“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale” è un testo ormai datato. Scritto da Frederick Jacobus Johannes Buytendijk (1887-1974), antropologo, biologo e psicologo olandese, nel 1962 rimane un testo affascinante per diversi aspetti e, nonostante la psicologia comparata e in generale gli studi sul comportamento animale abbiano fatto passi da gigante da allora, vi si possono leggere note importanti soprattutto di carattere epistemologico e metodologico.

Così come fa l’autore nel testo, partiamo da una chiarificazione: la psicologia comparata non si occupa di ciò che uomini o altri animali hanno ‘nella mente’, ma “ha il compito di ricercare, cioè di descrivere e spiegare le affinità, le analogie e le differenze nel comportamento”(p. 7).

Cosa centra la psicologia col comportamento? Molto, a dire il vero e questo perchè il comportamento è un certo tipo di azione, un’azione con caratteri peculiari che la contraddistinguono dalla caduta di un masso o dal movimento delle foglie, per esempio. Il comportamento è un agire che ha significato in una specifica situazione, è una “forma di manifestazione di un rapporto significativo fra un uomo o un animale e il mondo che lo circonda” (p. 17). Il comportamento ha a che fare con l’essere in situazione di un soggetto, cioè il suo essere calato in un contesto dinamico che ha per lui un certo significato, sulla base del quale modula le sue azioni.

Si capisce, dunque, perchè Buytendijk ritenga analisi fisiologica e anatomica insufficienti a spiegare il ‘perchè’ un organismo si comporti in un certo modo: studiando le cause fisiche e chimiche dei processi vitali e quelle strutturali del corpo vengono messe in luce solo le condizioni del comportamento, cioè il range di possibilità di movimento ed espressione proprie di ogni animale. Esse spiegano ciò che un animale può fare, non il perchè faccia ciò che fa. Una più completa analisi del comportamento non può prescindere da uno studio sui motivi di esso. Il motivo è un fattore che agisce qualitativamente e non quantitativamente nella determinazione del comportamento di un soggetto e, sebbene non se ne trovi una definizione esplicita nel testo, possiamo intenderlo come la risultante del rapporto tra l’animale, la situazione e il significato che essa riveste per il primo.

Chiariamo questo punto. Secondo Buytendijk il rapporto tra organismo e ambiente non è unidirezionale, ma vicendevole. L’ambiente è sorgente di stimoli che non agiscono semplicemente come cause meccaniche in grado di determinare automaticamente certe reazioni nell’animale. Gli stimoli hanno un aspetto qualitativo: il significato che viene loro attribuito dall’organismo che li percepisce.

Ogni soggetto, quindi, non è totalmente passivo di fronte all’ambiente, non è un contenitore vuoto che accoglie gli stimoli così come sono, ma, come già affermava Uexkull nei suoi testi, è attivo sia nel dare un significato agli stimoli percepiti, sia nella percezione stessa. Da una parte, infatti, gli organi sensoriali agiscono come a-priori esperienziali permettendo al soggetto l’accesso solo a determinati stimoli, dall’altra perchè lo stato interno del soggetto stesso determina il modo in cui tali stimoli vengono percepiti. In ogni istante della sua vita, ogni organismo si trova nell’ambiente in una certa ‘disposizione’, cioè con certi stati d’animo, desideri, necessità che determinano la maniera in cui il soggetto percepisce la situazione e il significato che le attribuisce. Personalmente trovo molto efficace per chiarire questo punto l’esempio fatto da Uexkull in “Ambienti animali e ambienti umani” circa il rapporto tra paguro e anemone: quanto incontra quest’ultima, il primo attua diversi comportamenti, dimostrando di proiettare diversi significati sull’anemone. Se è affamato, il paguro si avvicina per mangiarla: l’anemone, in questo caso è ‘cibo’; ma se si trova privo di una conchiglia protettiva e in situazione di pericolo, il paguro la utilizza come riparo nascondendosi al suo interno: l’anemone, ora, è ‘rifugio’.

Il rapporto soggetto-ambiente, dunque, non è unidirezionale, ma circolare, dove l’uno determina l’altro e viceversa, ed è “implicativo, cioè (…) corrisponde all’espressione ‘quando-allora’” (p. 51), poiché, date certe condizioni ambientali percepite in un certo modo e rivestite di un certo significato, l’animale attua un comportamento in risposta ad esse. Ecco allora che la motivazione è quel fattore qualitativo nella determinazione di un comportamento che sorge all’incrocio tra i due vettori di questo rapporto reciproco; essa è uno stimolo significativo, letto attraverso la lente della disposizione del soggetto, che spinge quest’ultimo a comportarsi in un determinato modo.

Questo nucleo teorico mi sembra interessante e attuale. Diversi filosofi si troverebbero d’accordo con questa lettura del comportamento e, personalmente, la ritengo incredibilmente trasformativa: è una lente concettuale che ci permettere di pensare in maniera differente noi esseri umani, gli altri animali e i rapporti che ci legano. Non macchine, non esseri passivi, ma ‘menti’ che interpretano il mondo e rispondono ad esso.

