Agenti semiotici, pazienti morali?

Agenti semiotici, pazienti morali?

Nell’articolo precedente (per leggerlo: www.filosofiapostumanista.it/2023/10/23/agenti-semiotici-pazienti-morali/) abbiamo visto perchè e come il concetto di agente semiotico possa essere utilizzato per determinare l’estensione della comunità morale: chi è un agente semiotico deve essere rispettato e quindi trattato moralmente. Ogni agente semiotico è un paziente morale. In questa sede, invece, vedremo se c’è un collegamento tra il concetto di agente semiotico e quello di agente morale, ossia se ogni agente semiotico, per essere paziente morale, deve anche essere un agente morale.

Come abbiamo visto, noi esseri umani siamo agenti morali, cioè siamo in grado di formulare certi principi etici e modellare la nostra condotta in accordo con essi. Agire moralmente implica molte restrizioni: rispettare l’altro e trattarlo in maniera etica significa non potersi comportare a piacimento, ma rispettare certi principi, limitandosi. Per esempio, potenzialmente potremmo uccidere, far soffrire senza motivo o derubare un altro ma, se egli è membro della nostra comunità morale, queste azioni sono moralmente scorrette, punibili e da evitare.

Una modalità molto diffusa e intuitiva per spiegare perchè è necessario limitarsi nei confronti del prossimo è ricorrere al concetto di reciprocità. Secondo questa tesi, un soggetto si autolimita solo nei confronti di coloro che possono fare altrettanto e i principi etici nascono grazie ad un accordo in grado di garantire il rispetto reciproco tra tutti coloro che ne prendono parte: tutti si limitano nei confronti di tutti, tutti si proteggono e rispettano reciprocamente.

Questo tipo di teoria etica è definita ‘contrattualismo morale’ e, sebbene diversi suoi sostenitori la riformulino in molteplici varianti, è possibile riassumere il suo nucleo con l’idea per cui i principi nascono da un contratto e un accordo reciproco tra pari. In questo modo, agenti morali e pazienti morali coincidono: ad essere protetti (e rispettati) sono tutti coloro che ‘firmano il contratto’ e che quindi si impegnano al contempo ad agire moralmente nei confronti degli altri firmatari. Si è pazienti morali, quindi, fintanto che è possibile comprendere i termini di questo contratto e avere coscienza tanto dei propri diritti quanto dei propri doveri.

Per fare in modo che i principi sanciti dal contratti siano equi, cioè non favoriscano gli interessi di una parte più o meno estesa dei firmatari, il filosofo statunitense John Rawls (1921-2002) immagina che essi vengano scelti da una società posta in una ‘posizione originaria’ (uno stato di natura non ancora organizzato e istituzionalizzato, dove tutti i soggetti sono eguali) caratterizzata da un ‘velo di ignoranza’ che fa sì che nessuno sappia che ruolo sociale rivestirà dopo l’entrata in vigore del contratto. Questo garantisce la scelta di principi equi, in grado di rispettare ognuno a prescindere da ruolo e posizione sociale, senza favorire interessi specifici.

Formulata così, la teoria contrattualista pone la razionalità come requisito fondamentale per essere agente e paziente morale: ad essere protetti e rispettati sono coloro che possono comprendere il contratto, impegnarsi a rispettare l’altro e quindi che hanno un certo grado di consapevolezza di sé, delle proprie azioni e degli altri. Questo significa che non solo vengono esclusi gli animali, ma anche gli esseri umani con problemi mentali, disturbi di apprendimento e i neonati. Quest’ultima esclusione, però, presenta diverse problematiche ed è contraria al senso comune, che invece generalmente accorda una rilevanza morale agli esseri umani ‘non razionali’. Una delle modalità per farli rientrare nella comunità morale è considerare questi uomini alla luce del canone di specie: la loro carenza di razionalità rappresenta un deficit rispetto alla normalità, un danno prodotto dal caso che non giustifica la loro degradazione a esseri moralmente irrilevanti. In quanto fondamentalmente esseri umani devono comunque essere rispettati.

