L’uomo alla fine dell’uomo

L’uomo alla fine dell’uomo

Folletto. Voi gli aspettate invan: son tutti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.

Gnomo. Che vuoi tu riferire?

Folletto. Gli uomini sono tutti morti e la razza è perduta.

La più radicale tra le distopie è la fine del mondo e Leopardi, nelle Operette morali, vede la prospettiva di estinzione come straniamento perché contempla le pretese di un trionfale dominio del mondo. Nell’epoca contemporanea questa prospettiva cambia, perché gli esseri umani aggiungono a questo declino naturale, altri modi di autodistruzione.

La dimensione apocalittica è una fase importante per parlare di Postumanismo e, in questo articolo, la presenteremo attraverso la penna di Paolo Volponi, presentandosi appena prima o appena dopo la catastrofe. In questo senso Il pianeta irritabile sembra la continuazione della presunta imminente catastrofe nucleare descritta in Corporale, che si conclude con la distruzione totale della Terra. Il romanzo è una favola allegorica animale con caratteri, sin dall’incipit, fantascientifici, anche se l’autore se ne discosterà per addentrarsi entro un orizzonte economico e politico: il paesaggio descritto non è mai completamente sciolto da oggetti storicamente riconoscibili, anche se l’autore ne dichiara la degradazione.

A farsi largo nella catastrofe descritta è un «epos primordiale» e un sentimento sospeso tra distruzione e rinascita. La scena si apre nell’anno 2293 in cui, una devastante sequenza di conflitti atomici ha segnato il millennio e gli occhi che si posano sul mondo sono quelli di quattro esseri viventi: la scimmia Epistola, l’oca Plan Calcule, l’elefante Roboamo e il nano Mamerte detto Zuppa, unico testimone umano della vicenda. L’ipotesi che vuole mettere in campo Volponi è una visione antagonista nei confronti del genere e del mondo umano, subito riconoscibile dal fatto che i personaggi siano animali di un circo, come a indicare la loro iniziale schiavitù.

Tuttavia il vero protagonista del Pianeta irritabile è Zuppa, dotato di una grande interiorità psicologica. Volponi evidenzia il suo percorso a ritroso nella scala evolutiva e la sua volontà di non essere più un uomo. L’unica reliquia dell’esperienza umana pregressa è un cartiglio con la poesia della suora di Kanton: alla fine del romanzo lo riduce in brandelli e lo distribuisce ai compagni superstiti, poi tiene per sé il lembo più grande e lo inghiottisce come a dimostrare che ogni legame con i propri simili si è sciolto e il «mito del buon selvaggio» torna a essere attuale. La natura umanizzata non esiste più e in discussione vi è una civiltà che ha condotto l’uomo a tradire le basi organiche del proprio essere nel mondo. Volponi inserisce anche un Eros indistinto ma prepotente nell’episodio in cui si racconta il rapporto sessuale del nano con la suora, descritto come il proseguimento della soddisfazione di un bisogno corporale: vediamo una regressione a fasi anali di puro «erotismo elementare» che non ha intenzione di separarsi dalle origini per conformarsi alla società. Il panorama del romanzo «prende vita per poter morire», infatti i personaggi sono sopravvissuti a una catastrofe atomica, ma si preparano ad affrontare una nuova apocalisse in cui a trionfare sarà la natura animale. Nello scontro finale con il Governatore Moneta, Zuppa lo apostrofa a vergognarsi della sua condizione di uomo: «Tu non sei un uomo, né vero né finto; sei solo l’uomo alla fine dell’uomo».

«Tirò fuori adagio, con le mani ridotte ormai a zoccoli, il foglio di riso sul quale la suora di Kanton aveva scritto per lui la poesia. svolse il foglio adagio, con molta attenzione; lo ripiegò in modo diverso e poi lo strappò per dividerlo: consegnò quella più grande a Roboamo, ne diede un pezzo all’oca e l’altro lo tenne per sé. Lo stirò ancora, se lo accostò al buco e cominciò a mangiarlo».

Il paradosso che rappresenta Volponi è proprio questo: la volontà del nano di convertirsi dalla sua condizione di uomo a quella di animale, quindi di regredire. Questo sta a significare che l’uomo è il punto più basso della scala evolutiva e deve sparire definitivamente dalla scena per lasciare posto all’animale, con le «mani ridotte a zoccoli» e la bocca ridotta a un «buco». Ciò che rende il pianeta «irritabile» è proprio la presenza dell’uomo, che con la sua smania di conquista ha finito per distruggere quello che ha costruito lungo i secoli: Volponi, attraverso il dialogo con il governatore Moneta, presagisce una società in cui l’uomo sarà l’essere più odiato che tutti cercheranno di evitare, a partire dagli esseri umani stessi.

