Il mondo delle simbiosi narrato da Josef Reichholf

Il mondo delle simbiosi narrato da Josef Reichholf

“Ogni amico è un tesoro” è il titolo del testo di Josef Reichholf, zoologo, biologo ed ecologo tedesco, edito per la prima volta nel 2017 e pubblicato in Italia da Aboca nel 2022.

Se volete farvi affascinare, stupire e conoscere qualcosa in più del mondo ricco e sorprendente in cui viviamo, non potete non addentrarvi nelle sue pagine. Con una scrittura scorrevole e accessibile Reichholf ci accompagna nel mondo delle simbiosi, raccontando trenta casi di convivenza intraspecifica esistenti in natura.

Con il termine ‘simbiosi’ l’autore non intende solo i casi di stretta interazione biologica, come il classico esempio del lichene (cui, comunque, dedica un capitolo), bensì ogni relazione di reciproca utilità e vantaggio instauratasi tra forme di vita differenti.

Una simbiosi è una convivenza che apporta vantaggi a tutte le parti coinvolte: attenzione, però, a credere che tali vantaggi siano paritari ed equamente distribuiti. Essendo coinvolti organismi differenti, i benefici che essi traggono dalla relazione sono ‘personali’, relativi ai bisogni e necessità di ciascuno e quindi non facilmente paragonabili. Non è possibile trovare un’unità di misura comune in grado di quantificare i vantaggi per distribuirli equamente. Ciò che noi esseri umani potremmo giudicare un ‘piccolo’ vantaggio per una forma di vita potrebbe invece essere essere di estrema importanza dal suo punto di vista. Ciò che intendo dire, insomma, è che le simbiosi non devono essere necessariamente relazioni di simmetrica reciprocità e pari vantaggi: organismi diversi possono convivere pacificamente e scambiarsi benefici anche là dove per uno dei due il guadagno pare minimo.

La simbiosi è un legame che può essere più o meno stretto, in cui gli organismi possono raggiungere livelli di dipendenza reciproca più o meno marcati. Così accanto al caso dei licheni, un’interazione strettissima tra fungo e alga, c’è la simbiosi che unisce le bufaghe agli erbivori della savana, o l’oca al capriolo, caso, quest’ultimo, in cui il rapporto è maggiormente circostanziale e i protagonisti rimangono largamente indipendenti gli uni dagli altri.

Le simbiosi, casi di convivenza cooperativa tra forme di vita, sono più all’ordine del giorno di quanto immaginiamo e sono testimonianza del fatto che in natura tutto è connesso, nessuno è un’isola, ognuno dipende da ciò che lo circonda e viceversa.

Il punto su cui il testo mi ha fatto più riflettere, però, è un elemento non espresso direttamente da Reichhof ma che corre sottotraccia all’intero volume e di cui ogni ogni esempio è eco: la fragilità. Le relazioni simbiotiche, ogni rapporto vitale tra organismi con differenti obiettivi, bisogni, interessi e visioni del mondo è intrinsecamente fragile.

In primo luogo, come abbiamo visto, la simbiosi è un rapporto di reciproco vantaggio: essa sussiste finchè il bilancio tra vantaggi e svantaggi, tra i guadagni derivanti dalla relazione con l’altro e la fatica e tensione nel mantenerla, va a favore dei primi. Questo bilancio è una contrattazione continua, che si dà lungo il tempo, all’interno di una relazione non retta da codici o leggi, ma autoregolata. Basta poco perchè la relazione si spezzi e un attore decida che non vale più la pena fare sacrifici per mantenerla in vita. La simbiosi è sempre instabile, delicata proprio perchè autoregolata.

In secondo luogo, essa è fragile anche perchè basta poco a farla sfociare nel parassitismo e nello sfruttamento. Il lupo potrebbe mangiare l’intera preda trovata morta tra la neve, scovata grazie al richiamo dei corvi, senza lasciare nessuna parte a quest’ultimi; potrebbe sfruttare il loro gracchiare e saziarsi più del sufficiente, egoisticamente. Il rapporto diventerebbe di vantaggio unilaterale a spese dell’altro: appunto, una forma di parassitismo. È l’autolimitazione del lupo, la sua capacità di saziarsi quanto basta e lasciare il resto a coloro che lo hanno condotto lì, a far sì che questa relazione perduri e funzioni, apportando vantaggi reciproci (capitolo 5).

Queste fragilità ne rivelano un’altra: ogni simbiosi funziona e perdura in un ambiente e in un contesto determinati. Solo in specifiche condizioni ecologiche una determinata forma di convivenza può sussistere e funzionare nel tempo. Questo significa che basta un minimo cambiamento ambientale per stravolgerla, ridefinirne i termini o renderla inutile e farla venir meno. Per esempio, la cooperazione tra oche e caprioli si è consolidata solo negli ultimi secoli, per via della caccia praticata dagli uomini con armi a lungo raggio. Per fronteggiare questa novità, le due specie hanno imparato a fare affidamento sui rispettivi segnali d’allarme: le oche contano su udito e olfatto dei caprioli, questi ultimi sulla vista delle prime per avvertirsi reciprocamente di un pericolo imminente (capitolo 2). Il venir meno della caccia potrebbe far venir meno la collaborazione tra oche e caprioli, così come potrebbe essere bastata l’estinzione dei Dodo a provocare la progressiva estinzione della pianta che si affidava a questa specie di uccello per spargere i suoi semi e riprodursi (capitolo 9). Ogni minimo cambiamento nelle condizioni ambientali, insomma, può apportare novità per fronteggiare le quali gli organismi potrebbero necessitare di certi tipi di rapporti mentre altri potrebbero risultare ormai inutili.

