Pom Poko: una riflessione sull’agency animale nell’antropocene

Pom Poko: una riflessione sull’agency animale nell’antropocene

Nel film d’animazione “Pom Poko”, prodotto dallo Studio Ghibli, il regista Isao Takahata presenta una narrazione stimolante e originale che va oltre i confini di una visione antropocentrica del mondo. Lo spettatore è immerso nel punto di vista di una vivace comunità di tanuki, il cane procione giapponese (Nyctereutes viverrinus). Attraverso le lenti del pensiero ambientalista e antispecista, il film narra la lotta della comunità di tanuki contro la costante espansione dell’urbano e le conseguenti disconnessioni umane dalla natura e dalle sue forze.

Ambientato in Giappone alla fine degli anni ’60, la comunità di tanuki si trova minacciata dalla perdita del proprio habitat a causa del rapido sviluppo urbano nei sobborghi di Tokyo. Con il loro territorio sempre più ridotto di anno in anno, inizialmente la comunità si divide in lotte interne per le risorse e successivamente cerca di limitare la propria crescita demografica astenendosi dalla riproduzione. Infine, i tanuki giungono alla conclusione che la loro qualità di vita non può essere compromessa dall’ingiusta espansione umana. Desiderosi di preservare il proprio modo di vivere, i tanuki si impegnano strenuamente per proteggere la loro terra dall’avanzare dell’urbanizzazione. Sfruttando le loro abilità di trasformazione (in linea con la tradizione giapponese, i tanuki possiedono poteri di metamorfosi), essi intraprendono una serie di azioni di resistenza contro i progetti di costruzione

Sfruttando la loro capacità di trasformarsi in spiriti, cercano di spaventare gli operai edili nella speranza che gli umani riconoscano lo scontento degli spiriti della foresta causata della distruzione dell’habitat. I tanuki si trasformano così in veri attivisti che lottano per la loro esistenza e, di fronte alla mancanza di risultati delle loro azioni, passano a forme di resistenza più decise, sabotando, distruggendo attrezzature e persino ferendo operai. Tuttavia, nonostante gli sforzi, il processo di costruzione continua inarrestabile e i tanuki, ormai allo stremo, cercano aiuto presso un’altra comunità di cani procione. Quest’ultima comunità prospera ancora grazie al rispetto e alla reverenza dei loro vicini umani verso gli spiriti della natura, manifestati attraverso le forme che i tanuki assumono ritualmente. Con il sostegno degli anziani di quest’altra comunità, i tanuki si trasformano in spiriti e organizzano una sontuosa parata in città: un ultimo tentativo per richiamare l’attenzione sulle potenti forze vitali della natura.

Senza dubbio, pensano i tanuki, questo farà comprendere agli umani che le loro azioni stanno danneggiando gli ecosistemi e li porterà a prendere coscienza dei propri errori. Tuttavia, gli abitanti di Tokyo si differenziano nettamente da quelli delle aree rurali da cui provengono gli anziani tanuki. Questi cittadini sono completamente estraniati e indifferenti alla natura e ai suoi spiriti, e assistono allo spettacolo come se fosse una finzione. Un parco divertimenti locale non lascia passare l’occasione per rivendicare il merito di tale evento, mettendo così fine a qualsiasi dubbio sulla natura del fenomeno.

I tanuki hanno fallito. Le costruzioni non si fermeranno.

Senza altre alternative, i trasformisti più esperti utilizzano i loro poteri per assumere le sembianze umane, mentre coloro che non possono trasformarsi rimangono nella loro forma di tanuki. I trasformati cercano di mimetizzarsi il più possibile da umani, adottando le loro consuetudini, lavorando e cercando di integrarsi tra gli altri umani, ma a scapito di un costante affaticamento e di evidenti occhiaie. Quando sono troppo esausti, i trasformati rischiano di tornare alla loro forma di tanuki e per evitarlo devono ricorrere a caffeina e bevande energetiche, l’unico modo per tenere il passo con il ritmo di vita umano.

I tanuki che non possono trasformarsi in umani sono anch’essi costretti a vivere nella nuova area urbana, affrontando le difficoltà di esistere in un ambiente antropogenico, esposti a roadkilling e a innumerevoli altre incertezze. La storia si conclude con uno dei protagonisti, ora divenuto umano, che tornando dal lavoro avvista un gruppo di tanuki non trasformati giocare in un parco. In un gesto di spontanea gioia, abbandona momentaneamente la sua forma umana per unirsi ai suoi compagni e trascorrere una serata meravigliosa  con loro.

I tanuki che non possono trasformarsi in umani vivono anchessi nella nuova area urbana, affrontando le difficoltà di esistere in un ambiente antropogenico, incorrendo a roadkills e in innumerevli altri pericoli ed incertezze. La storia si conclude con uno dei protagonisti, ora umano, che torna dal lavoro e vede un gruppo di tanuki non trasformati giocare sull’erba in un parco. In un balzo di gioia, abbandona la sua forma umana per unirsi ai suoi compagni e divertirsi con loro per l’arco di una magnifica serata.

Agency animale in un mondo antropico:

L’animazione di Isao Takahata ha moltissime linee di analisi di cui qui ho deciso di non occuparmi. Tra le evidenti, il film rappresenta la perdita di connessione con la natura a causa dell’alienazione causata dallo stile di vita cittadino. Mentre gli umani prioritizzano la crescita economica e lo sviluppo tecnologico, trascurano l’interconnessione tra loro e il mondo naturale che una volta esisteva. L’antropocentrismo regna supremo, relegando gli esseri non umani ai margini della considerazione. La lotta tra antropocentrismo ed ecocentrismo, tra forze vitali e dominio umano sulla natura, è un tema comune nei film dello Studio Ghibli, come possiamo vedere in Nausicaä della Valle del Vento o nel La Principessa Mononoke.

Tuttavia, a mio parere, la caratteristica più originale di questo film è il suo meraviglioso focus sulla rivoluzione, sull’agency e la sulla resistenza degli animali in un mondo che costantemente li opprime. Infatti, lo sviluppo della storia stessa è resa possibile dall’agency che i tanuki reclamano. L’agency degli animali non umani è qualcosa che facilmente dimentichiamo, come mostrato in Pom Poko. Gli abitanti della città sono così disconnessi dalla natura, così dimentichi delle sue voci e manifestazioni, che non possono concepire che gli spiriti che spaventano gli operai edili e, successivamente, la parata degli spiriti, siano modi con cui il mondo naturale, attraverso i tanuki, parla loro.

Il film ci ricorda che il primo passo per permettere l’oppressione continua di una minoranza è silenziarli, negare le loro voci e dunque non rispondere alle loro rivendicazioni. Questo è esattamente ciò che accade quando gli umani ignorano le performance di trasformismo dei tanuki, anche se il loro significato è evidente per le persone più “superstiziose”. Nelle filosofie umaniste, l’agency del mondo non umano è vista come una fabbricazione di menti superstiziose e non scientifiche. Anche dopo aver avuto innumerevoli prove scientifiche che mostrano chiaramente le capacità cognitive delle menti animali, l’atteggiamento generale nei confronti dell’agency non umana è al massimo scettico. Assordati e accecati dall’antropocentrismo, non importa quante modifiche comportamentali gli animali selvatici facciano per segnalare il loro disagio, chiedendo attenzione a fronte dell’oppressione umana, la maggior parte del mondo è restia a fare spazio a coloro che pensano non avere una voce, e quindi una rivendicazione. Per la maggior parte della fauna selvatica, resistere senza essere assorbiti dalle attività umane è impossibile, e il film, a differenza delle altre produzioni dello Studio Ghibli, non ha un lieto fine. Gli habitat vengono distrutti ogni giorno, e gli animali selvatici vengono costretti nelle aree urbane. Quale tipo di vita offre la città alla fauna?