L’UOMO INAFFERRABILE

L’UOMO INAFFERRABILE

Il fenomeno del Postumanesimo si rintraccia anche ricorrendo alla Letteratura di Fabbrica; essa si propone di indagare la condizione esistenziale dell’uomo all’interno della fabbrica, che esiste nella sua consistenza di meccanismo produttivo. Un esempio fondamentale è Il Senatore di Giancarlo Buzzi, perché racconta di Tullio Masi, un uomo che non ha mai conosciuto il padrone della fabbrica per cui è stato assunto, vivendo in uno stato di alienazione che porta il lettore a leggere il testo seguendo lo schema del kafkismo sociologico di Italo Calvino. la «ricerca dell’uomo inafferrabile» spinge il protagonista al dialogo con i fantasmi, per cercare un contatto umano.

Buzzi ci descrive la fabbrica come un luogo in cui non è permesso lamentarsi e questo porta l’uomo a cercare una «realtà altra» che crede vera; l’alienazione del protagonista è simile a quella descritta da Edgar Allan Poe nell’Uomo della folla, ovvero colui che cerca continuamente il contatto con gli altri perché non sopporta la solitudine e si emoziona a vedere la fiumana di gente che popola la sua città. Allo stesso modo, il protagonista del Senatore fa parte di un agglomerato che è la fabbrica, ma non se ne sente parte perché non intrattiene rapporti umani. Un episodio del romanzo racconta di una vacanza di Masi nei villaggi marini, fatta con lo scopo di far notare la sua assenza al padrone non sul piano lavorativo, quanto su quello umano. Tuttavia la sua assenza passa quasi del tutto inosservata e assistiamo al doloroso distacco dalla realtà sociale e umana e il primo indiziato nel processo di disumanizzazione è il vecchio Senatore che vuole creare una nuova umanità, quella tecnologico-industriale e rappresenta l’unico contatto umano di Tullio nella fabbrica: il termine “umano” è paradossale proprio perché il Senatore è un fantasma e quindi inesistente.

La disumanizzazione dovuta alla fabbrica è descritta anche da Paolo Volponi in Memoriale, che racconta di Albino Saluggia, un operaio scampato alla Seconda Guerra Mondiale, la cui avventura in fabbrica si trasformerà in una forma di disavventura e disagio che lo porterà alla paura del lavoro meccanico. Saluggia, nel corso del romanzo, arriverà ad assimilare i congegni della macchina a degli esseri umani: il sogno di Albino di umanizzare le macchine e soprattutto la sua utopia di fabbrica notturna (Saluggia fa visita alle macchine durante la notte) fa sì che il libro di Volponi manifesti tensioni lirico-trasfigurative. Ricorrendo al nome di Giuseppe Lupo, e più precisamente al suo saggio La letteratura al tempo di Adriano Olivetti, è possibile constatare che Volponi utilizza l’icona della fabbrica di vetro, in cui si può inserire il topos della visita notturna. La negazione dell’identità fra soggetto e oggetto prelude alla constatazione della solitudine, percepibile in quel «tutti uguali», causata dall’alienazione della vita di fabbrica che, invece di portare le macchine a umanizzarsi sta ottenendo l’effetto contrario.

Un ultimo ma significativo esempio di Postumanesimo dovuto alla fabbrica è offerto da Vogliamo tutto di Nanni Balestrini che rappresenta il rifiuto della grande fabbrica e del modello di sviluppo capitalistico, che il protagonista manifesta dapprima in maniera istintiva e poi via via in modo sempre più consapevole: secondo lo stesso Balestrini è proprio questa la principale caratteristica del comportamento politico della nuova figura dell’operaio-massa. Il protagonista si rende subito conto che il lavoro è sfruttamento dell’uomo, assoggettato alla dinamica produttiva. Balestrini esordisce dicendo che «per una nuova dignità umana bisognava produrre»: il lavoro e la produzione sono il punto centrale del libro e l’autore ha come intento quello di far risaltare i diritti dei lavoratori soprattutto in quanto uomini. Complice del linguaggio, Balestrini, descrive perfettamente la sensazione di automazione dettata dalla catena di montaggio che si crea nel lavoro di fabbrica in cui sembra quasi che il protagonista stia raccontando una scena che vive qualcun altro. Una delle conseguenze della massificazione è la presa di coscienza della nevrosi, dovuta alla maniera sistematica e meccanica di “catalogare” ogni operaio, come se fosse un oggetto su cui si sta facendo l’inventario e non una persona in carne ed ossa: il protagonista di Vogliamo tutto non è privo di un nome, ma all’interno del romanzo il suo nome e quello di altri personaggi non vengono praticamente mai citati e questo è un altro sentore del processo di disumanizzazione che si sta mettendo in atto. Una volta entrati a contatto con la fabbrica, gli uomini diventano operai e, nella visione dell’autore, non vengono più visti come uomini ma come una categoria, una «razza».