Altro spunto interessante è la convinzione di Buytendijk nel considerare come condizione preliminare per lo studio della psicologia comparata il riconoscimento di una continuità tra uomo e animale. Per questo motivo afferma che la psicologia comparata è legata all’antropologia: a seconda della concezione dell’uomo assunta cambia la possibilità e la metodologia con cui si effettua la comparazione. Se si concepisce l’umano come elevato, lontano e totalmente differente dagli altri animali, non c’è spazio per la comparazione.

Buytendijk opta per la continuità e quindi per la possibilità di una comparazione. Nel farlo, però, è importante non cadere nell’errore di utilizzare ciò che è umano come metro di misura per valutare le altre esistenze. Più volte l’autore mette in guardia circa la necessità di tener conto del fatto che quando si parla di comportamento, situazione o azione ‘significative’, questo ‘significative’ è da intendere come ciò che è tale per il soggetto che la osserva o compie, non per l’osservatore che la studia. Questo è estremamente importante e assolutamente in linea con le ricerche attuali in campo biosemiotico: se consideriamo ogni organismo un soggetto il cui comportamento è motivato da un certo significato che una situazione riveste ai suoi occhi, allora per comprendere le azioni altrui non dobbiamo rifarci al significato che la situazione assume per i nostri occhi umani, ma a quello assunto per l’occhio dell’animale coinvolto. Questo significa riportare l’uomo tra gli animali come uno di essi, come uno dei tanti sguardi sullo spettacolo del mondo. Ma significa anche ammettere la possibilità di non comprendere affatto un comportamento osservato. Non possiamo sapere tutto perchè non siamo osservatori puri o onniscenti, ma sempre calati in un certo modo di vedere, percepire, dare significato al mondo. L’agire altrui è un comportarsi ed esiste come tale anche quando non lo comprendiamo: è un agire significativo per altre menti, altri corpi e altre letture del mondo cui non possiamo accedere. Non dobbiamo farlo scadere a meccanismo pur di affermare di poterlo studiare e analizzare per comprenderlo a fondo ed esaurirlo. Lasciamo che l’ignoto continui a sorprenderci.

Lungo il testo, comunque, Buytendijk non rinuncia a sottolineare e ricercare ciò che contraddistingue l’uomo, ritrovandolo in diversi aspetti del comportamento che vanno dalla capacità astrattive, creativa e immaginativa al linguaggio articolato. Ci sarebbe molto da dire e puntualizzare: non sembra che questa analisi proceda verso una ricerca di elevazione dell’uomo (come abbiamo detto, opta per una continuità e quindi le differenze sono più gradi che salti qualitativi), ma molti aspetti del comportamento da lui definiti come ‘propri dell’uomo’ non mi soddisfano e oggi non li riterremmo più tali. Per un approfondimento vi invito a leggere il testo ma potrebbero essere temi ripresi nei prossimi articoli su questo blog.

Spunti estremamente interessanti si trovano nell’ultimo capitolo, dedicato all’analisi dell’intelligenza. Coerentemente con quanto sostenuto lungo il testo, Buytendijk afferma che “l’intelligenza del comportamento può essere giudicata solo dal punto di vista del soggetto, dalla sua esperienza, dai suoi impulsi e dal tipo di significato che alla situazione dà il soggetto stesso” (p. 137). Questo passaggio è estremamente fecondo. Innanzitutto perchè mette in dubbio la validità di tutta una serie di esperimenti sugli animali grazie ai cui risultati è stato possibile giudicare come privi di intelligenza gli animali non umani. La stessa situazione, si è detto, è percepita e interpretata in modi differenti da esseri viventi differenti. Sottoponendo un animale ad un test tarato sulle abilità percettive e cognitive umane per determinare se sia intelligente o meno stiamo in realtà sostenendo che l’unica forma di intelligenza possibile sia quella umana; stiamo dando per scontato che l’unico modo di leggere il mondo sia quello umano e stiamo disconoscendo il punto di vista dell’animale sulla situazione.

Con questi esperimenti stiamo sottoponendo all’animale le domande sbagliate, domande tarate sulle capacità e percezione umane, domande che, se incrociano i sensi dell’altro animale, non lo fanno allo stesso modo nostro e che, se rivestono ai suoi occhi un significato, è possibile ne rivestano tanti differenti quanti sono i sensi che li percepiscono. A parità di situazione e di problema da risolvere specie diverse possono comportarsi in maniera diversa, ma questo non significa che certi comportamenti sono più intelligenti di altri: sono modi diversi di rispondere ad una stessa situazione percepita in maniera diversa e dotata di significati differenti (p. 150). Dunque, non esiste una sola risposta ‘intelligente’ o ‘corretta’ ed è ingenuo giudicare come non intelligente un animale che semplicemente non si comporta come farebbe l’essere umano. Intelligenza non è sinonimo di intelligenza umana: ci sono tante intelligenze differenti che fanno riferimento alle possibilità fisiche, biologiche e cognitive di ogni animale (p. 146).