Nelle filosofie postumaniste, si compie uno sforzo significativo per capire come poter trasformare pragmaticamente le città per ospitare molteplici interessi e corpi, compresi quelli non umani. Esplorare come progettare città che possano migliorare la vita degli altri animali è una domanda che il film ci lascia, partendo dal fatto che ormai la distruzione degli habitat è ormai avvenuta. In Pom Poko, il tema delle città come geografie di oppressione per altri animali (sia quelli che lottano per sopravvivere sia quelli che prosperano troppo bene e quindi sono considerati parassiti) è chiaramente rappresentato attraverso la distruzione dell’habitat dei tanuki, la loro rimozione e i pericoli affrontati dai non-trasformati, come le roadkill. Nella scena finale, quando il protagonista tanuki-umano incontra di nuovo i suoi simili non trasformati, un cane procione chiede al tanuki-umano di convincere gli altri cittadini a creare un migliore habitat in città per gli animali che non possono trasformarsi. I trasformisti sono l’unico ponte che può comunicare il messaggio al resto della città, poiché gli umani accettano solo messaggi consegnati attraverso la propria voce umana. L’agency dei tanuki è anche evidente qui, attraverso il ruolo di messaggero del trasformista. Se parlerà con gli umani, è perché i tanuki lo hanno chiamato a farlo. (Ti ricordi, nelle tue scelte quotidiane, nel tuo attivismo, nella tua scrittura, che stai facendo queste cose perché l’agency di qualcun*, la voce di qualcun*, ti ha chiamat*?) Attraverso i loro sforzi collettivi, la comunità di tanuki sfida l’egemonia del dominio umano e afferma il loro diritto ad esistere in due momenti: prima, al di fuori delle aree umane, e poi, all’interno delle geografie antropiche a loro forzate. Le vite dei tanuki non saranno mai assimilate; infatti, neanche quelli in grado di trasformarsi vivono veramente come umani. A mio parere, una delle riflessioni fondamentali di questo film è la costtazione che gli animali non umani combattono ogni giorno per la loro esistenza, per una vita che, anche quando soffocata e uccisa dalle geografie urbane, si rifiuta di rinunciare a cercare di prosperare. I tanuki continuano a formare comunità, giocare, accoppiarsi e creare nuovi modi di vita. Nelle scene finali, la contrapposizione tra il tanuki morto per un incidente stradale e la danza gioiosa dei cani procione in un parco è emblematica del mondo che la fauna deve abitare. Essa dimora nell’ambivalenza di un’esperienza di vita condivisa da molte comunità rese minoritarie: respirano in una società non respirabile, corrono attraverso strade di morte, sono forzatamente rimossi dalle loro case e costretti a costruirne di nuove.

Alla fine del film, la comunità di tanuki viene violentemente catapultata nel mondo urbano senza possibilità di scelta. Tuttavia, non vengono mai assorbiti da esso; non perdono la propria identità potente solamente nel ruolo di vittime, ma affermano piuttosto l’agenzia delle proprie vite, un’agenzia spesso espressa proprio perché le loro vite sono negate. I tanuki continuano a creare gioia in mezzo alla morte e allo spostamento.

Questo film ci ricorda che tutti gli animali non umani hanno ancora la possibilità di prosperare, di creare il proprio futuro e le loro storie personali, e ci offre un ultimo appello all’azione basato su questa consapevolezza. Da un punto di vista post-umanista, le città e le aree urbane sono sempre geografie in cui gli animali non umani sono presenti. Non solo formano le proprie comunità, ma contribuiscono attivamente all’emergere di molteplici modi di navigare i nostri spazi condivisi. Partecipano a controculture umane in corso e la loro esistenza ci interpella e suscita profonde domande su cosa significhi vivere bene insieme. Essi illustrano la relazione tra colonizzatore e colonizzato, tra comunità oppresse e le strutture alienanti del potere e della biopolitica.  Pom Poko è un appello struggente ad ascoltare le richieste di coloro che non possono rinunciare alla vita, perché creare nuovi spazi di esistenza è l’unico ricorso quando si è oppressi dalla morte. Fermare questa oppressione è il nostro dovere. Rispondere alla loro voce sottolinea il riconoscimento della loro agency, il che ci richiede di smantellare l’umanesimo e l’antropocentrismo. Pom Poko ci chiede di abbracciare una posizione post-umanista nei confronti dei tanuki e della natura nel suo complesso.

Ripensando allo Scarafaggio: un’ Incarnazione Postumana ed Ecofemminista di Liberazione

Ripensando allo Scarafaggio: un’ Incarnazione Postumana ed Ecofemminista di Liberazione

Tra Cataclismi e Adattabilità

Nel considerare le possibilità delle comunità multispecie postumane, desidero spostare la nostra attenzione da creature maestose come il cervo, il leone o l’orso, così come dagli animali domestici familiari. Preferisco entrare in dialogo su una specie spesso accolta con apprensione: lo scarafaggio. La resistenza degli scarafaggi attraverso eventi di estinzione di massa, come quelli che segnano la conclusione del periodo del Permiano e dell’era del Paleozoico circa 245 milioni di anni fa, sottolinea l’affascinante storia evolutiva di questi insetti. Appena il cinque percento delle specie ha sopravvissuto a questi due cataclismi, facendo dello scarafaggio una specie che a lungo ha accompagnato la vita sulla Terra. Le epoche successive hanno riconfermato la tenacia dello scarafaggio nel sopravvivere a estinzioni, comprese quelle del tardo Triassico (208 milioni di anni fa), Giurassico (144 milioni di anni fa), l’evento ‘K-T’ dei dinosauri, il tardo Eocene (37 milioni di anni fa) e il Pleistocene (circa 10.000 anni fa). Sebbene i dati sulla distribuzione delle specie lo smentiscano, gli scarafaggi sono diventati nel nostro immaginario una specie strettamente legata agli ambienti urbani moderni. Tuttavia, sappiamo che diverse specie di scarafaggi sono legate a habitat specifici, che vanno dall’interno del bambù alle zone umide al di sotto delle cascate, ai nidi di formiche e termiti, alle grotte dei pipistrelli, alle tane di animali (compresi quelle umane!) e persino alle miniere. Globalmente, esistono circa 4.500 specie di scarafaggi, molte delle quali in pericolo di estinzione. Nonostante il gran numero di queste specie, solamente 26 di esse sono incluse nell’elenco IUCN e per nessuna di loro se ne conoscono le dinamiche di popolazione. Gli artropodi attualmente costituiscono oltre il novanta percento delle specie animali esistenti. Ignorare la narrazione storica di queste specie perpetua una visione ristretta della vita planetaria, favorendo l’erronea idea che l’evoluzione si sviluppi invariabilmente lungo una traiettoria predeterminata che culmina nella vita umana. Un’analisi approfondita della cronaca degli scarafaggi sarebbe affascinante e la loro testimonianza offrirebbe un punto di vista unico, fornendo preziose intuizioni sulle comunità multispecie di cui sono stati parte. Oltre ad aver associato questi animali alla sola città, essi sono anche ritenuti sporchi. Gli scarafaggi non sono però intrinsecamente sporchi, ma possono diffondere germi in un ambiente già contaminato. Le allergie o le malattie associate agli scarafaggi derivano dalla loro residenza in ambienti inquinati. Come decompositori naturali, essi contribuiscono alla fertilizzazione del suolo e al riciclo di foglie morte e rifiuti verdi, estendendo la loro rilevanza ecologica persino nei paesaggi urbani. Riconoscere il loro ruolo poliedrico nella gestione dei rifiuti invita a riflettere sulla vita che questi insetti conducono negli ecosistemi dominati dall’uomo, vita che, dal nostro sguardo antropocentrico, viene ridotta violentemente al ruolo di “peste”.

Esistenze ai margini

Una ricognizione critica nella storia della tassonomia e delle scienze naturali rivela come l’osservazione e lo studio delle vite, umane e non, sia intrinsecamente legati a giudizi morali, estetici e, più ampiamente, a una prospettiva antropocentrica e gerarchica. La classificazione delle forme di vita spesso si fondava su criteri come l’edibilità, la docilità e l’utilità. Un’altra categorizzazione si focalizzava su giudizi estetici, basati su una valutazione soggettiva dell’appeal visivo. Specie quali scimmie, rane, ratti, rettili, insetti e anfibi risultavano spesso condannate a essere percepite come dotate di un aspetto ridicolo e ripugnante. La repulsione verso rettili, insetti e anfibi raggiunse un culmine significativo alla fine del XVIII secolo e ancora oggi specie in grado di evocare repulsione o carenti di “carisma” si trovavano frequentemente sottoposte a marginalizzazione, un fenomeno opportunamente denominato “chauvinismo tassonomico”. Questa marginalizzazione si evidenzia sia nelle iniziative di conservazione che nel dibattito pubblico sull’impegno per la biodiversità. Fondamentalmente, essa riflette un pregiudizio secondo cui alcune specie, giudicate poco attraenti o sgradevoli secondo gli standard umani, vengono trascurate o sottovalutate sia negli sforzi volti alla conservazione sia nelle narrazioni più ampie destinate a coinvolgere il pubblico. Tale pregiudizio può generare uno squilibrio nelle priorità di conservazione e ostacolare la comprensione più ampia dei complessi ruoli che queste specie meno carismatiche o repulsive svolgono negli ecosistemi. Prospettive antropologiche contemporanee avanzano l’ipotesi che il diffuso pregiudizio contro creature come gli scarafaggi possa essere attribuito al loro status percepito come estremamente “diverso da noi”, caratterizzato come una “deformità” che provoca disgusto e apprensione. Questa inclinazione trova ancora riscontro storico nel movimento romantico del XIX secolo, nonostante la sua generale difesa del mondo naturale. I romantici, pur elogiando la natura, la concepivano ancora come uno specchio dell’umore e delle emozioni umane. In contrasto con l’ammirazione riservata a scarabei e farfalle per la loro vibrante diversità di forme e colori, lo studio degli scarafaggi è storicamente alimentato dall’avversione umana. La maggior parte delle ricerche dedicate agli scarafaggi è stata orientata allo sviluppo di metodologie più efficaci per la loro eliminazione.