Il protagonista non riesce ad accettare che l’operaio sia considerato un essere diverso dall’uomo, dal cittadino a tutti gli effetti che può decidere della sua vita e l’icastico «vogliamo tutto» rappresenta proprio questo grido di ribellione. Nanni Balestrini, dietro l’ironia graffiante del protagonista, racconta la sofferenza dell’operaio, costretto a giornate meccaniche e alienanti e perennemente escluso dalla “categoria degli esseri umani”.

Il dolore di E. Costello. J. M. Coetzee e “La vita degli animali”

Il dolore di E. Costello. J. M. Coetzee e “La vita degli animali”

 

«Se mi chiedessero qual è l’atteggiamento generale nei confronti degli animali che mangiamo, direi: il disprezzo. Li trattiamo male perché li disprezziamo; li disprezziamo perché non si ribellano»

 

Si provi a seguire J. M. Coetzee nella sua medesima proposta: La vita degli animali (1999) raccoglie le Tanner Lectures di Princeton del 1997-1998, le quali sono tuttavia tenute, e presentate successivamente al lettore, in forma di racconto. La relatrice è Elizabeth Costello, scrittrice, anziana, in visita all’Appleton College per presentare due conferenze sul tema del trattamento che la società riserva agli animali.

La prima, I filosofi e gli animali, contiene la critica al «grande discorso» del pensiero occidentale, il quale altro non sembra essere che una sorta di mitologia della separazione, un racconto sull’origine dell’uomo come opposto dell’animale. È un discorso che esalta la ragione sopra ogni cosa, e che riconosce nella specificità umana il suo principio conservativo. Esso ha decretato l’identità dell’universo e della ragione che lo comprende, escludendo quindi gli animali – nel presupposto che in questi la ragione non alberghi – dalla partecipazione alla natura di questa gloriosa unione. «L’universo è costruito sulla ragione. Dio è un Dio di ragione. Il fatto che grazie alla ragione si possa arrivare a comprendere le leggi che regolano l’universo dimostra che la ragione e l’universo hanno la stessa essenza».

Ma, prosegue Costello, la ragione coincide, al più, con l’uomo. Non l’essenza dell’universo, dunque, ma di chi, grazie ad essa e attraverso essa, lo pensa. Perciò il criterio della razionalità le appare in fondo tautologico: «Certo, la ragione riconosce la validità della ragione in quanto principio primario dell’universo: che altro dovrebbe fare? Detronizzare se stessa? I sistemi razionali, in quanto sistemi di totalità, non hanno quel potere. Se ci fosse una posizione dalla quale la ragione potesse attaccare e detronizzare se stessa, essa l’avrebbe già occupata, altrimenti non sarebbe totale».

Nelle relazioni con gli altri animali si è voluto di nuovo consacrare la validità della ragione adottandola come unità di misura per la valutazione delle loro facoltà cognitive. Qui, forse, Coetzee avanza una delle critiche più interessanti agli esperimenti sulle capacità mentali dei non umani. Nella seconda conferenza, dedicata alla poesia, Costello afferma che sono gli stessi esperimenti a non avere senso, nella misura in cui, strutturati come sono, tentano di rilevare una presenza di astrazione che non corrisponde alla reale comprensione del mondo da parte dell’intelligenza che vi si trova immersa. Tragicamente antropocentrici, in essi si dà importanza a criteri destinati a mancare il bersaglio. «C’è qualcosa di stolido nel modo in cui il behaviorismo scientifico indietreggia di fronte alla complessità della vita». Con altre parole, qualche pagina prima, gli animali vengono spinti «a pensare la cosa meno interessante».