Per giudicare come intelligente un certo comportamento, dunque, dobbiamo prima conoscere a fondo l’animale e i suoi comportamenti ‘normali’. A partire da questo, Buytendijk definisce come intelligente un comportamento non dettato dall’abitudine, ma dall’esperienza sensibile (p. 138), “un comportamento organizzato” (p. 140) che ha senso nei confronti della situazione. Intelligente è un comportamento che tiene conto del contesto e si adatta ad esso, rispondendo in modo adeguato secondo la lettura, il significato che una situazione ha per ciascun soggetto.

Per quanto ormai datato questo testo è una miniera di spunti di riflessione da riprendere, contestualizzare e aggiornare con l’apporto delle scoperte più recenti. Credo che proprio per la sua capacità di veicolare un certo modo di pensare ad uomo e animale che oggi non è ancora stato metabolizzato dal pensiero comune si possa considerare ‘attuale’ e suggerire come una lettura ancora valida, ancora in grado di parlare.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Frederik Jacobus Johannes Buytendijk, Psicologia umana e psicologia animale, Garzanti, Milano, 1962.

Jakob von.Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani : una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata, 2019.

Il mondo delle simbiosi narrato da Josef Reichholf

Il mondo delle simbiosi narrato da Josef Reichholf

“Ogni amico è un tesoro” è il titolo del testo di Josef Reichholf, zoologo, biologo ed ecologo tedesco, edito per la prima volta nel 2017 e pubblicato in Italia da Aboca nel 2022.

Se volete farvi affascinare, stupire e conoscere qualcosa in più del mondo ricco e sorprendente in cui viviamo, non potete non addentrarvi nelle sue pagine. Con una scrittura scorrevole e accessibile Reichholf ci accompagna nel mondo delle simbiosi, raccontando trenta casi di convivenza intraspecifica esistenti in natura.

Con il termine ‘simbiosi’ l’autore non intende solo i casi di stretta interazione biologica, come il classico esempio del lichene (cui, comunque, dedica un capitolo), bensì ogni relazione di reciproca utilità e vantaggio instauratasi tra forme di vita differenti.

Una simbiosi è una convivenza che apporta vantaggi a tutte le parti coinvolte: attenzione, però, a credere che tali vantaggi siano paritari ed equamente distribuiti. Essendo coinvolti organismi differenti, i benefici che essi traggono dalla relazione sono ‘personali’, relativi ai bisogni e necessità di ciascuno e quindi non facilmente paragonabili. Non è possibile trovare un’unità di misura comune in grado di quantificare i vantaggi per distribuirli equamente. Ciò che noi esseri umani potremmo giudicare un ‘piccolo’ vantaggio per una forma di vita potrebbe invece essere essere di estrema importanza dal suo punto di vista. Ciò che intendo dire, insomma, è che le simbiosi non devono essere necessariamente relazioni di simmetrica reciprocità e pari vantaggi: organismi diversi possono convivere pacificamente e scambiarsi benefici anche là dove per uno dei due il guadagno pare minimo.

La simbiosi è un legame che può essere più o meno stretto, in cui gli organismi possono raggiungere livelli di dipendenza reciproca più o meno marcati. Così accanto al caso dei licheni, un’interazione strettissima tra fungo e alga, c’è la simbiosi che unisce le bufaghe agli erbivori della savana, o l’oca al capriolo, caso, quest’ultimo, in cui il rapporto è maggiormente circostanziale e i protagonisti rimangono largamente indipendenti gli uni dagli altri.

Le simbiosi, casi di convivenza cooperativa tra forme di vita, sono più all’ordine del giorno di quanto immaginiamo e sono testimonianza del fatto che in natura tutto è connesso, nessuno è un’isola, ognuno dipende da ciò che lo circonda e viceversa.

Il punto su cui il testo mi ha fatto più riflettere, però, è un elemento non espresso direttamente da Reichhof ma che corre sottotraccia all’intero volume e di cui ogni ogni esempio è eco: la fragilità. Le relazioni simbiotiche, ogni rapporto vitale tra organismi con differenti obiettivi, bisogni, interessi e visioni del mondo è intrinsecamente fragile.

In primo luogo, come abbiamo visto, la simbiosi è un rapporto di reciproco vantaggio: essa sussiste finchè il bilancio tra vantaggi e svantaggi, tra i guadagni derivanti dalla relazione con l’altro e la fatica e tensione nel mantenerla, va a favore dei primi. Questo bilancio è una contrattazione continua, che si dà lungo il tempo, all’interno di una relazione non retta da codici o leggi, ma autoregolata. Basta poco perchè la relazione si spezzi e un attore decida che non vale più la pena fare sacrifici per mantenerla in vita. La simbiosi è sempre instabile, delicata proprio perchè autoregolata.