Il pregiudizio nei confronti di questi insetti si palesa anche nel linguaggio.

Utilizzare l’appellativo “scarafaggio” per descrivere un individuo comporta il sottinteso di attribuirgli la posizione più bassa nella scala sociale e suggerisce una dispensabilità che ne permette l’eliminazione senza alcun senso di rimorso. Questo linguaggio dispregiativo è spesso rivolto alle minoranze etniche e agli individui provenienti da altre nazioni, raffigurandoli come parassiti da dover gestire ed eradicare. Tali espressioni linguistiche non solo riflettono atteggiamenti discriminatori, ma contribuiscono a rinforzare la marginalizzazione e l’oggettificazione di specifici gruppi sociali, al contempo perpetuando stereotipi e pregiudizi nei confronti degli scarafaggi.

Nelle rappresentazioni letterarie, emergono chiare analogie tra gli esseri umani e gli scarafaggi. Questo tema ricorrente, che affonda le sue radici almeno nella Grecia Classica, evidenzia il ruolo prominente a loro assegnato. Essi non sono solo i protagonisti di narrazioni individuali, ma simboleggiano in modo emblematico le lotte dei vulnerabili, degli oppressi e di coloro relegati ai margini, individui costretti a sopportare sotto la superficie, tra i buchi e le crepe. Nel contesto della letteratura latinoamericana, gli scarafaggi emergono frequentemente come figure simboliche strettamente legate alle esperienze della comunità. In questo contesto, il poeta portoricano Pedro Pietri, nel suo lavoro ‘Suicide Note from a Cockroach in a Low-Income Housing Development’, attribuisce al suo narratore scarafaggio un monologo toccante. Il protagonista riflette sulle difficoltà patite nella sua esistenza povera e marginalizzata, una condizione in cui si ritrovano gli esseri umani confinati nelle slum. L’incontro giornaliero tra i corpi umani e i corpi degli scarafaggi nelle slum risulta in una comprensione della condizione di oggettificazione che unisce le vite umane e non umane, creando un potente dispositivo narrativo e gettando luce sulle lotte condivise indipendentemente dalle specie. Ricordo che lo specismo si trova alla base del processo di deumanizzazione, permettendo l’oggettificazione affrontata dalle minoranze umane. Entrambe le discriminazioni comportano la marginalizzazione di gruppi specifici, concedendo loro una considerazione morale inferiore basata su criteri arbitrari.

Intraprendere un dialogo con lo scarafaggio ci permette inoltre di individuare una risonanza simbolica con l’ecofemminismo e le filosofie postumane.

 

CATHERINE CHALMERS – FLOATING CORPSES, from AMERICAN COCKROACH, EXECUTIONS.

 

Scarafaggi ecofemministi

Lo scarafaggio non è soltanto intrecciato, sia materialmente che metaforicamente, con i marginalizzati della società. Esso occupa anche un profondo regno di forze ctonie e vitali, incarnando sia la luce che l’oscurità sfidando le dicotomie occidentali. Gli entomologi culturali hanno osservato che, nella mitologia nativa americana, in particolare quella delle regioni tropicali, gli scarafaggi, insieme ad altri insetti, assumono ruoli spesso cosmologici. Nella tradizione Navajo, per esempio, simboleggiano le origini primordiali della vita. Da un punto di vista biologico e anche mitologico, questi insetti emergono come i nostri antenati e offrono uno sguardo su un mondo quasi dimenticato, una dimensione in cui la nostra connessione con la natura e altre specie trova le sue radici. Nella letteratura moderna, si trova un celebre esempio di scarafaggio nelle “Metamorfosi” di Kafka. Walter Benjamin e il traduttore di Kafka, Jay Neugreshel, tra gli altri, sostengono che Kafka volesse che il suo pubblico percepisse i suoi numerosi personaggi animali, incluso lo scarafaggio, esattamente in quanto tali. Affermano che Kafka avesse l’intenzione di instillare nei suoi lettori una connessione mentale ed empatica verso i personaggi non umani. Accogliere questa interpretazione implica esplorare la storia di Gregor Samsa andando oltre la critica dell’alienazione capitalista. Essa si sviluppa in una contemplazione postumana, un’indagine sulla vita dello scarafaggio stesso e sulla nostra intricata relazione con questo insetto. In un contesto postumano, quale ruolo possono assumere soggetti definiti “parassiti”? Comprendere la presenza degli scarafaggi nelle nostre vite e riconoscere la loro prospettiva nella comunità multispecie richiede un profondo cambio di paradigma. Questa prospettiva sfida la categorizzazione antropocentrica del mondo, che separa i corpi, stabilisce gerarchie e crea “altri” sfruttabili. La narrazione di Gregor si sviluppa nel tessuto del realismo magico, un genere letterario in cui, come afferma Matthew Strecher, “un ambiente altamente dettagliato e realistico è invaso da qualcosa di troppo strano per essere creduto”. Nel pensiero antropocentrico, gli scarafaggi s’introducono come una soglia tra il conosciuto e l’ignoto, tra il reale e il mostruoso, tra il comune e il sotterraneo. Mentre il realismo si rivela come la mera proiezione del nostro limitato punto di vista antropocentrico sul mondo, imprigionandoci in una realtà oggettificata e oggettificante, gli scarafaggi emergono come il pensiero e i corpi dell’altro, sorprendendoci con una frattura che amplia gli orizzonti. Questa frattura non è che un’espansione di esistenze e temporalità, un riconoscimento che puó generare terrore e che in passato avremmo certamente etichettato come “magico”. Gli scarafaggi rappresentano un regno così alieno da resistere all’assimilazione nella nostra comprensione utilitaristica delle altre specie. Mentre gli scarafaggi si muovono attraverso le fessure di un paradigma antropocentrico, non solo lo mettono in discussione, ma intagliano anche territori liminali da queste stesse crepe. Questi spazi trascendono le semplici superfici fisiche; diventano luoghi dove entità non umane e corpi e menti non normabili rivendicano la loro esistenza in presenti e futuri collettivi. In questi spazi gli scarafaggi ci esortano a riconoscere l’inquietante, lo strano e l’indomato come elementi fondamentali che conferiscono alla vita, così come la conosciamo, la sua profonda ricchezza e complessità. Senza questi aspetti il mondo che abitiamo perderebbe l’essenza stessa che lo fa prosperare. Nelle narrazioni ecofemministe, lo scarafaggio emerge come non solo un simbolo di inarrestabile resilienza, ma anche un vettore di energie ctoniche – un ambasciatore proveniente dai regni sotterranei che audacemente sfida il nostro sguardo. L’insetto racchiude l’analisi di Donna Haraway sul Cthulhucene e la sua evocazione di forze profonde, invitandoci ad abbracciare l’autonomia della vita che pulsa sotto la superficie e resiste al nostro controllo. Incorporando il simbolismo dello scarafaggio nell’ambito dell’ecofemminismo e del postumanesimo, abbracciamo con determinazione una prospettiva ecocentrica radicale che riconosce la natura come composta da soggetti e forze intrinsecamente dotate di agency, esistenti indipendentemente dalle nostre preferenze e del racconto umano sulla vita. Nel suo influente lavoro ‘A Cyborg Manifesto’, Haraway abbraccia la figura del cyborg come metafora per superare categorie fisse. Il cyborg è un’entità mostruosa che sfuma le distinzioni tra umano e macchina, natura e cultura. Haraway vede il mostruoso non come qualcosa da temere, ma come un potente simbolo di resistenza e sovversione. Il cyborg, come figura mostruosa, disturba le nozioni convenzionali di identità e sfida le strutture oppressive. Esso diventa un simbolo di potenziamento e liberazione, specialmente per i gruppi emarginati, poiché incarna un rifiuto di conformarsi. Attraverso queste lenti, possiamo vedere che lo scarafaggio è una specie che chiama visceralmente riflessioni analoghe a quelle esposte da Haraway. Gli scarafaggi sono, sia materialmente che metaforicamente, corpi e presenze mostruose nello spazio antropocentrico delle nostre menti. Sono gli estremi “altri” che occupano spazi e si ribellano, sono l’archetipo della “peste” e dell’indesiderato, dell’incompreso e del marginalizzato. Sono i corpi umani e non umani, le entità e le forze naturali di cui ci siamo serviti per realizzare un progetto di mondo antropocentrico e colonialista. Essi sono anche incredibili manifestazioni del tempo geologico profondo e della storia multispecie attraverso la vita e l’estinzione, incarnazioni di orizzonti postumani. Emergendo dalle crepe, sono profondamente collegati con forze ctoniche e rappresentano una natura vibrante e pulsante che sfugge alla gestione e categorizzazione umana. Nel contesto letterario del discorso femminista, Angela Carter, attraverso le sue avvincenti narrazioni in ‘La camera del sangue’, ridefinisce il femminile mostruoso come una forza emancipatrice. I racconti di Carter reinventano fiabe tradizionali, presentando figure femminili mostruose che sfidano le norme sociali e i ruoli di genere convenzionali. Queste figure diventano agenti di trasformazione e liberazione. Proprio come l’esplorazione letteraria di Carter del mostruoso come forza di sfida contro i vincoli patriarcali, lo scarafaggio emerge come una forza ctonia che sfida il controllo umano. Il mostruoso di Carter trova riscontro nelle qualità sovversive dello scarafaggio, incarnando sia il rifiuto di sottomissione che la forza di nascondersi e emergere dalle crepe per aprire le possibilità di un mondo radicalmente differente. Nella danza tra il mostruoso e il ctonico, si svela una narrazione di liberazione che invitandoci ad abbracciare il potenziale trasformativo dello scarafaggio.

