I segreti della mente animale

I segreti della mente animale

Il modello cartesiano di animale macchina sta finalmente tramontando in modo definitivo e con esso la pretesa di trasformare gli animali in oggetti dotati di automatismi, ma privi di un mondo interno e di una loro soggettività.

Già nel 1872 Charles Darwin nel saggio “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” aveva sottolineato come l’approccio continuista, quello cioè che non pone differenze qualitative fra noi e le altre specie ma solo di grado, fosse da preferirsi nell’interpretazione del comportamento animale a quello meccanicistico introdotto dal filosofo Cartesio.

Secondo l’opinione del naturalista inglese, l’uomo e gli altri animali condividono molte caratteristiche biologiche e tali sono le somiglianze per cui diviene più plausibile l’esplicazione antropomorfa, vale a dire spiegare il comportamento delle altre specie sulla base dell’immedesimazione, rispetto a quella macchinomorfa. Tale dettato fu assunto in modo radicale e acritico da alcuni dei primi continuatori del pensiero darwiniano, in particolare da George Romanes che nel saggio “Animal Intelligence” del 1888 portava il continuismo al paradosso, assegnando un comportamento razionale persino alle ostriche.

Questo approccio inevitabilmente si esponeva alle critiche dei fautori di una separazione netta tra l’uomo e le altre specie, proprio per l’inconsistenza e l’arbitrarietà delle attribuzioni, cosicché nel 1898 lo studioso C. Lloyd Morgan introdurrà il cosiddetto “canone di parsimonia” secondo cui non è corretto interpretare un comportamento come il risultato dell’esercizio di una facoltà mentale superiore se può essere spiegato facendo riferimento a una inferiore.

Si tratta di uno spartiacque importante che, seppur non nelle intenzioni di Lloyd Morgan di negare una mente animale, caratterizzerà il Novecento nella direzione di una ripresa del modello cartesiano di animale automa. Le due più importanti scuole di interpretazione del comportamento animale che prenderanno avvio nei primi decenni XX secolo, quella etologica centroeuropea e quella behaviorista americana, saranno pertanto orientate a preferire le spiegazioni meccanicistiche rispetto a quelle mentalistiche. L’animale macchina è di fatto un burattino mosso da dei fili che in modo separato producono il comportamento: per i behavioristi i fili sono messi dall’apprendimento durante la vita dell’individuo e prendono il nome di condizionamenti, per l’etologia classica i fili sono configurati dalla selezione naturale durante la storia della specie e prendono il nome di istinti.

Se per i primi il burattinaio è l’ambiente, che attraverso gli stimoli va a suscitare i riflessi, per i secondi sono le pulsioni che come un’energia cercano soddisfazione su un target cosicché il comportamento è a tutti gli effetti una consumazione. Condizionamenti e istinti sono degli imperativi sull’animale esattamente come degli interruttori che accendono selettivamente alcune particolari espressioni cosicché l’individuo manca di soggettività, è un oggetto mosso da degli automatismi. Il tabù della mente animale viene infranto negli anni ’60 da alcuni etologi, in primo luogo da Donald Griffin che, riprendendo i lavori pionieristici di psicologi quali Wolfgang Köhler ed Edward Tolman, riprese il filo continuista di Darwin per indagare la soggettività animale nei tratti inspiegabili secondo il modello meccanicista quali la creatività, la pianificazione, la coscienza e la cultura.

In questi anni infatti la ricerca sul campo e quella su setting opportunamente predisposte aveva portato in evidenza un gran numero di testimonianze circa la complessità del comportamento animale; addirittura nel 1969 lo psicologo Gordon Gallup era riuscito con la famosa prova dello specchio a dimostrare una certa forma di autocoscienza nello scimpanzé. Nasceva così l’etologia cognitiva, una nuova scuola di pensiero che, pur mantenendo le importanti intuizioni della tradizione, soprattutto del pensiero di Konrad Lorenz, affrontava il comportamento animale in chiave mentalistica. Ma cosa significa in pratica ammettere una mente animale e quali sono i modelli di spiegazione chiamati a sostituire i fili del burattino?