Per gli animali, invece, la situazione è più complessa. Rimanendo nel framework del contrattualismo, essi possono entrare nella comunità morale solo in un secondo momento e per via indiretta, cioè facendo riferimento a ragioni di stabilità sociale o all’idea per cui chi fa del male agli animali è più disposto a farne anche agli uomini. Qualunque ragione venga apportata a sostegno di questa modalità indiretta di considerare gli animali come pazienti morali non mi soddisfa perchè significa negare che essi abbiano una rilevanza in sé. Credo sia necessaria, invece, una teoria che assegni direttamente valore morale agli animali.

Un’altra strada è quella percorsa da Tom Regan, filosofo americano (1938-2017) sostenitore di una teoria dei diritti degli animali. Nonostante sia contrario al contrattualismo ne elabora una versione in grado di estendere la moralità agli animali per via diretta. Egli ritiene che si possa immaginare una posizione originaria all’interno della quale il velo di ignoranza celi anche l’appartenenza di specie. Non sapendo, una volta sollevato il velo, in che essere vivente ci si ‘incarnerà’, verranno scelti principi equi intraspecifici, ossia principi che non rispecchino gli interessi umani e che siano in grado di proteggere e tutelare gli individui a prescindere dalla specie di appartenenza (Allegri, 2015, pp. 111-112).

Attività di immaginazione bellissima ma a mio avviso si tratta più di un esercizio retorico e astratto che di un’alternativa praticabile in modo significativo. Nella vita di tutti i giorni facciamo estrema difficoltà a prendere in considerazione come persone con disabilità vivono i nostri spazi, quali siano i loro interessi e bisogni. Non per forza per egoismo, ma perchè c’è un limite alla nostra esperienza dato ‘semplicemente’ dal nostro essere ciò che sì è: un uomo normo dotato ha un’esperienza del mondo che non è quella del disabile e alla quale non può realmente e direttamente accedere. Questo non significa, però, che nel formulare principi sociali, politici, morali, si debba sempre e solo proteggere i propri interessi nascondendosi dietro ‘eh ma io non lo posso capire’. Possiamo comprendere l’altro, ma sempre dal nostro punto di vista, cioè in maniera limitata. Con gli esseri umani è più semplice: immaginarci disabili è possibile, possiamo comprendere com’è l’esperienza di un disabile in maniera più intuitiva e veritiera rispetto a quanto possiamo farlo con l’esperienza di un altro animale. Questo perchè apparteniamo alla stessa specie, abbiamo le stesse coordinate generali di esperienza, gli stessi bisogni e interessi fondamentali. L’esercizio di immaginazione è più difficile da applicare quando l’altro appartiene ad un’altra specie, ma non è impossibile: siamo comunque tutti animali (e ciò significa che certi bisogni ci accomunano) e la conoscenze etologiche, biologiche e fisiologiche possono fornire gli strumenti adatti a comprendere più a fondo l’altro animale.

Il problema principale, però, è un altro ed è il cuore stesso delle teorie contrattualistiche: la reciprocità. È davvero necessario che un individuo, per essere paziente morale, debba anche essere agente morale? Potremmo comunque avere principi restrittivi nei confronti di qualcuno che non può ricambiarci il favore?

Una critica che a parer mio coglie nel segno è quella formulata da James Rachels nel testo “Creati dagli animali”. Il filosofo americano nota come ciò che dalle teorie contrattualistiche emerge come requisito per essere sia agente che paziente morale, in verità rappresenta solo le condizioni affinchè un individuo sia solo agente morale. Per poter agire moralmente è necessario avere un certo grado di razionalità: bisogna saper comprendere cosa siano e quali siano i propri diritti e doveri e quali azioni rappresentino un danno per le altre esistenze. Questi, però, non sono caratteri rilevanti per essere un paziente morale.