CATHERINE CHALMERS. ELMO from AMERICAN COCKROACH, RESIDENTS.

Agenti semiotici, pazienti morali?

Agenti semiotici, pazienti morali?

Nell’articolo precedente (per leggerlo: www.filosofiapostumanista.it/2023/10/23/agenti-semiotici-pazienti-morali/) abbiamo visto perchè e come il concetto di agente semiotico possa essere utilizzato per determinare l’estensione della comunità morale: chi è un agente semiotico deve essere rispettato e quindi trattato moralmente. Ogni agente semiotico è un paziente morale. In questa sede, invece, vedremo se c’è un collegamento tra il concetto di agente semiotico e quello di agente morale, ossia se ogni agente semiotico, per essere paziente morale, deve anche essere un agente morale.

Come abbiamo visto, noi esseri umani siamo agenti morali, cioè siamo in grado di formulare certi principi etici e modellare la nostra condotta in accordo con essi. Agire moralmente implica molte restrizioni: rispettare l’altro e trattarlo in maniera etica significa non potersi comportare a piacimento, ma rispettare certi principi, limitandosi. Per esempio, potenzialmente potremmo uccidere, far soffrire senza motivo o derubare un altro ma, se egli è membro della nostra comunità morale, queste azioni sono moralmente scorrette, punibili e da evitare.

Una modalità molto diffusa e intuitiva per spiegare perchè è necessario limitarsi nei confronti del prossimo è ricorrere al concetto di reciprocità. Secondo questa tesi, un soggetto si autolimita solo nei confronti di coloro che possono fare altrettanto e i principi etici nascono grazie ad un accordo in grado di garantire il rispetto reciproco tra tutti coloro che ne prendono parte: tutti si limitano nei confronti di tutti, tutti si proteggono e rispettano reciprocamente.

Questo tipo di teoria etica è definita ‘contrattualismo morale’ e, sebbene diversi suoi sostenitori la riformulino in molteplici varianti, è possibile riassumere il suo nucleo con l’idea per cui i principi nascono da un contratto e un accordo reciproco tra pari. In questo modo, agenti morali e pazienti morali coincidono: ad essere protetti (e rispettati) sono tutti coloro che ‘firmano il contratto’ e che quindi si impegnano al contempo ad agire moralmente nei confronti degli altri firmatari. Si è pazienti morali, quindi, fintanto che è possibile comprendere i termini di questo contratto e avere coscienza tanto dei propri diritti quanto dei propri doveri.

Per fare in modo che i principi sanciti dal contratti siano equi, cioè non favoriscano gli interessi di una parte più o meno estesa dei firmatari, il filosofo statunitense John Rawls (1921-2002) immagina che essi vengano scelti da una società posta in una ‘posizione originaria’ (uno stato di natura non ancora organizzato e istituzionalizzato, dove tutti i soggetti sono eguali) caratterizzata da un ‘velo di ignoranza’ che fa sì che nessuno sappia che ruolo sociale rivestirà dopo l’entrata in vigore del contratto. Questo garantisce la scelta di principi equi, in grado di rispettare ognuno a prescindere da ruolo e posizione sociale, senza favorire interessi specifici.

Formulata così, la teoria contrattualista pone la razionalità come requisito fondamentale per essere agente e paziente morale: ad essere protetti e rispettati sono coloro che possono comprendere il contratto, impegnarsi a rispettare l’altro e quindi che hanno un certo grado di consapevolezza di sé, delle proprie azioni e degli altri. Questo significa che non solo vengono esclusi gli animali, ma anche gli esseri umani con problemi mentali, disturbi di apprendimento e i neonati. Quest’ultima esclusione, però, presenta diverse problematiche ed è contraria al senso comune, che invece generalmente accorda una rilevanza morale agli esseri umani ‘non razionali’. Una delle modalità per farli rientrare nella comunità morale è considerare questi uomini alla luce del canone di specie: la loro carenza di razionalità rappresenta un deficit rispetto alla normalità, un danno prodotto dal caso che non giustifica la loro degradazione a esseri moralmente irrilevanti. In quanto fondamentalmente esseri umani devono comunque essere rispettati.

Per gli animali, invece, la situazione è più complessa. Rimanendo nel framework del contrattualismo, essi possono entrare nella comunità morale solo in un secondo momento e per via indiretta, cioè facendo riferimento a ragioni di stabilità sociale o all’idea per cui chi fa del male agli animali è più disposto a farne anche agli uomini. Qualunque ragione venga apportata a sostegno di questa modalità indiretta di considerare gli animali come pazienti morali non mi soddisfa perchè significa negare che essi abbiano una rilevanza in sé. Credo sia necessaria, invece, una teoria che assegni direttamente valore morale agli animali.

Un’altra strada è quella percorsa da Tom Regan, filosofo americano (1938-2017) sostenitore di una teoria dei diritti degli animali. Nonostante sia contrario al contrattualismo ne elabora una versione in grado di estendere la moralità agli animali per via diretta. Egli ritiene che si possa immaginare una posizione originaria all’interno della quale il velo di ignoranza celi anche l’appartenenza di specie. Non sapendo, una volta sollevato il velo, in che essere vivente ci si ‘incarnerà’, verranno scelti principi equi intraspecifici, ossia principi che non rispecchino gli interessi umani e che siano in grado di proteggere e tutelare gli individui a prescindere dalla specie di appartenenza (Allegri, 2015, pp. 111-112).

Attività di immaginazione bellissima ma a mio avviso si tratta più di un esercizio retorico e astratto che di un’alternativa praticabile in modo significativo. Nella vita di tutti i giorni facciamo estrema difficoltà a prendere in considerazione come persone con disabilità vivono i nostri spazi, quali siano i loro interessi e bisogni. Non per forza per egoismo, ma perchè c’è un limite alla nostra esperienza dato ‘semplicemente’ dal nostro essere ciò che sì è: un uomo normo dotato ha un’esperienza del mondo che non è quella del disabile e alla quale non può realmente e direttamente accedere. Questo non significa, però, che nel formulare principi sociali, politici, morali, si debba sempre e solo proteggere i propri interessi nascondendosi dietro ‘eh ma io non lo posso capire’. Possiamo comprendere l’altro, ma sempre dal nostro punto di vista, cioè in maniera limitata. Con gli esseri umani è più semplice: immaginarci disabili è possibile, possiamo comprendere com’è l’esperienza di un disabile in maniera più intuitiva e veritiera rispetto a quanto possiamo farlo con l’esperienza di un altro animale. Questo perchè apparteniamo alla stessa specie, abbiamo le stesse coordinate generali di esperienza, gli stessi bisogni e interessi fondamentali. L’esercizio di immaginazione è più difficile da applicare quando l’altro appartiene ad un’altra specie, ma non è impossibile: siamo comunque tutti animali (e ciò significa che certi bisogni ci accomunano) e la conoscenze etologiche, biologiche e fisiologiche possono fornire gli strumenti adatti a comprendere più a fondo l’altro animale.

Il problema principale, però, è un altro ed è il cuore stesso delle teorie contrattualistiche: la reciprocità. È davvero necessario che un individuo, per essere paziente morale, debba anche essere agente morale? Potremmo comunque avere principi restrittivi nei confronti di qualcuno che non può ricambiarci il favore?

Una critica che a parer mio coglie nel segno è quella formulata da James Rachels nel testo “Creati dagli animali”. Il filosofo americano nota come ciò che dalle teorie contrattualistiche emerge come requisito per essere sia agente che paziente morale, in verità rappresenta solo le condizioni affinchè un individuo sia solo agente morale. Per poter agire moralmente è necessario avere un certo grado di razionalità: bisogna saper comprendere cosa siano e quali siano i propri diritti e doveri e quali azioni rappresentino un danno per le altre esistenze. Questi, però, non sono caratteri rilevanti per essere un paziente morale.