Ogni rapporto cooperativo, dunque, nasce e ha senso in un contesto e quindi non è ‘assoluto’, non esiste da sempre e per sempre e non è sempre e comunque vantaggioso. Ogni relazione tra organismi è frutto di un lento adattamento reciproco avvenuto lungo tempo in risposta a certe sfide ambientali e a certi contesti. Ogni simbiosi parla di un dialogo tra organismi diversi che si sono sintonizzati, adattati l’uno alle esigenze dell’altro e viceversa, sfruttando l’uno le abilità e i punti di forza che l’altro mette a disposizione per fronteggiare le stesse pressioni ambientali. Ogni rapporto cooperativo è fragile, instabile, provvisorio e dipendente dal contesto.

Reichholf conclude il suo testo chiedendosi se il rapporto che l’uomo intrattiene con la natura e le forme di vita intorno a lui sia un caso di simbiosi. Esistono vantaggi reciproci o l’essere umano è più un parassita per la natura? Lascio a voi la curiosità di leggerne le argomentazioni e la volontà di riflettere su questa domanda.

Oltre alla relazione uomo-natura, ciò su cui questo testo mi ha fatto più riflettere (e con cui vorrei concludere questo articolo) è il ruolo dell’essere umano in quanto ‘terzo’ rispetto alle relazioni simbiotiche esistenti. Quanto le nostre azioni impattano sulle relazioni sussistenti tra forme di vista? Quanto interferiamo in esse? Nella nostra quotidianità tale interferenza è per lo più indiretta: non ci immergiamo nelle barriere coralline a impedire ai pesci pagliaccio di ripararsi nelle anemoni. L’interferenza non è diretta e perciò è più difficile da scorgere, comprendere e averne consapevolezza. Le azioni umane, però, hanno un grandissimo impatto sulla terra. Pensiamo alla deforestazione, all’inquinamento di acque, suolo e aria, ad allevamento e agricoltura intensivi, alla crescita dei centri urbani a discapito delle campagne e delle zone incolte: tutte azioni che modificano radicalmente e profondamente l’ambiente e con lui le condizioni di vita degli organismi che ci vivono. Abbiamo parlato della fragilità delle relazioni simbiotiche, del loro essere dipendenti dal contesto, dal loro sussistere solo in determinate condizioni: con le nostre azioni siamo stati (e ancora lo siamo) in grado di stravolgere queste condizioni e quindi di impattare anche sui rapporti vitali esistenti. Chissà quante specie animali e vegetali a noi sconosciute si sono già estinte a causa nostra, da aggiungere a quelle di cui già sappiamo aver causato l’estinzione. Chissà quanti legami vitali abbiamo interrotto. E non possiamo far nulla per riparare: quel che è stato è stato, quel che è mutato lo è per sempre, non si ripropongono due volte allo stesso modo identiche condizioni e quindi relazioni.

Nuove circostanze, però, portano con sé nuove relazioni. Se quello che imponiamo al mondo è un semplice cambiamento allora vecchi rapporti verranno rivisti e nuovi si stabiliranno, dov’è il problema? Perchè dovrebbe essere un ‘male’ questo cambiamento? Dopotutto, non è ciò che succede naturalmente nel corso del tempo con l’evoluzione? La si potrebbe pensare così solo a patto di due considerazioni: in primo luogo, che l’impatto antropico sul mondo crei nuove condizioni vivibili e abitabili. Il che non è scontato. In secondo luogo, a patto che non ci curiamo dei singoli individui danneggiati dai cambiamenti. Se ogni esistenza ha lo stesso valore non possiamo giustificare la distruzione di questa e delle sue relazioni in nome di una futura vita che verrà e beneficerà del cambiamento.

Mi piace, però, pensare che ogni giorno è una novità, che in ogni giorno ciascuno di noi agisce e compie delle scelte. Nolenti o volenti abbiamo un impatto ma ci è data la possibilità, giorno dopo giorno, di scegliere come vivere, quali gesti compiere, come condurre la nostra esistenza. Abbiamo la possibilità di scegliere di conoscere la natura e le sue relazioni e di rispettarle attraverso azioni quotidiane sostenibili e compatibili. Possiamo scegliere se vivere da parassiti o intessere relazioni simbiotiche con le forme di vita con cui condividiamo il pianeta. Possiamo scegliere di vivere con la consapevolezza di essere parte di un tessuto vivente di cui non siamo proprietari, ma solo parti prese in mezzo.

MORDERE: VOCE DEL VERBO BACIARE

MORDERE: VOCE DEL VERBO BACIARE

Figura 1 “YOUNG CANNIBALISM”, SDAZED, 2022.