Si pensi alla sofferenza: manganellare un cane è sbagliato non perchè quest’ultimo è razionale, cioè, per esempio, in grado di comprendere il danno subito, ma perchè il cane è un essere sensibile e in grado di provare dolore. La razionalità è necessaria solo all’agente morale per comprendere chi ha di fronte, quali suoi gesti possono urtare l’altro, per stabilire e poi seguire principi etici, per ritenersi responsabile (ecc.). Ma non è la presenza di razionalità nel cane a rendere la manganellata moralmente scorretta nei suoi confronti: è il fatto che quel gesto lo urta, provocando dolore. Alla base c’è la capacità del cane di soffrire: questo lo rende, in questo caso, un paziente morale. Dico in questo caso perchè, come Rachels stesso nota, le caratteristiche moralmente rilevanti di un essere sono differenti, a seconda del trattamento in questione. Isolare un elefante in una gabbia, per esempio, è sbagliato perchè lede un bisogno fondamentale di socialità. Certo, produce sofferenza, ma non solo quella fisica dell’esempio della manganellata. Lo stesso isolamento potrebbe non essere moralmente scorretto per un animale solitario e non gregario, che non ha bisogno di relazioni sociali stabili e durature. Esseri viventi differenti hanno caratteristiche diverse e questo fa sì che i trattamenti giusti e sbagliati si diversifichino, a seconda dell’impatto che hanno su tali caratteristiche.

La razionalità potrebbe rientrare tra i caratteri moralmente rilevanti ma non è la sola e non può essere utilizzata come unico attributo per qualificare un essere come paziente morale. A farlo sono piuttosto una serie di caratteri quali la sensibilità, il possesso di una vita autonoma che segue una propria traiettoria, che intesse relazioni significative e vitali con l’ambiente circostante. Tutti caratteri compresi nel concetto di ‘agente semiotico’. Per questo motivo credo che quest’ultimo sia il candidato ideale per delineare l’estensione della comunità morale e una volta fatta questa operazione, consenta anche di prestare attenzione a come ciascun individuo declini il suo essere un agente semiotico (in maniera tanto singolare quanto specie-specifica), a quali caratteristiche siano moralmente rilevanti per il tipo di trattamento specifico, e permetta di comprendere come egli debba essere trattato.

Ritornando ancora al contrattualismo, ci sono altre obiezioni che possono essere mosse all’idea per cui il cardine della moralità sia la reciprocità. La prima è che non possiamo aspettare che l’altro rispetti noi per fare altrettanto: si entrerebbe in un loop in cui nessuno mai inizia a comportarsi moralmente per paura che l’altro non faccia lo stesso. Una situazione di paralisi. Questo si lega al secondo aspetto: che un essere vivente sia in grado di comprendere che le sue azioni hanno il potenziale di urtare un altro soggetto, cioè che abbia coscienza di sé come agente morale, è sufficiente affichè egli si interroghi sulla moralità delle proprie azioni e agisca di conseguenza. Non ha bisogno della conferma che anche l’altro si preoccupi in tal modo. La responsabilità è prettamente individuale: le azioni compiute da un soggetto sono particolari, uniche, avvengono in situazioni e contesti spazio-temporali irripetibili e dunque possono essere compiute solo da quel particolare soggetto. Esse, perciò, sono imputabili soltanto a lui. Ognuno, dunque, avendo compreso il potenziale del proprio agire, deve ritenersi il primo responsabile ed agire di conseguenza, indipendentemente dal fatto che gli altri soggetti facciano altrettanto.

Certo, rimane la possibilità di giudicare un altro agente morale che non si fa carico di questa responsabilità, ma non credo sia possibile trovare nell’irresponsabilità altrui una giustificazione per la propria. Per lo stesso motivo trovo insensato biasimare il leone perchè uccide una gazzella e affermare che, dal momento che gli animali non seguono principi morali, noi non dovremmo seguirne nei loro confronti.

Noi esseri umani siamo in grado di formulare principi etici? Sì.