Si pensi alla sofferenza: manganellare un cane è sbagliato non perchè quest’ultimo è razionale, cioè, per esempio, in grado di comprendere il danno subito, ma perchè il cane è un essere sensibile e in grado di provare dolore. La razionalità è necessaria solo all’agente morale per comprendere chi ha di fronte, quali suoi gesti possono urtare l’altro, per stabilire e poi seguire principi etici, per ritenersi responsabile (ecc.). Ma non è la presenza di razionalità nel cane a rendere la manganellata moralmente scorretta nei suoi confronti: è il fatto che quel gesto lo urta, provocando dolore. Alla base c’è la capacità del cane di soffrire: questo lo rende, in questo caso, un paziente morale. Dico in questo caso perchè, come Rachels stesso nota, le caratteristiche moralmente rilevanti di un essere sono differenti, a seconda del trattamento in questione. Isolare un elefante in una gabbia, per esempio, è sbagliato perchè lede un bisogno fondamentale di socialità. Certo, produce sofferenza, ma non solo quella fisica dell’esempio della manganellata. Lo stesso isolamento potrebbe non essere moralmente scorretto per un animale solitario e non gregario, che non ha bisogno di relazioni sociali stabili e durature. Esseri viventi differenti hanno caratteristiche diverse e questo fa sì che i trattamenti giusti e sbagliati si diversifichino, a seconda dell’impatto che hanno su tali caratteristiche.

La razionalità potrebbe rientrare tra i caratteri moralmente rilevanti ma non è la sola e non può essere utilizzata come unico attributo per qualificare un essere come paziente morale. A farlo sono piuttosto una serie di caratteri quali la sensibilità, il possesso di una vita autonoma che segue una propria traiettoria, che intesse relazioni significative e vitali con l’ambiente circostante. Tutti caratteri compresi nel concetto di ‘agente semiotico’. Per questo motivo credo che quest’ultimo sia il candidato ideale per delineare l’estensione della comunità morale e una volta fatta questa operazione, consenta anche di prestare attenzione a come ciascun individuo declini il suo essere un agente semiotico (in maniera tanto singolare quanto specie-specifica), a quali caratteristiche siano moralmente rilevanti per il tipo di trattamento specifico, e permetta di comprendere come egli debba essere trattato.

Ritornando ancora al contrattualismo, ci sono altre obiezioni che possono essere mosse all’idea per cui il cardine della moralità sia la reciprocità. La prima è che non possiamo aspettare che l’altro rispetti noi per fare altrettanto: si entrerebbe in un loop in cui nessuno mai inizia a comportarsi moralmente per paura che l’altro non faccia lo stesso. Una situazione di paralisi. Questo si lega al secondo aspetto: che un essere vivente sia in grado di comprendere che le sue azioni hanno il potenziale di urtare un altro soggetto, cioè che abbia coscienza di sé come agente morale, è sufficiente affichè egli si interroghi sulla moralità delle proprie azioni e agisca di conseguenza. Non ha bisogno della conferma che anche l’altro si preoccupi in tal modo. La responsabilità è prettamente individuale: le azioni compiute da un soggetto sono particolari, uniche, avvengono in situazioni e contesti spazio-temporali irripetibili e dunque possono essere compiute solo da quel particolare soggetto. Esse, perciò, sono imputabili soltanto a lui. Ognuno, dunque, avendo compreso il potenziale del proprio agire, deve ritenersi il primo responsabile ed agire di conseguenza, indipendentemente dal fatto che gli altri soggetti facciano altrettanto.

Certo, rimane la possibilità di giudicare un altro agente morale che non si fa carico di questa responsabilità, ma non credo sia possibile trovare nell’irresponsabilità altrui una giustificazione per la propria. Per lo stesso motivo trovo insensato biasimare il leone perchè uccide una gazzella e affermare che, dal momento che gli animali non seguono principi morali, noi non dovremmo seguirne nei loro confronti.

Noi esseri umani siamo in grado di formulare principi etici? Sì.

Comprendiamo di avere certe responsabilità, obblighi e doveri? Sì.

Se si concorda sul fatto che anche gli animali possono esseri lesi dal nostro agire, non possiamo tirarci indietro dalle nostre responsabilità nei loro confronti.

Ultimo aspetto che vorrei trattare è la possibilità che gli animali facciano del male all’essere umano. È vero, è possibile, allo stesso modo in cui ci si uccide tra esseri umani stessi. È indubbio, però, che l’influenza umana su di loro è enorme e la quantità di sofferenza che l’essere umano infligge è spropositata (e anche bel celata, se si pensa alla distanza dalle nostre vite e all’impenetrabilità di laboratori, allevamenti industriali e macelli). Non li colpiamo solo direttamente (uccidendoli, testando su di loro prodotti chimici, per esempio), ma anche indirettamente, con azioni che sono in grado di impattare sulle condizioni di vita sulla Terra. Mi riferisco all’inquinamento delle acque e dei suoli, all’emissione di anidride carbonica, alla deforestazione. È necessario tenere a mente che queste non sono dinamiche ‘più grandi del singolo’, o meglio, in un certo senso lo sono perchè non è nessuna singola azione a provocarle. Però esse sono il risultato di numerosissime azioni di singoli individui. Ognuno di noi ha la possibilità di agire in senso opposto, di fare qualcosa il cui impatto non sarà di certo visibile ma se unito ad una moltitudine di altra azioni può fare la differenza. Se un insieme di azioni individuali ha questi effetti devastanti sul pianeta, solo un insieme di azioni individuali può cambiare la rotta.

La responsabilità umana è enorme, l’impatto che le azioni di ognuno di noi possono produrre ha scala grandissima. Partiamo da qua: dal ripensarci come esseri inseriti nell’ambiente tra altri esseri viventi, e ripartiamo ripensando a cosa il nostro agire produce in questo ecosistema condiviso che è la Terra.

RIFERIMENTI:

Adams Carol J., Alice Crary, Lori Gruen, The Good It Promises, the Harm It Does : Critical Essays on Effective Altruism. Oxford University Press, New York, 2023.

Allegri Francesco, Gli animali e l’etica, Mimesis, Milano, 2015.

Franklin Julian H., Animal Rights and Moral Philosophy, Columbia University Press, New York, 2005.

Kahane Howard, Contract Ethics : Evolutionary Biology and the Moral Sentiments. Lanham, Md. ; Rowman & Littlefield, 1995.

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

PER APPROFONDIRE:

Rawls John, A theory of justice. Rev. Oxford University Press, Oxford, 1999.

Regan Tom, The case for animal rights, University of California Press, Berkeley, 2014.

Agenti semiotici, pazienti morali

Agenti semiotici, pazienti morali

La biosemiotica è un disciplina recente, sviluppatasi dagli anni ’90 del secolo scorso, anche se fa propri metodi, idee e concetti sviluppati precedentemente in altri ambiti (quello della semiotica, in particolare) e riprende intuizioni già presenti nei testi di Von Uexkull, biologo ed etologo vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900.

Se la semiotica è lo studio dei segni in particolare nell’ambito della cultura umana, la bio-semiotica estende questo studio all’ambito della vita biologica. Essa propone di pensare alla vita come a qualcosa che ha a che fare con la percezione di significati e l’azione ad essi coordinata. Il paradigma della biosemiotica si estende dalle piante agli animali, fino alle cellule e agli ecosistemi: tutto ciò che riguarda la vita, secondo la biosemiotica, può essere interpretato come qualcosa che intrattiene relazioni con l’esterno basate su scambio e interpretazione di segni.

In questa sede ci limitiamo a considerare l’interpretazione biosemiotica degli animali (zoosemiotica) e mostreremo perchè è rilevante per la nostra moralità.

Partiamo subito col dire che il paradigma biosemiotico si oppone a quello meccanicista, che vede gli animali come macchine, ‘qualcosa’ che risponde in maniera fissa e automatica agli stimoli esterni. Seppur questa interpretazione sia datata (risale a Cartesio, nel 600) e pochi ammetterebbero ad alta voce di sostenerla, è ancora più diffusa di quanto non si immagini. Ogni volta che si avanza un dubbio sulla capacità degli animali di imparare, sul loro disinteresse per le condizioni della propria vita, sulla loro incapacità di comunicare, ecco che si è Cartesiani.

L’animale biosemiotico è un agente semiotico, ossia un essere attivo in grado di percepire gli stimoli esterni, dotarli di un significato e agire in maniera coerente a questo. La novità di questo paradigma è l’interpretazione dei rapporti tra animale e ambiente esterno come rapporti basati su segni e significati. Quando percepito, uno stimolo non è mai neutro, ma riveste un significato, ossia è segno che rimanda ad altro. Una crocchetta non è ‘massa solida marrone’ ma ‘cibo’, un nido non è ‘struttura concava’ ma ‘riparo’. In accordo con questi significati, l’animale attua un comportamento coerente: mangiare la crocchetta, ripararsi nel nido.