Contestando il famoso esempio del pipistrello di T. Nagel, che si chiedeva «what is it like to be a bat?», la letterata dà la propria soluzione. Al cogito, al pensiero, Costello oppone la pienezza dell’essere, ovvero l’esperienza di essere, la sensazione di essere un corpo vivo, solido, esteso, spazialmente collocato in un mondo in cui perlomeno, se non si possiede astrattamente la nozione di vita, si ha la presenza a sé della propria vita – perciò la protagonista si appella a questo concetto impiegando anche il termine gioia. Ed è una condizione sperimentabile: in prima persona, naturalmente – ma Coetzee è chiaro: non si tratta di chiedersi cosa l’uomo e gli animali abbiano di comune – e per mezzo dell’empatia. Costello risponde alla sconsolatezza di Nagel rinvigorendo pubblicamente la fiducia nella capacità di «entrare col pensiero nell’essere di un altro», che lei dichiara illimitata.

La decisione stilistica di presentare una riflessione nella forma del romanzo ci consente inoltre di ragionare sui personaggi che la formulano. Possiamo dunque provare ad immaginare come debba essere la vita di Elizabeth Costello, che forse non ha visto l’orrore, il miserevole orrore della vita degli animali, e nondimeno sa che esso esiste, e che esiste per lei nella forma persecutoria di un’irrespirabilità generale che le rende ostile ogni spazio – fisico o sociale – e quindi l’esistenza in senso proprio. Quasi che il coltello del macellaio la minacci direttamente ad ogni passo, ad eterno memento di ciò che per sua natura, una volta scoperto, non può essere dimenticato. Costello, in viaggio con il figlio, racconta un’impressione della sua fantasia: mentre si trova a casa di amici, commenta la qualità di una lampada da salotto, per poi scoprire, dalle parole inorgoglite dei suoi ospiti, che questa è fatta con la pelle di un’ebrea polacca. A noi non resta che immaginare una metamorfosi dei volti, improvvisamente fattisi caricature grottesche, e provare un incrollabile desiderio di fuga. Ma la nostra protagonista non ha caricature di fronte a sé: si muove nella società come chiunque, e con la stessa chiarezza con cui sa cosa si conduce nel substrato nascosto della vita civile – il massacro, il crimine, la «guerra agli animali» – sperimenta anche la perfetta normalità dei rapporti.

Il dolore, unito allo smarrimento, all’impossibilità di stare nel luogo in cui ci si trova, conduce ad un avvilente senso di sconfitta. Costello non risulta vincitrice nei suoi incontri all’Appleton College. Non ne risulta neanche perdente, e infine tutto si risolve in un ripristino dello stato iniziale. Le conferenze somigliano a una grande parentesi che rimane significativa solo finché è aperta. Una volta chiusa, la vita riprende in maniera identica a come scorreva in precedenza. John Bernard, il figlio di Costello discute con sua moglie Norma, la quale non ha la scrittrice in simpatia e sopporta con malcelato fastidio la sua presenza. È lui a proferire le parole definitive: quando sua madre se ne sarà andata «torneremo alla normalità». John e Norma non si rivolgono direttamente all’anziana relatrice, eppure la sensazione è che lei li abbia uditi, e che una volta in viaggio confermi con le sue angosce le parole del figlio.

La denuncia di Costello viene freddamente (cortesemente) ricevuta dall’attenzione dell’uditorio, ma non sembra realmente infrangere il muro dell’imperturbabilità. E dove Costello rivela la propria incapacità di comprendere in se stessa la tragica verità sulla vita che gli animali conducono, fuori la reazione è talvolta del tutto ostile. Per Norma, la sua astensione dalla carne è «una fisima nei confronti del cibo» che si traduce rapidamente in un esercizio di potere – salvo poi tradirsi da sé: se questo è un gioco di potere, Norma ne fa parte, temendo segretamente di perdere il proprio, in particolare nei confronti dei figli. «Avrei più rispetto per lei se non cercasse di accoltellarmi alle spalle con le storie che racconta ai bambini sui poveri vitellini e quello che fanno loro gli uomini cattivi. […] È un gioco malsano, non voglio che i bambini lo facciano con me». Ma la parentesi si chiude: dopodiché, Costello torna al suo dolore e al suo smarrimento, ovvero alla condizione da cui il potere non può più essere esercitato.