Mordere e baciare hanno la medesima e aggressiva valenza coniugativa. Il bacio simula il morso, il morso emula il bacio. Il morso come il bacio oltrepassano le specie e i generi, le famiglie, le classi e i regni: sono il gesto estremo e rivoluzionario per eccellenza mediante il quale si superano e si abbattono gerarchie arbitrarie, frontiere immaginarie e confini inesistenti. Ti bacio così da poterti mordere ancora e ancora, ti mordo perché non posso, non so come baciarti. Ossessione e incomprensione sono dolci narcotici zoetici, propulsori stupefacenti sotto il cui effetto vita e morte danzano e si confondono. Mordere: voce del verbo baciare, ovvero di come il medesimo organo animale sia il mezzo prediletto di coniugazione con e di conoscenza del mondo. Gli occhi mantengono sempre un’irritante e pavida distanza dall’altro con noi.  La vista, a cui diamo specie nella nostra cultura così tanta importanza, è un’esperienza mutilata, infedele, timida e disamorata. Lo sguardo sviene a contatto con il mondo, sfuoca fino a diluirsi e dissiparsi nel buio totale. Sono le labbra ad accogliere, sono le labbra a trattenere, a cercare e afferrare il mondo, la lingua saggia e assapora, esplora, lubrifica e giudica, respinge o insegue ciò che i denti inviteranno a restare in un abbraccio inesorabile. E’ lo stesso gruppo di muscoli, nervi, ossa e legamenti, lo stesso lembo di pelle in noi animali eterotrofi che annienta le distanze con il mondo, che dissolve il distacco tra i corpi, che unisce la materia. Attraverso le labbra il mondo ci entra letteralmente dentro, o meglio esse sono la soglia che scambia aria per un respiro, che baratta fibre per fonemi. Le labbra, la bocca sono un orizzonte epistemologico, un dispositivo cibernetico, biotecnologico che ci consente di masticare la consistenza ibrida dei corpi, di percepire la spirale frattalica in cui la materia è invischiata.

Un morso ad una mela ha cambiato le sorti dell’umana creatura biblica, una mela morsicata è uno dei loghi aziendali oggi maggiormente riconoscibili. Un morso di cinghiale procurò al prode Odisseo una inconfondibile cicatrice mentre il morso di un aspide non lasciò scampo alla celebre Cleopatra. E poi ancora i morsi di Mike Tyson e Luis Suarez, quelli del conte Dracula, di zombies e di soggetti infettati da uno strano virus, il cannibalismo rituale dell’eucarestia cristiana e l’endocannibalismo degli Wari nella foresta Amazzonica del Brasile o dei Forè delle Highlands orientali nella Nuova Guinea. La lotta di Pasteur contro l’idrofobia trasmessa dal morso dei randagi, la pizzica terapeutica per esorcizzare il morso della Tarantola e Paskedda Zau, eroina nuorese che nel 1868 strappa a morsi i documenti che privatizzavano le terre accendendo la rivolta popolare de su connotu.  Il conte Ugolino della Gherardesca, si morde le mani prima di divorare, secondo il Sommo Poeta, la sua stessa prole e di azzannare l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini. William Bouguereau nel suo Dante e Virgilio nell’inferno, in primo piano dipinge il morso tra dannati di Gianni Schicchi a Capocchio.

Figura 2 “DANTE E VIRGILIO ALL’INFERNO”, WILLIAM-ADOLPHE BOUGUEREAU, 1850.

Anche dal mondo vegetale emergono strategie di coniugazione che rievocano il morso animale, il caso forse più conosciuto e quello della Venere acchiappamosche (Dionea muscipula, Ellis 1773)  una pianta carnivora originaria del continente americano di cui fu grande estimatore Charles Darwin, il quale non esitò a definire queste Dionee “the most wondeful plants in the world”.

FIGURA 3 “VENUS FLYTRAP’S TOTEM”, SDAZED, 2023.

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La Venere acchiappamosche incarna perfettamente quel connubio tra eros e tanatos, tra bacio e morso, tra gioco e delitto. L’origine del suo nome si inserisce sullo sfondo, oggi per noi altamente discutibile, di uno scambio epistolare tra naturalisti del XVIII in cui si mescolarono un po’ di latino, un pizzico di sarcasmo da osteria con epiteti allusivi in lingua nativa, ottenendo in fine un omaggio a Dionea, divinità legata all’erotismo nonché madre della dea Venere. Del resto sessualità e flora hanno un intimo, intenso e antichissimo rapporto che vibra tra sacro e profano attraverso i secoli, i miti, le arti e le letterature di tutto il mondo.

L’animale è affetto da una dacnomania tutt’altro che patologica. L’impulso di molte specie animali, e non solo animali, di mordere e quindi baciare, di baciare e quindi di mordere, ha una profonda valenza coniugativa e ibridativa: il bacio come il morso sono un atto celebrativo della vita stessa, effusione chimerica e metamorfica della materia.  

Eppur sono mondo!

Eppur sono mondo!

EPPUR SONO MONDO!