Ora, i significati sono un’entità particolare. Ad ogni oggetto non corrisponde un solo significato, ma tanti quanti sono gli agenti semiotici che lo percepiscono. Un nido è ‘riparo’ ma è anche ‘luogo da saccheggiare per prendere cibo’. Ma, complicazione su complicazione, uno stesso oggetto o situazione esterna può avere diversi significati anche per lo stesso soggetto. Le condizioni interne di un organismo, ossia stato emotivo, bisogni e necessità contingenti, determinano il modo in cui esso percepisce l’esterno e i significati attribuiti. Sarà capitato a tutti di sedersi su una sedia per mangiare al tavolo o usarla come sgabello per arrivare allo sportello più alto della cucina: necessità differenti fanno sì che la stessa situazione sia dotata di diversi significati. Questo avviene anche per gli animali, come per il paguro che si ciba dell’anemone quando ha fame o la usa come riparo quando si sente in pericolo. Questa moltiplicazioni di possibili sensi significa che essi non sono immanenti agli oggetti. Non sono, però, nemmeno una libera invenzione degli animali: la realtà non si lascia plasmare ad libitum, ma pone limiti e freni alle possibili interpretazioni. Una crocchetta può essere cibo, ma non riparo. I significati, dunque, sono un’entità ibrida che sorge all’incrocio tra il soggetto, il suo stato interno e la situazione esterna dove quest’ultima suggerisce un range di possibili letture.

Tutto ciò implica il fatto che non esista un significato assolutamente vero e uno assolutamente falso: certo, è possibile che un organismo si bagli totalmente nell’interpretazione (pensiamo alle illusioni, per esempio), ma non è possibile affermare che esista uno e un solo modo di interpretare il reale. Ce ne sono tanti quanti organismi e ogni significato è vero per l’organismo che lo attribuisce.

Come si capisce, il paradigma biosemiotico non vede nulla di fisso e automatico nel comportamento animale come invece voleva il meccanicismo: ogni essere vivente è attivo nell’interpretare la realtà, libero di dare significati nei limiti posti dalla realtà stessa e in grado di agire sulla base della propria interpretazione. Per riassumere si potrebbe dire che l’agente semiotico è colui che, interpretando i segni esterni, utilizza questi come informazioni per modellare il proprio comportamento.

Passiamo ora all’aspetto della moralità che credo fortemente necessiti di una revisione alla luce della teoria biosemiotica. In particolare sono convinta del legame profondo tra i concetti di agente semiotico e paziente morale.

Per paziente morale si intende colui che è beneficiario di un trattamento morale, cioè colui verso il quale si dirigono le preoccupazioni morali. L’agente morale, invece, è colui che si pone il problema della moralità e agisce in base ai suoi principi. Non è questa la sede per discutere della possibilità (o necessità?) che ogni animale sia anche agente morale, ma è un argomento interessante di cui rimando la discussione al prossimo articolo.

Noi siamo agenti morali e ancora oggi ci preoccupiamo davvero troppo poco degli altri animali. Sono convinta che il paradigma biosemiotico possa rispondere in maniera esaustiva al domande come: perchè dovremmo estendere la nostra moralità a tutti gli animali? Perchè ci dovrebbe importare di loro? Perchè dovremmo farne dei pazienti morali? Le risposte stanno nel concetto di agente semiotico.

Come abbiamo visto, l’agente semiotico è un organismo in grado di percepire e dare autonomamente un senso a ciò che avverte dell’esterno. Anche le azioni umane incrociano gli organi percettivi degli altri organismi, che dunque le interpretano e dotano di un significato. Come già detto sopra, i significati non sono univoci, ma ne esistono tanti quanti sono gli agenti semiotici. Quando ci mettiamo in relazione con un essere vivente le nostre azioni possono essere percepite e interpretate in modi differenti dal nostro, in modi che noi, in quanto esseri umani, non possiamo né determinare né prevedere appieno perchè sono relativi all’altro soggetto, ai suoi organi percettivi e stati interni.

Come abbiamo già detto, non esiste un significato vero in assoluto, perciò non è possibile farne una scala gerarchica: il sistema semiotico umano è uno dei tanti possibili, non il migliore e non quello più ‘vero’, ma è uno dei tanti possibili, tutti differenti gli uni dagli altri e tutti posti sullo stesso piano valoriale. Questo perchè ogni sistema semiotico è vero relativamente al soggetto che lo ‘abita’. Questo significa che non possiamo appellarci ad una qualche ‘supremazia’ per schiacciare sistemi semiotici non umani.

Ogni animale, in quanto agente semiotico, è una prima persona percettiva che non recepisce passivamente gli stimoli esterni ma attivamente li interpreta e utilizza per agire: è interessato agli stimoli e sensibile nei loro confronti. Le nostre azioni nei confronti di un animale, dunque, lo concernono, vengono recepite e utilizzate da lui come segni e informazioni per l’azione: hanno, cioè, un impatto sulla conduzione della sua esistenza.

Le nostre azioni, però, non impattano solo direttamente sugli animali ma possono anche urtali indirettamente andando a ledere le relazioni semiotiche significative che intrattengono con l’ambiente circostante. Abbattendo una foresta, per esempio, potremmo aver cura di non uccidere attivamente gli animali che vi abitano, ma questo non è sufficiente: la foresta è significativa per questi esseri. Abbattendola stiamo facendo venir meno una relazione importante per loro. Il nostri interesse deve prevalere? Abbattere foreste è un bisogno vitale per l’essere umano? No. Se facciamo nostro il paradigma biosemiotico dobbiamo riconoscere che foresta non è solo ‘legna su cui guadagnare’ ma anche ‘casa’, ‘protezione’, ‘luogo di caccia’ e non siamo giustificati a far prevalere il nostro interesse (non vitale) su altri (ben più vitali) di altri soggetti. Preservare un organismo, insomma, significa preservarne la vita e anche le relazioni significative e vitali che intrattiene con l’esterno.

In conclusione, in quanto esseri umani dobbiamo riconoscere di non essere gli unici agenti semiotici, che i nostri significati, le nostre relazioni con l’esterno non sono né le uniche né quelle di maggior valore. Dobbiamo fare un passo indietro e chiederci giorno dopo giorno se con le nostre azioni stiamo urtando qualcuno che ha il nostro stesso diritto ad essere.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Agency in Non-human Organisms, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 95-122, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, p. 96.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Conceptualizing Agency, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 153-188, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, pp. 163-164.

Tønnessen Morten, Umwelt Transitions: Uexküll and Environmental Change, in “Biosemiotics”, Vol. 2, n° 1, 2009, pp. 47-64, DOI 10.1007/s12304-008-9036-y, consultato in data 11/11/2022.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale” è un testo ormai datato. Scritto da Frederick Jacobus Johannes Buytendijk (1887-1974), antropologo, biologo e psicologo olandese, nel 1962 rimane un testo affascinante per diversi aspetti e, nonostante la psicologia comparata e in generale gli studi sul comportamento animale abbiano fatto passi da gigante da allora, vi si possono leggere note importanti soprattutto di carattere epistemologico e metodologico.

Così come fa l’autore nel testo, partiamo da una chiarificazione: la psicologia comparata non si occupa di ciò che uomini o altri animali hanno ‘nella mente’, ma “ha il compito di ricercare, cioè di descrivere e spiegare le affinità, le analogie e le differenze nel comportamento”(p. 7).

Cosa centra la psicologia col comportamento? Molto, a dire il vero e questo perchè il comportamento è un certo tipo di azione, un’azione con caratteri peculiari che la contraddistinguono dalla caduta di un masso o dal movimento delle foglie, per esempio. Il comportamento è un agire che ha significato in una specifica situazione, è una “forma di manifestazione di un rapporto significativo fra un uomo o un animale e il mondo che lo circonda” (p. 17). Il comportamento ha a che fare con l’essere in situazione di un soggetto, cioè il suo essere calato in un contesto dinamico che ha per lui un certo significato, sulla base del quale modula le sue azioni.

Si capisce, dunque, perchè Buytendijk ritenga analisi fisiologica e anatomica insufficienti a spiegare il ‘perchè’ un organismo si comporti in un certo modo: studiando le cause fisiche e chimiche dei processi vitali e quelle strutturali del corpo vengono messe in luce solo le condizioni del comportamento, cioè il range di possibilità di movimento ed espressione proprie di ogni animale. Esse spiegano ciò che un animale può fare, non il perchè faccia ciò che fa. Una più completa analisi del comportamento non può prescindere da uno studio sui motivi di esso. Il motivo è un fattore che agisce qualitativamente e non quantitativamente nella determinazione del comportamento di un soggetto e, sebbene non se ne trovi una definizione esplicita nel testo, possiamo intenderlo come la risultante del rapporto tra l’animale, la situazione e il significato che essa riveste per il primo.