Comprendiamo di avere certe responsabilità, obblighi e doveri? Sì.

Se si concorda sul fatto che anche gli animali possono esseri lesi dal nostro agire, non possiamo tirarci indietro dalle nostre responsabilità nei loro confronti.

Ultimo aspetto che vorrei trattare è la possibilità che gli animali facciano del male all’essere umano. È vero, è possibile, allo stesso modo in cui ci si uccide tra esseri umani stessi. È indubbio, però, che l’influenza umana su di loro è enorme e la quantità di sofferenza che l’essere umano infligge è spropositata (e anche bel celata, se si pensa alla distanza dalle nostre vite e all’impenetrabilità di laboratori, allevamenti industriali e macelli). Non li colpiamo solo direttamente (uccidendoli, testando su di loro prodotti chimici, per esempio), ma anche indirettamente, con azioni che sono in grado di impattare sulle condizioni di vita sulla Terra. Mi riferisco all’inquinamento delle acque e dei suoli, all’emissione di anidride carbonica, alla deforestazione. È necessario tenere a mente che queste non sono dinamiche ‘più grandi del singolo’, o meglio, in un certo senso lo sono perchè non è nessuna singola azione a provocarle. Però esse sono il risultato di numerosissime azioni di singoli individui. Ognuno di noi ha la possibilità di agire in senso opposto, di fare qualcosa il cui impatto non sarà di certo visibile ma se unito ad una moltitudine di altra azioni può fare la differenza. Se un insieme di azioni individuali ha questi effetti devastanti sul pianeta, solo un insieme di azioni individuali può cambiare la rotta.

La responsabilità umana è enorme, l’impatto che le azioni di ognuno di noi possono produrre ha scala grandissima. Partiamo da qua: dal ripensarci come esseri inseriti nell’ambiente tra altri esseri viventi, e ripartiamo ripensando a cosa il nostro agire produce in questo ecosistema condiviso che è la Terra.

RIFERIMENTI:

Adams Carol J., Alice Crary, Lori Gruen, The Good It Promises, the Harm It Does : Critical Essays on Effective Altruism. Oxford University Press, New York, 2023.

Allegri Francesco, Gli animali e l’etica, Mimesis, Milano, 2015.

Franklin Julian H., Animal Rights and Moral Philosophy, Columbia University Press, New York, 2005.

Kahane Howard, Contract Ethics : Evolutionary Biology and the Moral Sentiments. Lanham, Md. ; Rowman & Littlefield, 1995.

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

PER APPROFONDIRE:

Rawls John, A theory of justice. Rev. Oxford University Press, Oxford, 1999.

Regan Tom, The case for animal rights, University of California Press, Berkeley, 2014.

Agenti semiotici, pazienti morali

Agenti semiotici, pazienti morali

La biosemiotica è un disciplina recente, sviluppatasi dagli anni ’90 del secolo scorso, anche se fa propri metodi, idee e concetti sviluppati precedentemente in altri ambiti (quello della semiotica, in particolare) e riprende intuizioni già presenti nei testi di Von Uexkull, biologo ed etologo vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900.

Se la semiotica è lo studio dei segni in particolare nell’ambito della cultura umana, la bio-semiotica estende questo studio all’ambito della vita biologica. Essa propone di pensare alla vita come a qualcosa che ha a che fare con la percezione di significati e l’azione ad essi coordinata. Il paradigma della biosemiotica si estende dalle piante agli animali, fino alle cellule e agli ecosistemi: tutto ciò che riguarda la vita, secondo la biosemiotica, può essere interpretato come qualcosa che intrattiene relazioni con l’esterno basate su scambio e interpretazione di segni.

In questa sede ci limitiamo a considerare l’interpretazione biosemiotica degli animali (zoosemiotica) e mostreremo perchè è rilevante per la nostra moralità.