 

 

[…] a particular incident happened while a was

convalescing, that’s when I got this scar actually

from this accident. A friend of mine came over to

see me and I was confined to bed and I couldn’t

move…but as she left, she said: “Shall I put a

record on?” and I said: “Please..” She put the

record on and then left. The record was much too

quite but I couldn’t reach it to turn it up and it was

raining outside so… was a record of 18th century

harp music I remember and…so I laid there at first

kind of frustrated by this situation but then I

started listening to the rain, listening to the..these

(hardnode) of the heart (bit) that was just loud

enough to be heard above the rain and this was a

great musical experience to me and I suddenly

thougth of this idea of making music that didn’t

impose itself on your space in the same way but

creating a sort of landscape that you could belong

to, you could be part of and this, I called this..I

pompously gave this new name which I called

ambient music..and it became something that I no

longer recognise […] (Brian Eno)[1]

 

 

 

L’ambiguità del rapporto umano-non umano, di Diogene con la sua lampada, del teschio di Piltdown e delle isole crimsoniane fa eco al rapporto tra interno ed esterno, tra organismo e ambiente, un rapporto contraddittorio in cui ciò che sembra influenza e contemporaneamente è influenzato da ciò che è. Se ci delineiamo e avvertiamo come frontiera di un mondo di confini, se il fatto di percepirci distaccati e diversi, separati e separabili poiché autonomi dal tutto il resto, ha avuto e continua ad vere una valenza in termini evolutivi di convivenza e trasformazione, non è possibile ne conviene negarlo. Per secoli abbiamo guardato il sole attraversare la volta celeste girando attorno alla Terra e in base a questo abbiamo navigato, coltivato, costruito intere città, recitato preghiere e compiuto sacrifici. Aver successivamente visto che il nostro pianeta intrattiene una differente relazione con la sua stella ha modificato profondamente le nostre coscienze ma ha risparmiato i nostri occhi che continuano incuranti a seguire il sole nel suo viaggio uranico. Individualità ed eliocentricità condividono entrambe la necessità di una discendenza, sono posizionamenti fortemente legati alla memoria, sono sistemi dipendenti dalla trasmissione e dal passaggio di un ricordo. Sono costruzioni bio e geo-culturali capaci di convivere e sovrapporsi in pace e contraddittorietà con altri, infiniti, posizionamenti e sistemi, con gradi di influenza diversi ma pur sempre in reciproca contaminazione tra loro. Eppur si muove, eppur sono mondo. Accogliere questa dimensione eco-ontologica (Marchesini 2018) non modificherà forse i nostri occhi ma può intimamente influenzare il nostro sguardo ed educare certamente la nostra visione.

 

 

Corro, salto, mi arrampico.

Striscio, nuoto, volo.

Mangio, mi accoppio, dormo. Sogno.

Animale vagile, vago, mi muovo, passo e passo oltre.

 Attraverso il corpo, altri corpi schiaccio, afferro, evito e scosto, mi sposto. 

Io penso dico io, potrei dire io faccio io sono

ma come ignorare gli occhi, i suoni e tutto il resto che mi sento addosso?

Essi sono sono io e io con loro divengo, mi confondo

 ho piume tra le dita e nel ventre una foresta, sassi nella bocca e metallo nella testa.

Mi insinuo in un ronzio, vorticante desiderio perdo conoscenza e mi ritrovo mondo,

senza più confini, dimentico di ciò che ero e ora sono, io riemergo sfondo.

 

 

  1. Marchesini, Eco-ontologia. L’essere come relazione, Bologna, Apeiron, 2018.

[1] Questo è quanto ha dichiarato il musicista Brian Eno (1948) nel giugno 2011 quando, intervistato da Riz Khan nel suo programma “One on One”, gli è stato chiesto di parlare delle origini della musica ambient .

Mimetismo: forme fatte per essere interpretate

Mimetismo: forme fatte per essere interpretate

Il mimetismo è un fenomeno naturale la cui complessità e varietà sono direttamente proporzionali a fascino e stupore suscitati. La prima immagine che comunemente gli si associa è il camaleonte che cambia il colore della propria pelle riprendendo in modo talmente accurato quello dell’ambiente circostante da risultare invisibile. Questo è un esempio di ‘mimetismo criptico’, solo una delle tante tipologie con cui si è tentato di categorizzare il fenomeno. Accanto a questo ricordo solo quello batesiano in cui una specie imita forme, colori, comportamenti o suoni di una specie differente, più temuta dai propri predatori, e quello peckhamiano quando avviene l’opposto, quindi una specie nociva o pericolosa ne imita una meno aggressiva per far avvicinare le prede [per approfondimento si veda Maran 2017, pp. 16-18].

Gli studi che hanno cercato di classificare il mimetismo sono tanti, variegati e i risultati poco concordanti perchè il fenomeno è talmente complesso, ricco e variegato da rendere ogni tentativo classificatorio insufficiente. Basti pensare a quante sotto-categorie del mimetismo criptico sono pensabili: ci sono animali che nascono con un pelo adatto al camuffamento, altri che cambiano il colore lungo la vita come alcuni granchi, altri in grado di cambiarlo repentinamente come il camaleonte o ancora altri che usano materiali naturali per nascondersi, scegliendo quelli più adeguati e funzionali in base al contesto [Maran 2017, p. 75-76].

Accanto a questo si aggiunge la complessità dovuta al punto di vista con cui lo studioso che intende classificare il fenomeno si approccia ad esso: può essere interessante suddividerlo a seconda della tecnica utilizzata dall’animale (come fa la distinzione tra batesiano e peckhamiano), o della tipologia di segnali utilizzati (distinguendo quelli che coinvolgono stimoli visivi, uditivi o chimici), o della funzione che ha per colui che mette all’opera la strategia mimetica. Non dimentichiamoci, infatti, che il mimetismo serve a sfuggire dai predatori non facendosi riconoscere o scongiurandone gli attacchi (per esempio, il mimetismo criptico impedisce il riconoscimento, mentre colori sgargianti o pattern del pelo striati interrompono e disturbano l’immagine visiva dei predatori disorientandoli [Stevens, Merilaita 2009, p. 425]), ma può essere anche rivolto ai conspecifici e avere funzione sociale e comunicativa. Il mimetismo, poi, può essere studiato come fenomeno filogenetico ed evolutivo, concentrandosi sugli aspetti genetici ed ereditari, o ontogenetico e coinvolto in processi di apprendimento, concentrandosi questa volta sulla performance del singolo.