In secondo luogo, essa è fragile anche perchè basta poco a farla sfociare nel parassitismo e nello sfruttamento. Il lupo potrebbe mangiare l’intera preda trovata morta tra la neve, scovata grazie al richiamo dei corvi, senza lasciare nessuna parte a quest’ultimi; potrebbe sfruttare il loro gracchiare e saziarsi più del sufficiente, egoisticamente. Il rapporto diventerebbe di vantaggio unilaterale a spese dell’altro: appunto, una forma di parassitismo. È l’autolimitazione del lupo, la sua capacità di saziarsi quanto basta e lasciare il resto a coloro che lo hanno condotto lì, a far sì che questa relazione perduri e funzioni, apportando vantaggi reciproci (capitolo 5).

Queste fragilità ne rivelano un’altra: ogni simbiosi funziona e perdura in un ambiente e in un contesto determinati. Solo in specifiche condizioni ecologiche una determinata forma di convivenza può sussistere e funzionare nel tempo. Questo significa che basta un minimo cambiamento ambientale per stravolgerla, ridefinirne i termini o renderla inutile e farla venir meno. Per esempio, la cooperazione tra oche e caprioli si è consolidata solo negli ultimi secoli, per via della caccia praticata dagli uomini con armi a lungo raggio. Per fronteggiare questa novità, le due specie hanno imparato a fare affidamento sui rispettivi segnali d’allarme: le oche contano su udito e olfatto dei caprioli, questi ultimi sulla vista delle prime per avvertirsi reciprocamente di un pericolo imminente (capitolo 2). Il venir meno della caccia potrebbe far venir meno la collaborazione tra oche e caprioli, così come potrebbe essere bastata l’estinzione dei Dodo a provocare la progressiva estinzione della pianta che si affidava a questa specie di uccello per spargere i suoi semi e riprodursi (capitolo 9). Ogni minimo cambiamento nelle condizioni ambientali, insomma, può apportare novità per fronteggiare le quali gli organismi potrebbero necessitare di certi tipi di rapporti mentre altri potrebbero risultare ormai inutili.

Ogni rapporto cooperativo, dunque, nasce e ha senso in un contesto e quindi non è ‘assoluto’, non esiste da sempre e per sempre e non è sempre e comunque vantaggioso. Ogni relazione tra organismi è frutto di un lento adattamento reciproco avvenuto lungo tempo in risposta a certe sfide ambientali e a certi contesti. Ogni simbiosi parla di un dialogo tra organismi diversi che si sono sintonizzati, adattati l’uno alle esigenze dell’altro e viceversa, sfruttando l’uno le abilità e i punti di forza che l’altro mette a disposizione per fronteggiare le stesse pressioni ambientali. Ogni rapporto cooperativo è fragile, instabile, provvisorio e dipendente dal contesto.

Reichholf conclude il suo testo chiedendosi se il rapporto che l’uomo intrattiene con la natura e le forme di vita intorno a lui sia un caso di simbiosi. Esistono vantaggi reciproci o l’essere umano è più un parassita per la natura? Lascio a voi la curiosità di leggerne le argomentazioni e la volontà di riflettere su questa domanda.

Oltre alla relazione uomo-natura, ciò su cui questo testo mi ha fatto più riflettere (e con cui vorrei concludere questo articolo) è il ruolo dell’essere umano in quanto ‘terzo’ rispetto alle relazioni simbiotiche esistenti. Quanto le nostre azioni impattano sulle relazioni sussistenti tra forme di vista? Quanto interferiamo in esse? Nella nostra quotidianità tale interferenza è per lo più indiretta: non ci immergiamo nelle barriere coralline a impedire ai pesci pagliaccio di ripararsi nelle anemoni. L’interferenza non è diretta e perciò è più difficile da scorgere, comprendere e averne consapevolezza. Le azioni umane, però, hanno un grandissimo impatto sulla terra. Pensiamo alla deforestazione, all’inquinamento di acque, suolo e aria, ad allevamento e agricoltura intensivi, alla crescita dei centri urbani a discapito delle campagne e delle zone incolte: tutte azioni che modificano radicalmente e profondamente l’ambiente e con lui le condizioni di vita degli organismi che ci vivono. Abbiamo parlato della fragilità delle relazioni simbiotiche, del loro essere dipendenti dal contesto, dal loro sussistere solo in determinate condizioni: con le nostre azioni siamo stati (e ancora lo siamo) in grado di stravolgere queste condizioni e quindi di impattare anche sui rapporti vitali esistenti. Chissà quante specie animali e vegetali a noi sconosciute si sono già estinte a causa nostra, da aggiungere a quelle di cui già sappiamo aver causato l’estinzione. Chissà quanti legami vitali abbiamo interrotto. E non possiamo far nulla per riparare: quel che è stato è stato, quel che è mutato lo è per sempre, non si ripropongono due volte allo stesso modo identiche condizioni e quindi relazioni.