Partiamo subito col dire che il paradigma biosemiotico si oppone a quello meccanicista, che vede gli animali come macchine, ‘qualcosa’ che risponde in maniera fissa e automatica agli stimoli esterni. Seppur questa interpretazione sia datata (risale a Cartesio, nel 600) e pochi ammetterebbero ad alta voce di sostenerla, è ancora più diffusa di quanto non si immagini. Ogni volta che si avanza un dubbio sulla capacità degli animali di imparare, sul loro disinteresse per le condizioni della propria vita, sulla loro incapacità di comunicare, ecco che si è Cartesiani.

L’animale biosemiotico è un agente semiotico, ossia un essere attivo in grado di percepire gli stimoli esterni, dotarli di un significato e agire in maniera coerente a questo. La novità di questo paradigma è l’interpretazione dei rapporti tra animale e ambiente esterno come rapporti basati su segni e significati. Quando percepito, uno stimolo non è mai neutro, ma riveste un significato, ossia è segno che rimanda ad altro. Una crocchetta non è ‘massa solida marrone’ ma ‘cibo’, un nido non è ‘struttura concava’ ma ‘riparo’. In accordo con questi significati, l’animale attua un comportamento coerente: mangiare la crocchetta, ripararsi nel nido.

Ora, i significati sono un’entità particolare. Ad ogni oggetto non corrisponde un solo significato, ma tanti quanti sono gli agenti semiotici che lo percepiscono. Un nido è ‘riparo’ ma è anche ‘luogo da saccheggiare per prendere cibo’. Ma, complicazione su complicazione, uno stesso oggetto o situazione esterna può avere diversi significati anche per lo stesso soggetto. Le condizioni interne di un organismo, ossia stato emotivo, bisogni e necessità contingenti, determinano il modo in cui esso percepisce l’esterno e i significati attribuiti. Sarà capitato a tutti di sedersi su una sedia per mangiare al tavolo o usarla come sgabello per arrivare allo sportello più alto della cucina: necessità differenti fanno sì che la stessa situazione sia dotata di diversi significati. Questo avviene anche per gli animali, come per il paguro che si ciba dell’anemone quando ha fame o la usa come riparo quando si sente in pericolo. Questa moltiplicazioni di possibili sensi significa che essi non sono immanenti agli oggetti. Non sono, però, nemmeno una libera invenzione degli animali: la realtà non si lascia plasmare ad libitum, ma pone limiti e freni alle possibili interpretazioni. Una crocchetta può essere cibo, ma non riparo. I significati, dunque, sono un’entità ibrida che sorge all’incrocio tra il soggetto, il suo stato interno e la situazione esterna dove quest’ultima suggerisce un range di possibili letture.

Tutto ciò implica il fatto che non esista un significato assolutamente vero e uno assolutamente falso: certo, è possibile che un organismo si bagli totalmente nell’interpretazione (pensiamo alle illusioni, per esempio), ma non è possibile affermare che esista uno e un solo modo di interpretare il reale. Ce ne sono tanti quanti organismi e ogni significato è vero per l’organismo che lo attribuisce.

Come si capisce, il paradigma biosemiotico non vede nulla di fisso e automatico nel comportamento animale come invece voleva il meccanicismo: ogni essere vivente è attivo nell’interpretare la realtà, libero di dare significati nei limiti posti dalla realtà stessa e in grado di agire sulla base della propria interpretazione. Per riassumere si potrebbe dire che l’agente semiotico è colui che, interpretando i segni esterni, utilizza questi come informazioni per modellare il proprio comportamento.

Passiamo ora all’aspetto della moralità che credo fortemente necessiti di una revisione alla luce della teoria biosemiotica. In particolare sono convinta del legame profondo tra i concetti di agente semiotico e paziente morale.

Per paziente morale si intende colui che è beneficiario di un trattamento morale, cioè colui verso il quale si dirigono le preoccupazioni morali. L’agente morale, invece, è colui che si pone il problema della moralità e agisce in base ai suoi principi. Non è questa la sede per discutere della possibilità (o necessità?) che ogni animale sia anche agente morale, ma è un argomento interessante di cui rimando la discussione al prossimo articolo.