La biosemiotica offre una delle tante prospettive possibili ed è caratterizzata dal suo intendere il mimetismo come un processo comunicativo che coinvolge mimo, modello imitato e ricevete (il destinatario della strategia). È comunicativo perchè in esso avviene uno scambio di informazioni e segnali tra i partecipanti: il mimo invia un segnale al ricevente, il quale lo interpreta nello stesso modo con cui lo interpreterebbe se provenisse dal modello, scambiando, così, il mimo per quest’ultimo [Maran 2017, p. 2]. Secondo questa prospettiva, infatti, il mimetismo non è tanto una somiglianza tra organismi, ma tra messaggi [Maran 2017, p. 9]: il mimo imita una caratteristica del modello sfruttando il significato che esso ha per il referente e impedendo a quest’ultimo di percepire il mimo per quello che è. In natura, infatti, sono rari i casi in cui una specie imita perfettamente e completamente un’altra specie: la maggior parte delle strategie mimetiche riprendono solo alcuni segnali, quelli necessari e sufficienti a ingannare al predatore.

Ma facciamo un passo indietro: quando si pensa al mimetismo, la prima cosa ad essere evidente sono le forme esterne: come afferma Portmann nel suo brillante testo La forma degli animali, ciò che conta nel mimetismo è l’apparenza. Ricordare una foglia, avere il mantello simile allo sfondo o un pattern cromatico alare identico al tronco degli alberi, sono tutti escamotage che coinvolgono la superficie esterna. Portmann le chiama ‘strutture ottiche’ intendendo sottolineare il fatto che sono strutture fatte per essere guardate, che hanno senso in relazione ad un occhio che le osserva [Portmann 2013, pp.112-114]. La maggior parte di tali strutture sono specie-specifiche, non sono scelte dal soggetto ma ereditate e legate al patrimonio genetico.

Ma la forma non è tutto: la cosa più meravigliosa e affascinante del mimetismo è che esso non funzionerebbe se la forma non fosse supportata da un comportamento adatto in un contesto adatto [Portmann 2013, p. 121]. L’insetto stecco riesce a mimetizzarsi e passare inosservato non solo perchè la sua forma imita quella di un ramoscello, ma anche perchè assume una posizione coerente in un ambiente ricco di ramoscelli. La mantide Hymenopus coronatusè, con le tibie che ricordano petali e un colore tra il bianco e il rosa, risulta indistinguibile dai fiori delle orchidee solo se rimane immobile tra essi assumendo una posizione corporea specifica [Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Hymenopus_coronatus].

Il mimetismo è anche performance e in essa l‘apparenza visibile non è tutto, anzi! Il mimetismo è per lo più multisensoriale, ossia può sfruttare sguardo, odorato o udito dei predatori cui intende sfuggire. Il caso forse più estremo e impressionante è quello dell’opossum: il piccolo mammifero si finge morto sdraiandosi a pancia all’aria, spalancando la bocca e facendo uscire la lingua. Questa si colora di blu e il corpo inizia ad emettere un sentore di morte e ad espellere feci e urine. Il battito del cuore rallenta, seguito dalla respirazione [Monsó 2022, p. 174]. Impressionante finezza, vero?

Ma sono comportamenti scelti, appresi e intenzionali? O innati e istintivi? L’opossum sa che atteggiandosi a quel modo sembra morto? Difficile dirlo, ma evidentemente deve sapere almeno che la strategia funziona: lungo la sua vita ogni individuo deve aver fatto esperienza di un conspecifico scampato in questo modo ad un’aggressione e deve aver testato la funzionalità della strategia in un momento di pericolo sulla sua stessa pelle. Forse l’opossum non sa che così sembra morto, ma a saperlo è di certo il predatore che, disgustato, rinuncia al banchetto. Se la tecnica funziona è perchè quest’ultimo sa distinguere una preda morta (cattiva e nociva se mangiata) da una viva [Monsó 2022, pp. 230-232].

Questo per dire che forse il mimo potrebbe mimetizzarsi anche ‘inconsapevolmente’, potrebbe non sapere che forma assume e a cosa somiglia, ma solo che la tecnica funziona. Ma, come la biosemiotica sottolinea, è l’occhio del ricevente ad essere centrale nel sistema semiotico: questo è da ingannare, questo è il destinatario della performance. Perchè la strategia mimetica funzioni poco importa che i segnali coinvolti siano compresi e interpretati dal mimo: importa solo che vengano percepiti e significhino qualcosa per il ricevente. La strategia mimetica è fatta per lui e funziona sfruttando i suoi concetti, scelte e sensi. Non è importante che la preda riconosca la propria apparenza e la interpreti allo stesso modo del predatore: è solo l’apparato percettivo di quest’ultimo ad essere importante per la riuscita della strategia [Maran 2011, pp.170-175].