In più di un punto Coetzee lascia intendere una difficoltà autentica nella ricerca delle ragioni reali dell’orrore. Lo sterminio non sembra rispondere, nella sua vera essenza, alle logiche del mercato, né a quelle della natura. La risposta va forse cercata entro una dimensione spirituale. Quando, durante la cena al Circolo della Facoltà, il rettore le domanda se il suo vegetarianismo abbia un’origine morale, lei risponde negativamente. «Nasce dal desiderio di salvarmi l’anima», dice. L’impressione, triste, è che al contrario la salvezza rifugga Elizabeth Costello, alla quale non rimane che cedere a un pianto sommesso.

Dall’uomo al burattino

Dall’uomo al burattino

Nel corso dei secoli, la figura del personaggio cambia radicalmente, come scrive Giacomo Debenedetti nel suo saggio Il personaggio-uomo: a causa della crisi novecentesca, il personaggio a tutto tondo viene sostituito dal personaggio-particella, una figura carnevalesca scomposta. Il riferimento al Carnevale non è casuale, ma vuole rappresentare una delle tante sfaccettature della perdita d’identità umana.

Giorgio Manganelli nel 1977 pubblica il testo Pinocchio: un libro parallelo, definito un “libro nel libro”: Pinocchio è un personaggio carnevalesco, in quanto racchiude tre identità, una delle quali è il burattino, figura che richiama la cenere e la distruzione; nel libro di Manganelli, Pinocchio ha scelto la morte, in modo tale da rinascere umano. Pinocchio come burattino tra i burattini si può ricollegare all’opera Eva ultima di Massimo Bontempelli, che mette in luce la teoria dell’uomo-marionetta che riguarda il comune destino dei viventi. La protagonista Eva, grazie alla conoscenza della marionetta Bululù creata a immagine e somiglianza dell’uomo, si accorge che lei stessa è legata ai fili. Eva ha toccato con mano che nessun uomo è libero e che tutti siamo in balia di un destino burattinaio, anche chi non ne ha ancora la consapevolezza.

Questo destino burattinaio è uno dei primi passi verso la disumanizzazione, rappresentata anche dalla perdita della parola. La letteratura di Italo Calvino è emblematica per questa riflessione, soprattutto il suo romanzo combinatorio Il castello dei destini incrociati, nel quale l’autore introduce una cornice narrativa in cui i personaggi hanno perso la capacità di parola e per comunicare utilizzano le carte di tarocchi. Calvino è stato un grande scrittore carnevalesco, proprio perché la sua riflessione si concentra sul fatto che «il mondo si legge all’incontrario», come leggiamo nella Storia dell’Orlando pazzo per amore.

L’autore elegge la città come simbolo del proprio immaginario creativo, prendendo i considerazione Elio Vittorini e le sue Città del mondo, la cui copertina presenta la Torre di Giorgio De Chirico come utopia incarnata dalla dimensione verticale. Se Vittorini auspicava alla trasformazione dell’apocalisse in utopia, Calvino vede solamente i presagi della catastrofe a cui la società sta andando incontro.

Jean Pierre Jelmini, nella sua Premessa al volume Androidi. Le meraviglie meccaniche dei celebri Jacquet-Droz, parla di una parete di bambini meccanici a Rue de Richelieu: la questione sulla quale è utile soffermarsi è la sua affermazione «gli Androidi sono rimasti degli automi e hanno bisogno degli uomini». L’opinione di Jelmini è totalmente in contrasto con quella di Calvino, che raggiunge il culmine della sua riflessione nel Castello, attraverso la carta dell’Eremita, il quale afferma che «Per l’uomo che credeva d’esser Uomo non c’è più riscatto»: gli oggetti sono diventati idoli tirannici, a cui l’uomo è assoggettato.

L’ossessione della riproducibilità tecnica

L’ossessione della riproducibilità tecnica

Luigi Pirandello scrisse il saggio L’Umorismo, nel quale cerca di dare una definizione del concetto di umorismo, sostenendo che esso non sia una semplice imitazione del mondo, ma abbia come campo d’applicazione l’uomo il quale, per affermare la propria personalità, finisce per separarsi dal resto della vita e diventa forma individuale, che possiede una volontà in atto.

Questo discorso si pone in antitesi con il suo romanzo i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, nel quale racconta la vicenda di un uomo che si definisce «Una mano che gira una manovella», perché totalmente al servizio della macchina da presa.

Vladimir Majakovskij nel capitolo Il cinematografo distrugge il teatro, contenuto nel saggio Cinema e cinema, sostiene che il cinematografo dal punto di vista estetico sia il regno della dialettica ambigua tra essere e apparire, come possiamo vedere da queste parole:

Mi trovo nella necessità di rispondere oggi a un nuovo interrogativo postomi: posso io, artista, salutare l’avvento della macchina inanimata là dove ancora ieri si agitava la “trepida” mano del pittore?