Noi siamo agenti morali e ancora oggi ci preoccupiamo davvero troppo poco degli altri animali. Sono convinta che il paradigma biosemiotico possa rispondere in maniera esaustiva al domande come: perchè dovremmo estendere la nostra moralità a tutti gli animali? Perchè ci dovrebbe importare di loro? Perchè dovremmo farne dei pazienti morali? Le risposte stanno nel concetto di agente semiotico.

Come abbiamo visto, l’agente semiotico è un organismo in grado di percepire e dare autonomamente un senso a ciò che avverte dell’esterno. Anche le azioni umane incrociano gli organi percettivi degli altri organismi, che dunque le interpretano e dotano di un significato. Come già detto sopra, i significati non sono univoci, ma ne esistono tanti quanti sono gli agenti semiotici. Quando ci mettiamo in relazione con un essere vivente le nostre azioni possono essere percepite e interpretate in modi differenti dal nostro, in modi che noi, in quanto esseri umani, non possiamo né determinare né prevedere appieno perchè sono relativi all’altro soggetto, ai suoi organi percettivi e stati interni.

Come abbiamo già detto, non esiste un significato vero in assoluto, perciò non è possibile farne una scala gerarchica: il sistema semiotico umano è uno dei tanti possibili, non il migliore e non quello più ‘vero’, ma è uno dei tanti possibili, tutti differenti gli uni dagli altri e tutti posti sullo stesso piano valoriale. Questo perchè ogni sistema semiotico è vero relativamente al soggetto che lo ‘abita’. Questo significa che non possiamo appellarci ad una qualche ‘supremazia’ per schiacciare sistemi semiotici non umani.

Ogni animale, in quanto agente semiotico, è una prima persona percettiva che non recepisce passivamente gli stimoli esterni ma attivamente li interpreta e utilizza per agire: è interessato agli stimoli e sensibile nei loro confronti. Le nostre azioni nei confronti di un animale, dunque, lo concernono, vengono recepite e utilizzate da lui come segni e informazioni per l’azione: hanno, cioè, un impatto sulla conduzione della sua esistenza.

Le nostre azioni, però, non impattano solo direttamente sugli animali ma possono anche urtali indirettamente andando a ledere le relazioni semiotiche significative che intrattengono con l’ambiente circostante. Abbattendo una foresta, per esempio, potremmo aver cura di non uccidere attivamente gli animali che vi abitano, ma questo non è sufficiente: la foresta è significativa per questi esseri. Abbattendola stiamo facendo venir meno una relazione importante per loro. Il nostri interesse deve prevalere? Abbattere foreste è un bisogno vitale per l’essere umano? No. Se facciamo nostro il paradigma biosemiotico dobbiamo riconoscere che foresta non è solo ‘legna su cui guadagnare’ ma anche ‘casa’, ‘protezione’, ‘luogo di caccia’ e non siamo giustificati a far prevalere il nostro interesse (non vitale) su altri (ben più vitali) di altri soggetti. Preservare un organismo, insomma, significa preservarne la vita e anche le relazioni significative e vitali che intrattiene con l’esterno.

In conclusione, in quanto esseri umani dobbiamo riconoscere di non essere gli unici agenti semiotici, che i nostri significati, le nostre relazioni con l’esterno non sono né le uniche né quelle di maggior valore. Dobbiamo fare un passo indietro e chiederci giorno dopo giorno se con le nostre azioni stiamo urtando qualcuno che ha il nostro stesso diritto ad essere.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Agency in Non-human Organisms, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 95-122, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, p. 96.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Conceptualizing Agency, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 153-188, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, pp. 163-164.

Tønnessen Morten, Umwelt Transitions: Uexküll and Environmental Change, in “Biosemiotics”, Vol. 2, n° 1, 2009, pp. 47-64, DOI 10.1007/s12304-008-9036-y, consultato in data 11/11/2022.