Chiariamo questo punto. Secondo Buytendijk il rapporto tra organismo e ambiente non è unidirezionale, ma vicendevole. L’ambiente è sorgente di stimoli che non agiscono semplicemente come cause meccaniche in grado di determinare automaticamente certe reazioni nell’animale. Gli stimoli hanno un aspetto qualitativo: il significato che viene loro attribuito dall’organismo che li percepisce.

Ogni soggetto, quindi, non è totalmente passivo di fronte all’ambiente, non è un contenitore vuoto che accoglie gli stimoli così come sono, ma, come già affermava Uexkull nei suoi testi, è attivo sia nel dare un significato agli stimoli percepiti, sia nella percezione stessa. Da una parte, infatti, gli organi sensoriali agiscono come a-priori esperienziali permettendo al soggetto l’accesso solo a determinati stimoli, dall’altra perchè lo stato interno del soggetto stesso determina il modo in cui tali stimoli vengono percepiti. In ogni istante della sua vita, ogni organismo si trova nell’ambiente in una certa ‘disposizione’, cioè con certi stati d’animo, desideri, necessità che determinano la maniera in cui il soggetto percepisce la situazione e il significato che le attribuisce. Personalmente trovo molto efficace per chiarire questo punto l’esempio fatto da Uexkull in “Ambienti animali e ambienti umani” circa il rapporto tra paguro e anemone: quanto incontra quest’ultima, il primo attua diversi comportamenti, dimostrando di proiettare diversi significati sull’anemone. Se è affamato, il paguro si avvicina per mangiarla: l’anemone, in questo caso è ‘cibo’; ma se si trova privo di una conchiglia protettiva e in situazione di pericolo, il paguro la utilizza come riparo nascondendosi al suo interno: l’anemone, ora, è ‘rifugio’.

Il rapporto soggetto-ambiente, dunque, non è unidirezionale, ma circolare, dove l’uno determina l’altro e viceversa, ed è “implicativo, cioè (…) corrisponde all’espressione ‘quando-allora’” (p. 51), poiché, date certe condizioni ambientali percepite in un certo modo e rivestite di un certo significato, l’animale attua un comportamento in risposta ad esse. Ecco allora che la motivazione è quel fattore qualitativo nella determinazione di un comportamento che sorge all’incrocio tra i due vettori di questo rapporto reciproco; essa è uno stimolo significativo, letto attraverso la lente della disposizione del soggetto, che spinge quest’ultimo a comportarsi in un determinato modo.

Questo nucleo teorico mi sembra interessante e attuale. Diversi filosofi si troverebbero d’accordo con questa lettura del comportamento e, personalmente, la ritengo incredibilmente trasformativa: è una lente concettuale che ci permettere di pensare in maniera differente noi esseri umani, gli altri animali e i rapporti che ci legano. Non macchine, non esseri passivi, ma ‘menti’ che interpretano il mondo e rispondono ad esso.

Altro spunto interessante è la convinzione di Buytendijk nel considerare come condizione preliminare per lo studio della psicologia comparata il riconoscimento di una continuità tra uomo e animale. Per questo motivo afferma che la psicologia comparata è legata all’antropologia: a seconda della concezione dell’uomo assunta cambia la possibilità e la metodologia con cui si effettua la comparazione. Se si concepisce l’umano come elevato, lontano e totalmente differente dagli altri animali, non c’è spazio per la comparazione.

Buytendijk opta per la continuità e quindi per la possibilità di una comparazione. Nel farlo, però, è importante non cadere nell’errore di utilizzare ciò che è umano come metro di misura per valutare le altre esistenze. Più volte l’autore mette in guardia circa la necessità di tener conto del fatto che quando si parla di comportamento, situazione o azione ‘significative’, questo ‘significative’ è da intendere come ciò che è tale per il soggetto che la osserva o compie, non per l’osservatore che la studia. Questo è estremamente importante e assolutamente in linea con le ricerche attuali in campo biosemiotico: se consideriamo ogni organismo un soggetto il cui comportamento è motivato da un certo significato che una situazione riveste ai suoi occhi, allora per comprendere le azioni altrui non dobbiamo rifarci al significato che la situazione assume per i nostri occhi umani, ma a quello assunto per l’occhio dell’animale coinvolto. Questo significa riportare l’uomo tra gli animali come uno di essi, come uno dei tanti sguardi sullo spettacolo del mondo. Ma significa anche ammettere la possibilità di non comprendere affatto un comportamento osservato. Non possiamo sapere tutto perchè non siamo osservatori puri o onniscenti, ma sempre calati in un certo modo di vedere, percepire, dare significato al mondo. L’agire altrui è un comportarsi ed esiste come tale anche quando non lo comprendiamo: è un agire significativo per altre menti, altri corpi e altre letture del mondo cui non possiamo accedere. Non dobbiamo farlo scadere a meccanismo pur di affermare di poterlo studiare e analizzare per comprenderlo a fondo ed esaurirlo. Lasciamo che l’ignoto continui a sorprenderci.

Lungo il testo, comunque, Buytendijk non rinuncia a sottolineare e ricercare ciò che contraddistingue l’uomo, ritrovandolo in diversi aspetti del comportamento che vanno dalla capacità astrattive, creativa e immaginativa al linguaggio articolato. Ci sarebbe molto da dire e puntualizzare: non sembra che questa analisi proceda verso una ricerca di elevazione dell’uomo (come abbiamo detto, opta per una continuità e quindi le differenze sono più gradi che salti qualitativi), ma molti aspetti del comportamento da lui definiti come ‘propri dell’uomo’ non mi soddisfano e oggi non li riterremmo più tali. Per un approfondimento vi invito a leggere il testo ma potrebbero essere temi ripresi nei prossimi articoli su questo blog.

Spunti estremamente interessanti si trovano nell’ultimo capitolo, dedicato all’analisi dell’intelligenza. Coerentemente con quanto sostenuto lungo il testo, Buytendijk afferma che “l’intelligenza del comportamento può essere giudicata solo dal punto di vista del soggetto, dalla sua esperienza, dai suoi impulsi e dal tipo di significato che alla situazione dà il soggetto stesso” (p. 137). Questo passaggio è estremamente fecondo. Innanzitutto perchè mette in dubbio la validità di tutta una serie di esperimenti sugli animali grazie ai cui risultati è stato possibile giudicare come privi di intelligenza gli animali non umani. La stessa situazione, si è detto, è percepita e interpretata in modi differenti da esseri viventi differenti. Sottoponendo un animale ad un test tarato sulle abilità percettive e cognitive umane per determinare se sia intelligente o meno stiamo in realtà sostenendo che l’unica forma di intelligenza possibile sia quella umana; stiamo dando per scontato che l’unico modo di leggere il mondo sia quello umano e stiamo disconoscendo il punto di vista dell’animale sulla situazione.

Con questi esperimenti stiamo sottoponendo all’animale le domande sbagliate, domande tarate sulle capacità e percezione umane, domande che, se incrociano i sensi dell’altro animale, non lo fanno allo stesso modo nostro e che, se rivestono ai suoi occhi un significato, è possibile ne rivestano tanti differenti quanti sono i sensi che li percepiscono. A parità di situazione e di problema da risolvere specie diverse possono comportarsi in maniera diversa, ma questo non significa che certi comportamenti sono più intelligenti di altri: sono modi diversi di rispondere ad una stessa situazione percepita in maniera diversa e dotata di significati differenti (p. 150). Dunque, non esiste una sola risposta ‘intelligente’ o ‘corretta’ ed è ingenuo giudicare come non intelligente un animale che semplicemente non si comporta come farebbe l’essere umano. Intelligenza non è sinonimo di intelligenza umana: ci sono tante intelligenze differenti che fanno riferimento alle possibilità fisiche, biologiche e cognitive di ogni animale (p. 146).

Per giudicare come intelligente un certo comportamento, dunque, dobbiamo prima conoscere a fondo l’animale e i suoi comportamenti ‘normali’. A partire da questo, Buytendijk definisce come intelligente un comportamento non dettato dall’abitudine, ma dall’esperienza sensibile (p. 138), “un comportamento organizzato” (p. 140) che ha senso nei confronti della situazione. Intelligente è un comportamento che tiene conto del contesto e si adatta ad esso, rispondendo in modo adeguato secondo la lettura, il significato che una situazione ha per ciascun soggetto.