Prima di tutto considerare l’animale come un’entità dotata di mente significa assegnargli un mondo interiore capace di riflettere sui problemi, porsi degli obiettivi, farsi un piano d’azione, scegliere tra le possibili opzioni, prefigurare degli eventi non presenti, operare delle simulazioni, ricordare attraverso delle immagini mentali… insomma possedere una sorta di teatro elaborativo interno. Parole come giudicare, valutare, decidere, progettare, capire, inferire, risolvere non avrebbero alcun senso al di fuori di una impostazione mentalistica perché verrebbe a mancare il supporto stesso necessario per questi processi. Nella visione mentalistica le diverse dotazioni cognitive, siano innate o apprese, non sono degli interruttori che meccanicamente richiamano un comportamento ma sono delle risorse che la soggettività utilizza in tutte le attività di interfaccia con il mondo, cosicché l’individuo non risulta esposto agli stimoli esterni bensì è riconosciuto come esperienziale, vale a dire capace di porre domande al mondo sulla base delle proprie dotazioni di conoscenza.

Al posto del modello associativo, proprio delle tradizioni non mentalistiche, l’impostazione cognitiva utilizza il concetto di rappresentazione, come schema elaborativo che il soggetto utilizza per risolvere i problemi di interazione con la realtà esterna. La rappresentazione è una sorta di mappa che consente al soggetto di realizzare le diverse prestazioni cognitive, quasi fossero dei singoli itinerari cosicché, a differenza del modello associativo, imperativo sulla funzione, le rappresentazioni implicano più modalità di utilizzo: è il soggetto che possiede le rappresentazioni.

Una questione importante nella ricerca dell’etologia cognitiva riguarda il problema della consapevolezza divisa in genere nelle seguenti aree:

  1.  senzienza o consapevolezza del corpo e quindi del dolore, della sensorialità e degli stati emozionali;
  2.  intenzionalità o consapevolezza dei propri pensieri o stati mentali nei diversi livelli di complessità;
  3.  autocoscienza o consapevolezza di sé come entità biografica, come unità di esistenza, come caratteristiche di riconoscibilità;
  4.  teoria della mente o consapevolezza degli stati mentali altrui. Secondo l’approccio cognitivo la gran parte dei processi elaborativi può essere realizzata in modo inconscio, senza che per questo venga meno lo statuto di soggettività;

Ma d’altro canto, lungi dall’essere una funzione in qualche modo pleonastica, la coscienza si rivela come una qualità importante nell’adattamento dell’animale e nell’assicurare al soggetto un comportamento flessibile. Oggi sono sempre di meno gli etologi che negano le facoltà mentali alle specie non umane e questo ha avuto indubbie ricadute sia nel modo di sviluppare la ricerca sul comportamento ma altresì sul modo di considerare sotto il profilo etico il nostro modo di rapportarci agli animali.

Le intelligenze multiple

Le intelligenze multiple di Howard Gardner

Esistono peraltro differenze tra gli etologi cognitivi nel modo di approcciare il tema della mente animale e in particolare possiamo ravvisare due impostazioni, diverse ma in qualche modo complementari tra loro: il cosiddetto “antropomorfismo critico” che parte da una comparazione stretta con l’uomo per assegnare agli animali facoltà mentali simili e, al contrario, la “pluralità cognitiva” che si basa sul riconoscimento della diversità delle intelligenze animali, perché differenti sono stati i problemi adattativi che le diverse specie hanno dovuto affrontare nel corso dell’evoluzione.

Come Howard Gardner con la teoria dell’intelligenze multiple ha in buona sostanza sancito l’incomparabilità tra le diverse facoltà intellettive, mandando in soffitta il vecchio concetto di quoziente intellettivo, allo stesso modo non ha senso paragonare la cognitività delle diverse specie perché chiamata a produrre prestazioni correlate a sfide adattative particolari.

L’intelligenza del gatto, tutta tesa a risolvere problemi e perciò di tipo enigmistico, è completamente diversa da quella del cane che è di tipo sociale, vale a dire modellata sulla capacità di muoversi correttamente nelle relazioni e nelle sistemiche di gruppo. Di certo il tema della mente animale rappresenta un capitolo di ricerca ancora inesplorato per buona parte e per questo molto va ancora scritto e di certo le sorprese non mancheranno.

Roberto Marchesini