“Vis-à-vis”: dichiarazione d’intenti.

“Vis-à-vis”: dichiarazione d’intenti.

Benvenuti e benvenute su “vis-à-vis”, il blog gestito da me, Giulia, dottoressa in Filosofia, amante della vita, in ogni sua forma ed espressione.

Perché questo nome? Perché “vis-à-vis” significa “faccia a faccia” ed è di questo tipo di relazioni che il blog si vuole occupare. Ci si chiederà qual è il significato e cosa succede nel momento in cui due paia di occhi si incrociano. Che relazione è questa? Fragile, sfuggente, cosa ci dice sui proprietari di quegli sguardi? E poi, cosa si dicono due sguardi mentre si fissano? Diversi e distanti, eppure sono in gradi di comunicarsi qualcosa anche attraverso il silenzio.

Ma più nello specifico, “vis-à-vis” vuol essere uno spazio di discussione e approfondimento di quelle relazioni che coinvolgono volti dai tratti radicalmente differenti: facce appartenenti ad animali di specie eterogenee, tra le quali l’impossibilità di comunicare linguisticamente sembra tracciare un abisso di incomprensione.

Personalmente sono convinta, sulla scia di Jacques Derrida [2006, pp. 48-51] e John Berger [1980, p. 17], che attualmente noi esseri umani ci concepiamo prevalentemente come ‘osservatori’ del mondo e degli altri esseri viventi, ma che facciamo fatica a riconoscerci anche come ‘osservati’. Ci risulta difficile acquisire e mantenere viva la consapevolezza di essere a nostra volta guardati dagli esseri viventi che ci circondano. Magari sappiamo che il nostro cane ci osserva, ci segue con lo sguardo, ma è un tipo di sapere vago e superficiale, non una consapevolezza così profonda e radicata da essere in grado di influire sul nostro modo di agire e vivere. Solo occasionalmente teniamo davvero in conto lo sguardo animale su di noi, solo di rado ne siamo così profondamente consapevoli da sentire sulla nostra pelle, vivamente, di essere osservati e da plasmare il nostro di agire di conseguenza. Forse ne abbiamo profonda contezza solo nello sfuggente momento in cui incrociamo i loro occhi e questi ultimi ricambiano il nostro sguardo.

Sarà interessante, allora, chiedersi cosa avviene in questo scambio di sguardi. Cosa ci rivela l’occhio vigile che abbiamo davanti, l’occhio che sostiene e ricambia il nostro sguardo? Cosa ci dice del suo proprietario? Ma anche cosa ci dice su di noi: chi siamo per il nostro cane? Che significato abbiamo per l’animale che ci sta di fronte? E, ancora, cosa ci rivela il fatto che agli occhi dell’altro assumiamo un significato che non abbiamo il potere di determinare e scegliere e forse neppure di decifrare?

Ma perché interessarsi a tutto questo e seguirmi? Perché sono convita del potenziale trasformativo di questa consapevolezza. Sono convita che se fossimo più sensibili rispetto a questo, se portassimo sempre con noi la consapevolezza viva di essere osservati dagli altri esseri viventi, allora in primo luogo cambierebbe il nostro modo di concettualizzare i non umani: non più lontani da noi, fuori dalle faccende e dal mondo umani, totalmente estranei; non più macchine, ‘cose’ che si muovono reagendo agli stimoli esterni, ma soggetti autonomi in grado di dirigere liberamente i propri occhi su un mondo che coabitiamo. L’autonoma capacità di osservare dell’altro essere vivente ci dice che egli vive e legge in modo personale e unico la realtà che ci accomuna, che ha su di essa un punto di osservazione irripetibile. Come appare il mondo ai suoi occhi? E se appare diverso, allora cos’è la ‘realtà’? Esiste un modo unico, vero e corretto di osservare il mondo? Quello umano è l’unico modo possibile o il ‘migliore’ di abitarlo?