Nuove circostanze, però, portano con sé nuove relazioni. Se quello che imponiamo al mondo è un semplice cambiamento allora vecchi rapporti verranno rivisti e nuovi si stabiliranno, dov’è il problema? Perchè dovrebbe essere un ‘male’ questo cambiamento? Dopotutto, non è ciò che succede naturalmente nel corso del tempo con l’evoluzione? La si potrebbe pensare così solo a patto di due considerazioni: in primo luogo, che l’impatto antropico sul mondo crei nuove condizioni vivibili e abitabili. Il che non è scontato. In secondo luogo, a patto che non ci curiamo dei singoli individui danneggiati dai cambiamenti. Se ogni esistenza ha lo stesso valore non possiamo giustificare la distruzione di questa e delle sue relazioni in nome di una futura vita che verrà e beneficerà del cambiamento.

Mi piace, però, pensare che ogni giorno è una novità, che in ogni giorno ciascuno di noi agisce e compie delle scelte. Nolenti o volenti abbiamo un impatto ma ci è data la possibilità, giorno dopo giorno, di scegliere come vivere, quali gesti compiere, come condurre la nostra esistenza. Abbiamo la possibilità di scegliere di conoscere la natura e le sue relazioni e di rispettarle attraverso azioni quotidiane sostenibili e compatibili. Possiamo scegliere se vivere da parassiti o intessere relazioni simbiotiche con le forme di vita con cui condividiamo il pianeta. Possiamo scegliere di vivere con la consapevolezza di essere parte di un tessuto vivente di cui non siamo proprietari, ma solo parti prese in mezzo.

L’uomo alla fine dell’uomo

L’uomo alla fine dell’uomo

Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.

Gnomo. Che vuoi tu riferire?

Folletto. Gli uomini sono tutti morti e la razza è perduta.

La più radicale tra le distopie è la fine del mondo e Leopardi, nelle Operette morali, vede la prospettiva di estinzione come straniamento perché contempla le pretese di un trionfale dominio del mondo. Nell’epoca contemporanea questa prospettiva cambia, perché gli esseri umani aggiungono a questo declino naturale, altri modi di autodistruzione.

La dimensione apocalittica è una fase importante per parlare di Postumanismo e, in questo articolo, la presenteremo attraverso la penna di Paolo Volponi, presentandosi appena prima o appena dopo la catastrofe. In questo senso Il pianeta irritabile sembra la continuazione della presunta imminente catastrofe nucleare descritta in Corporale, che si conclude con la distruzione totale della Terra. Il romanzo è una favola allegorica animale con caratteri, sin dall’incipit, fantascientifici, anche se l’autore se ne discosterà per addentrarsi entro un orizzonte economico e politico: il paesaggio descritto non è mai completamente sciolto da oggetti storicamente riconoscibili, anche se l’autore ne dichiara la degradazione.

A farsi largo nella catastrofe descritta è un «epos primordiale» e un sentimento sospeso tra distruzione e rinascita. La scena si apre nell’anno 2293 in cui, una devastante sequenza di conflitti atomici ha segnato il millennio e gli occhi che si posano sul mondo sono quelli di quattro esseri viventi: la scimmia Epistola, l’oca Plan Calcule, l’elefante Roboamo e il nano Mamerte detto Zuppa, unico testimone umano della vicenda. L’ipotesi che vuole mettere in campo Volponi è una visione antagonista nei confronti del genere e del mondo umano, subito riconoscibile dal fatto che i personaggi siano animali di un circo, come a indicare la loro iniziale schiavitù.

Tuttavia il vero protagonista del Pianeta irritabile è Zuppa, dotato di una grande interiorità psicologica. Volponi evidenzia il suo percorso a ritroso nella scala evolutiva e la sua volontà di non essere più un uomo. L’unica reliquia dell’esperienza umana pregressa è un cartiglio con la poesia della suora di Kanton: alla fine del romanzo lo riduce in brandelli e lo distribuisce ai compagni superstiti, poi tiene per sé il lembo più grande e lo inghiottisce come a dimostrare che ogni legame con i propri simili si è sciolto e il «mito del buon selvaggio» torna a essere attuale. La natura umanizzata non esiste più e in discussione vi è una civiltà che ha condotto l’uomo a tradire le basi organiche del proprio essere nel mondo. Volponi inserisce anche un Eros indistinto ma prepotente nell’episodio in cui si racconta il rapporto sessuale del nano con la suora, descritto come il proseguimento della soddisfazione di un bisogno corporale: vediamo una regressione a fasi anali di puro «erotismo elementare» che non ha intenzione di separarsi dalle origini per conformarsi alla società. Il panorama del romanzo «prende vita per poter morire», infatti i personaggi sono sopravvissuti a una catastrofe atomica, ma si preparano ad affrontare una nuova apocalisse in cui a trionfare sarà la natura animale. Nello scontro finale con il Governatore Moneta, Zuppa lo apostrofa a vergognarsi della sua condizione di uomo: «Tu non sei un uomo, né vero né finto; sei solo l’uomo alla fine dell’uomo».