Il mimetismo è benefico per il mimo oppure no a seconda dell’interpretazione che ne fa il ricevente e del suo conseguente comportamento ed è quindi il ricevente stesso a determinare le dinamiche del sistema mimetico: sono i suoi apparati, preferenze, paure e categorie a determinare cosa e in che modo la preda imiterà [Maran 2017, p. 29]. Il caso dei polpi aiuta a chiarire questi punti: il polpo sa cambiare colore molto velocemente per mimetizzarsi con il contesto ma lui, con una sola classe di fotorecettori, ha una vista monocromatica cui sfugge la complessità di sfumature colorate che può assumere [Yong 2023, pp 118-119]. Compie un mimetismo criptico ma di fatto lui non può vederlo e apprezzarlo: questo per dire che la strategia è fatta non per il suo occhio, ma per quello del predatore. Evidentemente tale strategia non ha un valore sociale. Il polpo, poi, sa sfruttare i suoi tentacoli per imitare altri predatori e in questo caso sa assumere forme e sembianze differenti a seconda della specie che vuole imitare: la scelta è fatta in base a quale predatore vuol allontanare e spaventare con la sua tecnica. Ecco, in questo caso è chiaro che è il ricevente a decidere le dinamiche della strategia imitativa [Maran 2017, p. 73].

L’enfasi che l’approccio biosemiotico pone sul ricevente getta nuova luce sul fenomeno, considerandolo da una prospettiva differente: ciò che conta sono i concetti, i sensi e le categorie del destinatario che fanno sì che per lui un certo segnale del mimo significhi qualcosa. Cosa deve significare? Dipende. Il mimetismo criptico funziona sfruttando l’incapacità del predatore di distinguere il contorno dell’animale dallo sfondo, l’opossum sfrutta (tra le altre cose) l’odore che il predatore associa alle carcasse. È possibile comprendere una strategia mimetica, allora, ‘osservandola’ con i sensi del ricevente, cogliendola alla luce della struttura del suo Umwelt. È necessario comprendere come il destinatario del mimetismo percepisce, che significato hanno per lui gli stimoli esterni, come li interpreta, cosa non riesce a distinguere e cosa lo disorienta: solo così si può capire a pieno perchè una strategia sia performata in certo modo e abbia certe caratteristiche.

Per questi motivi il mimetismo è molto diverso da un generico ‘nascondersi al mondo’, come afferma Marchesini: nulla è generico, tutto è perfettamente calibrato sull’ambiente circostante e sullo specifico ricevente. La tecnica dell’insetto di imitare un ramoscello funziona solo in un contesto adeguato, così come imitare il suono di una specie pericolosa funziona solo in relazione ad un predatore in grado di udire quel suono e di essere spaventato dall’animale imitato. Le strategie mimetiche sono un’opera di immersione nel contesto e somatizzazione delle relazioni di significato e interpretazione che legano tra loro gli organismi in un ambiente [Marchesini 2018, p. 88].

Proprio perchè il mimetismo non è generico ma fatto per uno specifico ricevente, per comprenderlo è necessaria un’opera di decentramento che prenda atto del fatto che l’essere umano è un terzo osservatore della strategia. Non si può comprendere il mimetismo guardando ad esso solo con occhi umani se non è fatto per ingannare i nostri occhi [Stevens, Merilaita 2009]. Non solo non siamo in grado di capire perchè alcune strategie funzionano (ciò che a noi pare perfettamente distinguibile, non lo è per un animale con sistemai percettivi differenti), ma alcune strategie possono completamente sfuggirci, come quelle che sfruttano i raggi UV per esempio. L’occhio dell’uomo non è l’unico ad osservare i fenomeni, non è l’unico a cogliere in essi significati. E così questo ci insegna che in natura probabilmente solo più le cose che ci sfuggono rispetto a quelle che percepiamo e che quelle che percepiamo hanno migliaia di altri significati per migliaia di altri esseri che li percepiscono.

Queste riflessioni ci conducono al cuore del motivo per cui ho deciso di indagare il mimetismo e al perchè è coerente con questo blog: esso rappresenta un fenomeno importante attraverso cui indagare in che modo in natura si tiene conto del fatto di essere osservati. Mimetismo è tener conto di avere un’apparenza esterna, percepita ed interpretata in un certo modo, mimetismo è prendere in considerazione l’occhio dell’altro e il come l’altro percepisce, è modellare la propria apparenza per indurre nel predatore un’interpretazione specifica che vada a favore della preda. Il mimetismo porta con sé l’occhio dell’altro: è sapere di essere visti, di avere un’apparenza che viene percepita in un certo modo e che questa apparenza determina certe azioni dell’altro. Il mimetismo è comprensibile solo comprendendo i sensi dell’organismo per cui è fatto e a cui è rivolto.

Ritengo insondabile la questione della consapevolezza e autonoma scelta del mimo nella sua strategia. Ma invece di tentare di ridurre tutto a modelli appresi, a istinti o condizionamento genetico potremmo lasciare loro il beneficio del dubbio. Se gli uomini sono in grado di consapevolezza e autonomia non vedo perchè non potrebbero farlo anche gli altri animali: partire da questo presupposto ci aiuta a sprecare meno energie nel cercare a tutti i costi un modello che spieghi il fenomeno senza parlare di soggettività e coscienza. Concedere il beneficio del dubbio significa permettere a noi stessi di rimanere affascinati di fronte al mondo e alle sue stranezze, ci permettere di abbassare le nostre pretese di onniscienza, ridurre la nostra presunzione: non possiamo spiegare tutto, non siamo gli unici sguardi interpretanti gettati sul mondo, il mondo non è fatto esclusivamente per i nostri occhi.