In secondo luogo, cambierebbe anche il modo di relazionarsi agli altri animali: se ogni essere vivente è uno paio di occhi autonomo che ci guarda e che quindi sta lì da prima che lo osserviamo noi e indipendentemente da noi, allora la sua stessa esistenza è indipendente dall’uomo. Questo significa che ogni essere vivente possiede una vita propria irriducibile ed eccedente ad ogni ‘uso’ umano, ad ogni funzione che egli riveste per l’uomo. Nel suo esserci e vivere indipendentemente da noi, nel suo condurre una vita propria, ogni animale ha una propria identità che eccede ogni categoria funzionale l’uomo gli proietti addosso e che non può essere ridotta a mezzo per la soddisfazione di bisogni umani. Il nostro cane è un figlio per il genitore, un padre o una madre per i suoi piccoli, un pericolo per il gatto del nostro vicino di casa, un compagno di giochi per il cane che incontra tutte le mattine al parco, non solo un nostro pet. Allo stesso modo un maiale è molto di più che non solo carne, un topo che non solo cavia e un elefante che non solo oggetto di interesse in uno zoo.

In terzo luogo, sapersi osservati significa anche tenere in conto il fatto che le nostre azioni sono viste, vissute sulla pelle e interpretate dagli altri esseri: questi ultimi, cioè, non ne sono indifferenti. Le azioni umane hanno un impatto sulle loro esistenze e perciò si caricano di un significato ulteriore rispetto quello che viene loro attribuito dall’uomo. Quando percepiscono, gli esseri viventi attribuiscono significati alle sensazioni, i quali sono legati alla loro personalità, al loro stato emotivo contingente, ai loro bisogni e interessi specifici. Agli occhi di un cane come appare e cosa significa il nostro rientro a casa? E la costruzione di un’autostrada agli occhi del cervo che abita quel territorio?

Tutto questo significa, allora, che agendo l’uomo deve tenere in considerazione l’esperienza che altre vite fanno delle sue azioni: è necessario, cioè, riconsiderare le azioni umane alla luce di occhi, sguardi e significati che umani non sono.

Concludo con una nota metodologica che serve soprattutto a me, come campanellino da tener sempre presente: nell’affrontare i vari temi è necessario tener conto del fatto che la stessa indagine sulla relazione tra due volti non è oggettiva. Essa non è condotta da uno spettatore assoluto, bensì da un essere umano e questo è tanto inevitabile quanto fondamentale da tener presente. Ogni indagine, dunque, soffrirà di limiti, pregiudizi, precomprensioni, categorie che non appartengono al fenomeno in sé, ma a me, Giulia, essere umano che lo indaga. Di certo è un limite, ma imprescindibile e inaggirabile, e che può essere anche un punto di forza e di onestà intellettuale se se ne tiene conto continuativamente.

Con questa breve introduzione e presentazione spero di avervi almeno incuriosito e che sia la curiosità a spingervi a seguirmi in un percorso, questo, che non vuol affatto essere l’esposizione di verità ma una ricerca, un continuo domandarsi, mettersi in discussione, cambiare prospettiva e osservare ciò che si rivela. Cercare di comprendere meglio le relazioni umani-non umani assumendo sempre nuovi e inattesi punti di osservazione e, attraverso questi, cercare di ridefinire le coordinate della concezione e delle azioni che l’essere umano riserva agli altri esseri viventi: questo è lo scopo.

Se cercate verità non le troverete, se cercate risposte definitive non le troverete.

Troverete domande e interrogatavi che agitano e muovono una mente che non si vuole accontentare, una mente che crede solo nel potenziale trasformativo del pensiero.

 

 

RIFERIMENTI:

Derrida Jacques, L’Animal que donc je suis, Galilée, Paris, 2006. Edizione utilizzata: L’animale che dunque sono, a cura di Massimo Zannini, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2020.

John Berger, About looking, Writers and readers company, London, 1980. Edizione utilizzata: Sul guardare, a cura di Maria Nadotti, Mondandori, Milano, 2003.