«Tirò fuori adagio, con le mani ridotte ormai a zoccoli, il foglio di riso sul quale la suora di Kanton aveva scritto per lui la poesia. svolse il foglio adagio, con molta attenzione; lo ripiegò in modo diverso e poi lo strappò per dividerlo: consegnò quella più grande a Roboamo, ne diede un pezzo all’oca e l’altro lo tenne per sé. Lo stirò ancora, se lo accostò al buco e cominciò a mangiarlo».

Il paradosso che rappresenta Volponi è proprio questo: la volontà del nano di convertirsi dalla sua condizione di uomo a quella di animale, quindi di regredire. Questo sta a significare che l’uomo è il punto più basso della scala evolutiva e deve sparire definitivamente dalla scena per lasciare posto all’animale, con le «mani ridotte a zoccoli» e la bocca ridotta a un «buco». Ciò che rende il pianeta «irritabile» è proprio la presenza dell’uomo, che con la sua smania di conquista ha finito per distruggere quello che ha costruito lungo i secoli: Volponi, attraverso il dialogo con il governatore Moneta, presagisce una società in cui l’uomo sarà l’essere più odiato che tutti cercheranno di evitare, a partire dagli esseri umani stessi.

Apparenza, realtà e mondo: la percezione privata animale

Apparenza, realtà e mondo: la percezione privata animale

“Correlazionismo significa che esistono cose in sé, ma che queste non sono ‘attualizzate’ fino a quando non sono messe in relazione da un correlatore (…). Per poter diventare reale, il correlato richiede insomma un correlatore: sicuramente le cose esistono in una qualche sfera inaccessibile, ma non sono propriamente reali fino a quando un correlatore non vi ha accesso” [Morton 2017, p. 18].

Timothy Morton

Timothy Morton, filosofo londinese nato nel 1968, spiega con queste parole il nucleo fondamentale di quella teoria filosofica che, a partire dalla formulazione di Immanuel Kant, ha segnato profondamente tutta la riflessione a lui successiva. L’idea espressa dal correlazionismo è chiara e piuttosto intuitiva, per lo meno nella sua formulazione base: le cose non sono come ci appaiono, il soggetto che le esperisce ha a che fare con esse solo attraverso il medium del proprio pensiero e dei propri organi percettivi. Nessuno è in grado di percepire un oggetto come è in sé, ossia come è a prescindere dalla mente e dagli organi di colui che lo coglie, ma a sempre a che fare con la sua apparenza. Viene così a crearsi un abisso incolmabile tra realtà e apparenza, tra cosa in sé e cosa così come viene percepita, tra mondo e soggetto umano.

Morton nota come la filosofia successiva a Kant abbia reagito a questa ‘scoperta’ cercando proprio di colmare questo profondo abisso. Una strategia elaborata per farlo è stata quella di spostare tutto l’onere della prova sul correlatore: è il soggetto che fa esperienza a dare realtà alle cose; gli oggetti esistono solo nella misura in cui sono colti da qualcuno. La realtà viene, perciò, schiacciata e fatta a coincidere con l’apparenza: solo quest’ultima esiste, è consistente e reale. Tale intuizione, però, può funzionare ed evitare il relativismo (ossia evitare di credere nell’esistenza di tante realtà quanti sono i soggetti che la colgono) solo se assume l’esistenza di un solo ed unico correlatore possibile: l’essere umano. Così il ‘correlazionismo forte’ si fa antropocentrico: l’essere umano è l’unico giudice in grado di stabilire la realtà e il valore che le cose possiedono. Tutto si riduce a ciò che l’uomo vede e percepisce; gli oggetti perdono qualsiasi statuto ontologico proprio, ossia a prescindere e fuori dalla percezione umana, ma sono reali solo in quanto colti dal pensiero umano.

Se gli oggetti non hanno una consistenza propria al di fuori della percezione umana, allora l’uomo può plasmare, fare e disporre degli oggetti cosa e come vuole; se le cose non hanno uno statuto proprio a prescindere dell’essere umano, allora egli ha un potere assoluto su ogni cosa lui esterna. Ciò significa anche che l’unico valore e l’unica funzione che le cose hanno è quella loro assegnata dall’uomo: il legno di cui è fatto un tavolo diventa reale solo nella misura in cui viene lavorato dall’uomo e investito di una funzione, prettamente antropocentrica. Il tavolo è reale, poi, perché ha uno scopo, un valore d’uso legato ai bisogni umani.

L’esito del correlazionsmo forte è, perciò, l’idea di una “privatizzazione” umana “dell’accesso al reale” [Morton 2017, p. 33].

