitalistico. [16] I matsutake dimostrano come la cooperazione ed il mutualismo siano alla base della resistenza attiva da parte di tutti gli esseri viventi, oltre un paradigma che non ne aveva previsto la sopravvivenza.
Se da un lato “soltanto riconoscendo l’attuale precarietà come una condizione che investe tutto il globo potremo notare la situazione in cui versa il nostro mondo”, dall’altro Tsing ci spiega che “pensare attraverso la precarietà evidenzia che l’indeterminazione rende la vita possibile”. [17] In altre parole, è proprio il capitalismo a permettere l’insorgere di modelli e mondi alternativi, aprendoci alla possibilità di fare rete con le altre specie e diventando così, per usare un termine caro ad Haraway, “specie compagne”. [18]
Come i matsutake non potrebbero crescere se non in contesti perturbati in modo consistente, così gli esseri umani possono andare oltre l’antropocentrismo – e far così tramontare un modello economico che ne ha coronato la supremazia. Se è vero che la nostra specie a livello cognitivo si relaziona con il mondo mediante il discernimento e meccanismi di differenziazione inconscia – processi che concorrono all’autopoiesi -, tuttavia questo è molto diverso da organizzare complessi sistemi di controllo, sfruttamento, oppressione e repressione.
“La presunzione dell’uomo moderno non è il solo modo per creare mondi” [19]
Ciò che l’autrice ha cercato di fare, dal racconto del suo primo incontro con i funghi matsutake al relativo progetto di ricerca, è stato di aprirci alla possibilità di ripensare noi stessi, gli altri e il mondo intero, non come entità ontologiche distinte e al contempo in grado di comunicare, ma come fitta rete di intrecci, relazioni e cospirazioni multispecie. Proprio perché “tutti gli organismi creano luoghi ecologici in cui vivere” è ciascun essere vivente contribuisce alla creazione di mondi e del nostro mondo nella sua molteplicità, allora la nostra esistenza diviene un orizzonte. [20]
“Cerco ecologie nate da perturbazioni nelle quali molte specie a volte convivono senza armonia o conquista” [21]
A fronte dell’attuale crisi climatica, non possiamo concentrarci solo su ciò che è stato fatto finora e ciò che continua a preoccuparci: è necessario anche chiederci dove stiamo andando. Non per ripercorrere le impalcature teoriche proprie dello stesso capitale, relativamente al mito del “progresso infinito”, perché, come ci spiega Tsing, “dobbiamo lasciarci alle spalle assunti che concepiscono il futuro come un unico percorso in avanti”, ma in vista di quegli “assemblaggi aperti” – rammentando la nozione di terza natura – che possono ispirarci e spronarci ad un fare comunità in senso radicalmente nuovo. [22]
Abbandonato l’idea di progresso, riusciremo davvero a trasgredire quel binarismo Uomo/ Natura, che, secondo l’autrice, comporta un tipo di alienazione assai più profonda rispetto all’originaria nozione marxista. Un’alienazione che ha compromesso l’autenticità dei nostri rapporti, limitando non solo le alterità in qualità di soggetti sottomessi e sfruttati, ma anche la nostra possibilità di esprimerci oltre la norma precostituita.
Bibliografia
- A. Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, trad. it. a cura di G. Tonoli, Keller, Rovereto, 2021, pag. 25.
- Ibidem, pag. 13.
- Ibidem, pag. 12.
- Idem.
- Ibidem, pag. 11.
- Per una genealogia della dicotomia Uomo-Animale si vedano G. H. Di Loreto, Animalità tradita. Le radici dello specismo, Ortica, Aprilia, 2024; M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Roma, 2011; P. Singer, Liberazione animale, Il Saggiatore, Milano, 2015; G. Mormino, R. Colombo, B. Piazzesi, Dalla predazione al dominio. La guerra contro gli animali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017; M. Filippi, Questioni di specie, Elèuthera, Milano, 2017.
- A. Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, trad. it. a cura di G. Tonoli, Keller, Rovereto, 2021, pag. 11.
- Ibidem, pag. 39.
- Inizialmente il fungo matsutake, o meglio la specie eurasiatica, venne catalogato da un norvegese attraverso la nomenclatura di Tricholoma nauseosum. Ibidem, pag. 89.
- Ibidem, pag. 40.
- Ibidem, pag. 31.
- Idem.
- A. Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, trad. it. a cura di G. Tonoli, Keller, Rovereto, 2021, pag. 33.
- Idem.
- A. Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, trad. it. a cura di G. Tonoli, Keller, Rovereto, 2021, pag. 27.
- Il termine “resilienza” in psicologia indica un atteggiamento di forza interiore far fronte a situazioni di stress elevato, talvolta estremo, che possono compromettere la normale qualità di vita. Chi sopravvive ad una data situazione critica può essere definito “resiliente”.
- A. Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, trad. it. a cura di G. Tonoli, Keller, Rovereto, 2021, rispettivamente pag. 28 e 48.
- Per la nozione di “specie compagne” si veda F. Timeto, Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie, Mimesis, Milano, 2020.
- A. Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, trad. it. a cura di G. Tonoli, Keller, Rovereto, 2021, rispettivamente pag. 50.
- Ibidem, pag. 51.
- Ibidem, pag. 29.
- Ibidem, pag. 12.