Gli animali sanno sorprenderci, lasciamo che continuino a farlo.

 

RIFERIMENTI:

Hymenopus coronatus” in Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Hymenopus_coronatus.

Maran Timo, Mimicry and Meaning: Structure and Semiotics of Biological Mimicry, Springer International Publishing, 2017, https://doi.org/10.1007/978-3-319-50317-2.

Maran Timo, Structure and semiosis in Biological Mimicry, in Towards a Semiotic Biology : Life Is the Action of Signs, a cura di Kull Kalevi e Claus Emmeche, Imperial college press, London, 2011, pp. 167-178.

Marchesini Roberto, Geometrie esistenziali : le diverse abilità nel mondo animale, Apeiron, Bologna, 2018.

Monsó Susana, L’opossum di Schrödinger: come vivono e percepiscono la morte gli animali, Ponte alle grazie, Milano, 2022.

Portmann Adolf, La forma degli animali : studi sul significato dell’apparenza fenomenica degli animali, Cortina, Milano, 2013.

Stevens Martin, Merilaita Sami, Introduction: Animal Camouflage: Current Issues and New Perspectives, in “Philosophical Transactions: Biological Sciences”, Vol. 364, No. 1516, 2009, pp. 423-427, https://www.jstor.org/stable/40485806 .

Yong Ed, Un mondo immenso : come i sensi degli animali rivelano i regni nascosti intorno a noi, La nave di Teseo, Milano, 2023.

L’isola o Questo non è un cranio

L’isola o Questo non è un cranio

“l’ Île” o “Ceci n’est pas un crâne”
L’Isola”o “Questo non è un cranio

Ho sognato di Diogene di Sinope, quel filosofo cibernetico che viveva in una botte e con una lanterna cercava l’Uomo in pieno giorno, intento ad abbaiare davanti ad un dipinto, un non-quadro magrittiano ad olio raffigurante un cranio umano sottotitolato da una didascalia che recita:  Ceci n’est pas un crâne.

Si tratta (?) del cranio  di un esemplare di Eoanthropus dawsoni, nome scientifico dell’ominide a cui vennero ricondotti i resti di un teschio umano fossile ritrovati nel 1908 a Piltdown, nel Regno Unito. E’ una vera rarità poiché non esiste. E’ un’autentica chimera paleoantropologica frutto della fantasia truffaldina di un archeologo amatoriale inglese che, come verrà definitivamente stabilito quarant’anni dopo la sua “scoperta”,  realizzò il reperto assemblando pezzi di un esemplare di Pongo pygmaeus e di due individui di Homo sapiens.

I resti di quello che all’epoca venne acclamato come il primo uomo inglese, come il tanto ricercato anello mancante tra noi e quelle scimmie di cui saremmo una forma più evoluta ed intelligente, vennero ritrovati durante dei lavori in una cava dell’isola anglosassone, la mandibola di orango proveniva dall’isola del Borneo e, come suggerisce uno dei titoli del non-quadro che ho sognato, l’ Île, il cranio di Piltdown dipinto ricorda proprio un’isola circondata da un cielo, un mare azzurro di fossili liquidi.

Isole vulcaniche, isole artificiali, isole immaginarie, isole di plastica…

Magritte L’isola del tesoro, 1945.

Materia che emerge nel mezzo dei flutti, l’Isola incarna perfettamente l’illusorietà dell’individualità, dell’autonomia di organismo e ambiente, della separazione tra me e l’altro da me, tra dentro e fuori. Trovo che quella dell’isola sia un’immagine piuttosto evocativa anche della precarietà stessa del concetto dell’umano e della sua irriducibilità ad una essenza pura e separata dallo sfondo indistinto del così detto non-umano. L’isola è un’occorrenza momentanea, affioramento della medesima crosta sommersa, sporgenza pronta ad inabissarsi e a perdersi nel suo strato, spazio liminale e luogo peculiare di relazione, attimo dissociativo e interferenza del flusso di diffrazioni, altare asciutto da cui osservare il magma caosmotico da cui proveniamo. La nostra configurazione ibrida e assemblata non è solo corpo emerso ma anche sommerso, nascosto sotto i flutti, attraversato dalle maree del divenire le cui onde si infrangono come vento sulle sue rive e sulle sue rocce: sedimentazioni e stratificazioni bio-culturali che ne tracciano il perimetro ontologico costituendo simultaneamente, come arcipelaghi e costellazioni, una cartografia relazionale molteplice e plurale, una vera e propria mappa epistemologica. E così, per orientarci, ci siamo isolati, con un artificio, vittime di un miraggio percettivo in cui abbiamo ceduto alla seduzione, all’immediatezza e all’intuitività della rappresentazione e del linguaggio.

Come isole ci siamo pensati soli e persi alla deriva nella complessità.                                                                         

King Crimson, Islands, Islands, 1971 E.G. Records.

Beneath the wind turned wave

Sotto il vento che diventa onda

Infinite peace

Pace infinita                                                             

Islands join hands

Le isole si prendono per mano

‘Neath heaven’s sea

Sotto il mare del cielo

 ….     