Per quanto ormai datato questo testo è una miniera di spunti di riflessione da riprendere, contestualizzare e aggiornare con l’apporto delle scoperte più recenti. Credo che proprio per la sua capacità di veicolare un certo modo di pensare ad uomo e animale che oggi non è ancora stato metabolizzato dal pensiero comune si possa considerare ‘attuale’ e suggerire come una lettura ancora valida, ancora in grado di parlare.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Frederik Jacobus Johannes Buytendijk, Psicologia umana e psicologia animale, Garzanti, Milano, 1962.

Jakob von.Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani : una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata, 2019.

Le sepolture animali nelle necropoli longobarde. Intervista ad Alessio Pascolini

Le sepolture animali nelle necropoli longobarde. Intervista ad Alessio Pascolini

Dr. Pascolini, il suo ultimo lavoro, Le sepolture animali nelle necropoli longobarde. Offerte Funebri e Riti Sacrificali (Daidalos, Umbertide 2023), indaga gli aspetti sociali, culturali e religiosi delle sepolture animali (equine, e più limitatamente canine) durante il primo trentennio di presenza longobarda in Italia (568-598 d.C.). Per introdurci, iniziamo dal rito funebre, che lei descrive come una cerimonia pubblica attraversata da forti motivi identitari, nonché una vivace occasione di condivisione orale, in cui il gruppo parentale poteva legittimamente raccogliere lo status sociale del defunto di fronte al resto della comunità. Su due aspetti ci vorremmo soffermare: la funzione di tutela della memoria collettiva e del sapere comune assunta dalla necropoli in un momento di necessaria rielaborazione culturale, quale doveva essere stata la migrazione dalle aree pannoniche, e la scarsa attenzione che il rito, secondo la sua analisi, sembra riservare alla prosecuzione ultraterrena della vita dei defunti.

 

Nella società longobarda, la necropoli costituiva un importante punto di contatto tra il mondo dei vivi e la comunità dei morti, due realtà legate tra loro da un rapporto di omologia. La presenza di una ritualità associata alla deposizione di resti umani in spazi socialmente definiti e riconosciuti pare costituire un elemento fondamentale nella creazione di una dimensione sociale della memoria e nel conseguente sviluppo di una qualche forma di culto degli antenati. Inoltre, la necessità di riorganizzare socialmente ed economicamente la comunità in seguito ad un evento di enorme portata come il processo migratorio, aveva generato una certa particolarità nella distribuzione spaziale delle tombe, volta ad enfatizzare i vincoli di parentela e di discendenza esistenti tra i defunti. Il gruppo umano longobardo appare molto poco interessato all’aldilà. Le stesse caratteristiche denunciate dal cerimoniale funebre mostrano infatti come l’attenzione fosse totalmente rivolta verso una dimensione marcatamente terrena, rappresentata dall’immagine che la comunità presente alle esequie recepiva del defunto. Il ricordo che i contemporanei prima e i posteri poi conservavano delle azioni umane costituiva l’unico aspetto a suscitare interesse. Proprio alla tenuta di questo ricordo sul sistema percettivo e cognitivo dei partecipanti alla cerimonia, favorita dalla dimensione sensoriale ed emozionale espressa durante l’attuazione del rito, era affidata la sola forma possibile di immortalità.

 

Lo studio riguarda nove sepolture in cinque necropoli, distribuite tra l’Italia settentrionale e l’Italia centrale. Dall’analisi emergono alcune ricorrenze: quando la sepoltura animale appare associata ad un’inumazione umana, la carcassa risulta intera e interpretabile come parte del corredo del defunto; quando al contrario non è possibile identificare una correlazione, i resti scheletrici appaiono incompleti, acefali. Tali ritrovamenti possono essere ricondotti ad una pratica di sacrificio rituale. Quali sono le ragioni sociali e culturali che sostengono un simile rito, e come doveva strutturarsi il suo svolgimento, secondo la sua ricostruzione?

 

Le caratteristiche mostrate dalle fosse animali associate ad una specifica sepoltura umana, sia nella forma contestuale sia nella modalità separata, consentono di considerare i depositi in questione quali parte integrante del corredo funerario attribuito al defunto. Il trattamento riservato agli animali doveva rientrare a pieno titolo all’interno della pratica funeraria organizzata per il morto. Ad essere abbattuti nell’ambito del rituale potevano essere cavalli e cani, anche in combinazione tra di loro. L’atto doveva avvenire verosimilmente nelle immediate vicinanze della fossa, anche per ovviare alle difficoltà logistiche di trasportare per lunghi tratti una carcassa che poteva mostrare anche grandi dimensioni. L’uccisione era praticata secondo modalità ben precise, che mostrano una certa attenzione per l’animale, di cui si cercavano di preservare l’integrità corporea e le proprietà fisiche. Alcune caratteristiche mostrate dalle sepolture animali prive di una associazione chiara ed evidente con una specifica inumazione umana, consentono di considerare i rinvenimenti in questione quali esito ultimo di un sacrificio rituale. Più aspetti consentono di riconoscere nel taglio della testa dell’animale, una delle azioni in cui doveva articolarsi un complesso rito sacrificale compiuto in onore della divinità. La decapitazione comportava la completa distruzione dell’esemplare, qualificando il gesto come un atto sacrificale. Siamo di fronte ad un cerimoniale a sfondo religioso dalla forte valenza simbolica, chiaramente alternativo alla ritualità funeraria organizzata in onore di un membro della élite guerriera. Oltre che la decapitazione dell’animale e la probabile combustione di alcune parti molli dell’equino, il sacrificio poteva prevedere l’esposizione rituale del cranio del cavallo, magari collocato sulla sommità di una picca. Solo dopo un periodo di tempo più o meno lungo, il cranio poteva essere rimosso e deposto in una sepoltura dedicata.

 

Una sepoltura in particolare mostra una peculiarità. Oltre al cranio, lo scheletro del cavallo manca anche della parte terminale degli arti, dello sterno e delle vertebre caudali. Al pari delle altre inumazioni, anche l’asportazione di queste parti dipende da un’attività intenzionale. La sua ipotesi è che tali caratteristiche rimandino a qualcosa di simile ad una pratica rituale nota come “Head and Hoof”, che prevede l’esposizione per un tempo più o meno lungo della pelle dell’animale montata su un’impalcatura di legno. Come si può collocare l’origine di questa pratica, e quali significati doveva riconoscere in essa la comunità che la attuava?

 

Il rituale noto come Head and Hoof risulta molto diffuso in diversi periodi cronologici e in differenti ambiti culturali. La deposizione di ossa selezionate di equino è particolarmente attestata soprattutto nella zona caucasica durante la prima metà del secolo V, ma appare attestata, seppur in modo sporadico, anche in territorio europeo fino alla fine del secolo VII. Il sacrificio del cavallo sembra riflettere una religiosità strettamente legata ad una dimensione tribale e pagana, che ancora alla fine del secolo VI doveva essere molto sentita tra la popolazione longobarda. E’ parso possibile riconoscere in Freyr la divinità destinataria del rituale. Appartenente alla stirpe dei Vani, patroni della fecondità, della pace, della ricchezza e del piacere, il dio Freyr doveva rivestire un ruolo centrale nel pantheon longobardo. L’abbattimento di un equino, animale sacro alla divinità, possono essere considerati pertanto parte di un rituale strettamente legato al concetto di procreazione e di fortuna. Un gesto benaugurale perla collettività, con una chiara funzione apotropaica.

 

Già numerosi studi, non esclusivamente archeologici, hanno evidenziato il legame che sussiste nelle società tribali tra l’attività venatoria e l’attività militare. Questo rapporto sembra essere largamente presente anche nella comunità longobarda della fine del VI secolo. Lo troviamo infatti sia al livello del corredo, in cui cavalli e cani qualificano il defunto come cacciatore-guerriero, sia al livello dell’offerta rituale, a partire almeno dalla diffusione di una religiosità in cui gli apporti delle culture venatorie e pastorali occupano una parte decisamente più consistente rispetto a quelli provenienti dalle culture agricole. In che misura, dunque, la caccia e la guerra appaiono correlate nella società longobarda? In che modo la ritualità esprime tale rapporto?

 

Guerra e caccia. Nelle culture barbariche queste attività costituivano aspetti di una stessa morale, strettamente legati all’esercizio del potere. In una società semi nomade come fu quella longobarda fino alla fine del secolo VI, tali attività rappresentavano una delle principali occupazioni della élite. La caccia, soprattutto di animali feroci, era sentita come somigliante alla guerra, vero e proprio addestramento ad essa. Le pratiche e le tecniche delle due occupazioni risultavano tra loro assai simili. In una società altamente instabile e competitiva come quella longobarda della seconda metà del secolo VI, dove lo status sociale della persona deceduta poteva essere mantenuto dal rispettivo gruppo parentale unicamente tramite l’ostentazione della ricchezza, la sepoltura di animali nell’ambito del cerimoniale funebre doveva qualificare pertanto il defunto come un personaggio di grande rilievo.

 

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