Morton suggerisce, però, che la deriva antropocentrica non è l’unico esito possibile dell’intuizione correlazionista kantiana: è possibile sostenere che alle cose in sé nessun soggetto ha accesso, che inevitabilmente ognuno è costretto a passare attraverso i propri organi percettivi per cogliere le cose esterne, che per il soggetto la realtà è ciò che coglie nel modo in cui lo coglie, senza credere, però, che l’uomo sia l’unico soggetto correlatore possibile e che quindi la realtà coincida con l’apparenza che lui ha del mondo.

Edizione italiana di “Ambienti animali e ambienti umani”

Le riflessioni di Jakob von Uexküll, biologo estone vissuto a cavallo tra 800 e 900, contenute nel testo Ambienti animali e ambienti umani sono calzanti per la riflessione che stiamo conducendo e intersecano la riflessione di Morton su un punto ben preciso: il biologo estone, infatti, attraverso i suoi studi arriva a sostenere che ogni essere vivente, a prescindere dalla specie di appartenenza, è un correlatore. Prima di proseguire, però, è bene concordare e chiarire l’uso di alcuni termini utilizzati: parlerò di ‘mondo’ come di ciò che tutti gli esseri condividono, di ciò che sta ‘dietro’ le percezioni (simile alla cosa in sé kantiana, anche se ne rivedremo il concetto); per ‘realtà’, invece, intendo questo mondo come appare ad un soggetto specifico. Ciò che è reale, dunque, è sempre relativo ad un correlatore che percepisce il mondo.

L’idea che il correlatore possa essere solo umano è piuttosto ingenua: nei suoi studi, Uexküll nota come ciascun animale abbia degli organi sensoriali attraverso i quali percepisce il e agisce nel mondo. Ogni organismo, però, lo fa a modo proprio: sono gli organi di cui è dotato ad avere la funzione di a-priori dell’esperienza. Questi ultimi, cioè, filtrano gli stimoli provenienti dall’esterno e permettono in tal modo un accesso al mondo limitato e selettivo, funzionale alla vita del soggetto. Per esempio, l’essere umano ha accesso solo a determinati stimoli uditivi e visivi; per una zecca il mondo si riduce a pochi stimoli chimici connessi alla sua preda (essa percepisce l’acido butirrico del sudore dei mammiferi, il caldo del contatto con il loro pelo ma non ha alcuna percezione dell’intero corpo della preda). Gli organi di un soggetto, insomma, permettono l’accesso a ciò che del mondo esterno è funzionale alla conservazione della vita, mentre escludono quegli stimoli che rappresenterebbero un disturbo e renderebbero la realtà di ciascuno un caos affollato di input inutili.

Organi diversi determinano accessi e letture differenti del mondo: il pipistrello si orienta grazie a onde sonore che corrispondo per lui ad oggetti e ostacoli esterni, mentre l’essere umano non li percepisce, non ne ha accesso e privilegia, invece, la vista. I due soggetti hanno sicuramente immagini del mondo molto differenti tra loro. Allo stesso modo, organi simili ma con costituzioni differenti determinano percezioni differenti della stessa situazione spazio-temporale: in base al numero di elementi ottici presenti nell’occhio (ossia di ‘sensori’ in grado di captare uno stimolo) varia la risoluzione dell’immagine che si ha del mondo: ad un maggior numero di sensori corrisponde un’immagine più ricca di dettagli.

Per soggetti diversi, dunque, ad essere reali sono immagini del mondo differenti tra di loro: tali immagini sono definite da Uexküll Umwelten, ossia ‘ambienti’. L’ambiente è il mondo così come appare ad un soggetto, ossia la realtà stessa per quell’organismo. Le coordinate e i tratti strutturali di ciascuna Umwelt sono determinati dalla conformazione degli organi percettivi del soggetto e sono connessi all’appartenenza di specie: specie differenti dotano gli individui di organi diversi che determinano una modalità specifica di accesso al mondo. Le Umwelten di due gatti hanno le stesse coordinate, gli stessi tratti generali, così come le Umwelten umane sono simili tra di loro. Quanto più due individui appartengono a specie lontane nella filogenesi, ossia presentano strumenti di percezione quanto più differenti, tanto più le loro Umwelten sono incommensurabili.

Dall’altro lato, però, anche conspecifici vivono in Umwelten differenti e questo è dovuto al fatto che ogni individuo è un unico e singolare punto di osservazione sul mondo: la prospettiva di ognuno è irripetibile perché condotta da un punto di individuazione spazio-temporale unico, privato e incondivisibile. Bisogni e interessi personali guidano ogni soggetto nel mondo e fanno sì che il suo ambiente si colori di tonalità fortemente soggettive: ogni individuo, cioè, assegna un valore personale agli oggetti che esperisce.