 

 

wunderkammer – la camera delle meraviglie

wunderkammer – la camera delle meraviglie

WUNDERKAMMER  – LA CAMERA DELLE MERAVIGLIE

Che forma ha la meraviglia?

Frugando nel rapporto tra umano e non-umano, convinto della centralità della materia e delle sue intra-azioni (Barad 2007), vi propongo di concentrare lo sguardo su dicotomie che diamo spesso  per scontate, come organismo\ambiente, naturale\artificiale, vivente\non-vivente, soggetto\oggetto o mente\corpo, fino a quando non le vedremo sfuocate sovrapporsi e mescolarsi tra di loro.  Un minerale, una pianta, un animale, uno strumento o un’opera d’arte saranno di volta in volta gli inneschi e i propulsori di un viaggio, scuse meravigliose per perdersi e stupirsi nella prospettiva postumanista. Questo blog è una vera e propria wunderkammer in divenire, un ambiente in cui diffrangere ed ibridarsi digitalmente assieme attraverso storie di ogni tempo e di ogni dove.

La Wunderkammer o Camera delle meraviglie era anticamente, specie in Europa tra XVI e XVII secolo, una stanza privata dedicata alla raccolta e all’esposizione di stranezze e rarità provenienti dal mondo della natura (naturalia), dell’artigianato (artificialia e mirabilia), dall’ambito della ricerca scientifica (scientifica) etc. Il fascino esotico ed eccentrico di tali oggetti, la loro bizzarria e stravaganza dovevano destare lo stupore di ospiti, studiosi o collezionisti, accendere la loro curiosità e, perché no, suscitare invidia e ammirazione nei confronti del loro proprietario, possessore privilegiato di cotante cose meravigliose e desiderabili poiché estremamente rare o leggendarie.   

La wunderkammer è il luogo degli altrove. Uno spazio in cui ogni cosa è un varco misterioso, una soglia da oltrepassare, un campo magnetico che attrae una molteplicità di stupefacenti occasioni per perdersi. La wunderkammer è anche un esercizio di potere, incarnazione della potenza, della prepotenza e dell’incoerenza del raccogliere selezionando. Un miscuglio anche di mistificazioni e falsificazioni anatomiche, di scheletri ontologici e di impalcature epistemologiche. In questo senso la wunderkammer è anche narrazione, è cosmologia, un coacervo di materia inerte e silenziosa che comunica prevalentemente per via emotiva, non conscia, non verbale: le cose suscitano, evocano e si insinuano tra inquietudine e mania, tra curiosità e stupore.

Ogni corpo è un altrove. Altrove è un paesaggio abitato da forze e da energie, da frammenti di desiderio collimanti e divergenti. Altrove è lo spazio percorso dal desiderio nel tempo che la curiosità impiega a divenire meraviglia. Se dovessi immaginare le geometrie dello stupore esso farebbe la sua epifania come una pareidolia, lo troverei d’improvviso tra le molteplici configurazioni di linee diffuse e prepotenti, linee pesanti e penetranti di cui è possibile avvertire le solide e infinite proiezioni sulla pelle. Vibrando tra attrazione e ripugnanza, tra paura ed eccitazione, i corpi sono invischiati in una melma relazionale di materia che unisce e distingue, materia che si tuffa dalla freccia del tempo annegando in un vortice senza origine e senza direzione che nei suoi gorghi e nelle sue spirali lascia impronte di un passaggio dalla copia (dimensione celeste, divina, pura, animata, genetica, biocentrica e motocentrata) alla copula (dimensione ctonia, mortale, impura e melmosa, materica e mostruosa).

Le cose divengono così partner di ibridazione, alleati, componenti di assemblaggi che incarnano dicotomie sfuocate e confuse ma pluripotenti, configurazioni di coniugazioni, di commistioni piuttosto che di esclusioni e distanziamenti. La forza di tale intima chimerizzazione incarna la potenza di una reciproca partecipazione dei corpi con i corpi, della materia con la materia. Gli oggetti di queste antiche collezioni di cose prodigiose non fanno eccezione, e le relazioni di cui sono materica incarnazione pesano più dell’anima che gli manca, vanno ugualmente immobilizzati, classificati, estrapolati e scarnificati per essere ridotti a mera rappresentazione. Proprio come ad un mostro mitologico, è stato necessario costruirgli attorno un dedalo di percorsi e passaggi in grado di contenerne la forza, un labirinto capace di ostacolare e trattenerne le potenti linee di fuga, la carica bestiale e sovrannaturale. Ecco allora profilarsi una cornice, elevarsi un piedistallo, erigersi una bacheca, assemblarsi una cassettiera o un espositore.

Quello della wunderkammer è un altrove in cui il fascino dell’insolito, di ciò che si distanzia dal nostro ordinario e confortevole orizzonte culturale e cosmologico, ci spinge a mettere in discussione chi e che cosa siamo, ci costringe a ripensare il nostro rapporto con li non-umano. Spalancata la bocca per lo stupore il capo si ritrae all’indietro giusto il tempo perchè l’eccitazione scuota le viscere costringendo il corpo a protrarsi in avanti ficcando il naso nella curiosità, così che gli occhi possano finalmente, dopo aver visto, perdersi nella conoscenza.

 Benvenutə nella Wunderkammer – La Camera della Meraviglie.

Testi consigliati:

BARAD, KAREN. Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning. Duke University Press, 2007.