Il valore di un oggetto, quindi, è in primo luogo determinato dall’appartenenza di specie: come si è già visto, per l’essere umano lo stimolo chimico dell’acido butirrico non esiste, per la zecca ha un valore biologico fondamentale. Ma in secondo luogo, sono i bisogni e gli interessi personali ad attribuire valori unici agli oggetti e tale valore varia al variare sia del soggetto sia delle condizioni emotive e ambientali in cui lo stesso vive. Per esempio, Uexküll nota come per uno stesso paguro un’anemone possa assumere valori differenti a seconda della tonalità emotiva del primo e della situazione contingente in cui è posto: nel caso in cui il paguro sia sprovvisto di protezioni e si senta minacciato da un predatore, egli colloca l’anemone sulla propria conchiglia per ricevere protezione, mostrando così che essa ha per lui un valore difensivo. Se invece il paguro è già protetto da anemoni, questa assumerà un valore abitativo, fatto osservabile dal tentativo del paguro di entrarvi dentro. Nel caso, infine, in cui il paguro sia affamato, l’anemone avrà per lui un valore nutritivo e inizierà a mangiarla [Uexküll 1934, pp. 104-105].

Gli studi e le riflessioni di Uexküll, dunque, suggeriscono che ogni essere vivente è un correlatore, ossia percepisce il mondo esterno secondo una sua modalità peculiare, ha a che fare solo con ciò che viene filtrato e plasmato dai suoi organi, ossia mai con le cose come sono al di fuori della percezione che ne ha. Ognuno, dunque, ha accesso al mondo in maniera personale e specifica e questo significa che esistono modalità di accesso al mondo non umane e che queste non sono meno vere e meno reali di quelle antropomorfiche: ogni ambiente è reale per il soggetto che lo abita. Non esiste una sola realtà, né una più vera delle altre, ma tutte sono poste sullo stesso piano nel fare riferimento ad un soggetto unico di volta in volta. Non esiste un solo mondo di percepire le cose e gli oggetti non hanno un solo valore possibile: stessi oggetti in ambienti diversi assumono aspetti e valori differenti a seconda del soggetto che ne fa esperienza.

Tutto questo, però, non significa che l’Umwelt sia una costruzione totalmente arbitraria del soggetto: esiste un mondo oggettivo ‘dietro’ le Umwelten che pone limiti, resistenze, freni, novità ed ostacoli che eccedono gli apparati cognitivi del soggetto [Marchesini 2019, pp. 120-130]. Il mondo non si lascia plasmare e leggere in qualsiasi modalità, ma pone freni all’attività percettiva di ognuno: che lo vogliamo o no, indipendentemente da come li percepiamo, una pietra non è un albero. In questo senso Morton può affermare che realtà (mondo) e apparenza (Umwelt) scivolano l’uno sull’altro: l’apparenza non è il mondo, è legata ad una modalità specifica di accesso a questo, ne è una lettura personale, ma non è mai arbitraria. L’apparenza è una sorta di compromesso con il mondo. Quest’ultimo ha una sua consistenza e realtà che è quella di un essere poroso e virtuale, che si rende disponibile a letture e interpretazioni diverse. Il mondo eccede qualunque apparto percettivo; nessuna modalità di accesso alle cose lo esaurisce, ma ne rappresenta una lettura parziale. Le Umwelten sono prospettive tutte parimenti limitate del mondo, piani di lettura specifici, modi di percepirlo parziali e incompleti.

Il mondo è ciò che accomuna tutti gli esseri, che sfugge a tutte le sue possibili letture, che si ritrae ma che è anche condiviso. Sono proprio questa condivisione e l’ammissione del carattere parziale e relativo di ogni percezione le condizioni di possibilità della solidarietà tra tutti gli esseri viventi, ossia anche oltre l’umano: le Umwelten sono sì diverse, ma tutte gettate su un mondo comune che nessuna modalità di accesso esaurisce. La solidarietà estesa ai non umani è possibile se l’essere umano comprende che non è lui il solo correlatore possibile ma che ogni organismo, a prescindere dall’appartenenza di specie, ha un acceso personale e limitato su un mondo comune. Noi esseri umani, correlatori limitati e dai tratti specifici, siamo in grado di provare solidarietà verso ogni altro essere che vive in un ambiente proprio, povero, limitato, difettoso e manchevole tanto quanto il nostro nei confronti di un mondo che sfugge a tutti noi.

 

RIFERIMENTI

Morton Timothy, Humankind: Solidarity with Non-Human People, 2017, Verso, London. Edizione utilizzata: Humankind: solidarietà ai non-umani, a cura di Vincenzo Santarcangelo, Nero, Roma, 2022.

Uexküll Jakob von, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen: Ein Bilderbuch

unsichtbarer Welten, Springer, Berlin, 1934. Edizione utilizzata: Ambienti animali e ambienti

umani, a cura di Marco Mazzeo, Quodlibet, Macerata, 2019.

Marchesini Roberto, Alterità. L’identità come relazione, Mucchi, Modena, 2019.