Esso presuppone, da parte del pubblico, l’accettazione di un inganno, ovvero la falsità della presenza data dall’impressione di realtà e la falsità della rappresentazione. Il cinematografo può essere considerato Uno (nella proiezione), Nessuno (nell’immaterialità) e Centomila (nel moltiplicarsi delle copie in cui il film è uguale a se stesso). La metafora riporta sempre a Pirandello, il quale sostiene che lo schermo del cinema rappresenti la condanna dell’arte. L’autore agrigentino condanna il cinema, perché priva gli attori del contatto diretto con il pubblico: la macchina irrigidisce l’arte e così l’individuo si sdoppia entrando in conflitto tra la vita e la forma, come se fosse un’ombra a servizio della macchina da presa. L’ombra è un elemento proposto dallo stesso autore nel suo celebre romanzo Il fu Mattia Pascal, nel quale il protagonista si definiva «L’ombra di un morto», ed è la stessa sorte che ricade sull’uomo a servizio della tecnologia: gli oggetti sono diventati idoli tirannici che assoggettano l’essere umano.

La vendetta di Serafino Gubbio è quella di riportare le sue impressioni in quaderni, utilizzando la scrittura come risposta a un mondo che diventa sempre più meccanico; questa disumanizzazione viene esplicitata nel finale del romanzo, nel quale Serafino, davanti a una scena drammatica, continua a girare impassibilmente la manovella della macchina da presa, ma perde l’uso della parola. La perdita della favella è emblematica per rappresentare il declassamento dell’essere umano.

Agli albori del Novecento, Luigi Pirandello, postula l’avvento del consumismo e della perdita di quel «po’ di cuore e di mente», privilegio dell’essere umano, dato in pasto alle macchine.

Dove finisce l’umano?

Dove finisce l’umano?

Nel corso di circa centocinquantamila anni, l’uomo ha creato arte, conoscenza, tecnica e, nelle varie epoche, la riflessione filosofica e scientifica ha permesso uno sviluppo sociale e un’evoluzione culturale unica nella nostra specie; dopo l’Otto e il Novecento, i secoli della Chimica e della Fisica, ci troviamo ora nel secolo della Biologia, una scienza della sintesi del vivente.

La scienza studia i cambiamenti attorno all’uomo legati soprattutto alle nuove dimensioni della corporeità umana grazie all’avvento delle nuove tecnologie. I filosofi e gli scienziati prospettano un passaggio dal corpo umano al corpo postumano, quindi la fine della dicotomia uomo-macchina, preceduta dalla fine di quella uomo-animale. Tuttavia la progressiva scomparsa dell’essere umano dalla scena non riguarda solo il cambiamento del corpo a causa della tecnologia, ma ha un panorama di riferimento molto più ampio che coinvolge l’uomo in diversi campi d’azione.

Iniziamo la nostra riflessione parlando del Novecento, il secolo più veloce e contraddittorio per molti aspetti: il saggista italiano Marco Ravelli, lo definisce il «secolo degli opposti», perché mette in rilievo lo scontro tra il progresso, dettato dall’utopia, e la distruzione che l’uomo mette in atto verso se stesso. Il filosofo Bauman sostiene che la società novecentesca sia «liquida», poiché l’uomo fatica a riconoscersi in una forma specifica: nella cultura novecentesca subentrano i concetti di alterità e molteplicità e quindi si modificano gli orizzonti del pensare e dell’essere. L’avvento della cultura postomderna, produce un profondo mutamento socio-culturale, che porta tendenze all’insegna della provvisorietà e dell’instabilità. Il Postumanesimo filosofico s’inserisce in questa visione pluralistica, in quanto l’uomo è visto nell’ottica di essere astratto e decostruito radicalmente: non è ricostruito come nozione singolare o gerarchica, ma plurale.

Il progetto ha come fine quello di presentare la tematica del Postumano nel campo della Letteratura Italiana contemporanea e dell’arte, in un arco cronologico che va dal Novecento agli anni Duemila. Partendo dalle radici filosofiche della tematica postumana, studiate da Rosi Braidotti, Roberto Marchesini e Francesca Ferrando, ci addentreremo nelle opere letterarie di secoli diversi, ma che in fondo hanno lo stesso obiettivo: presagire che l’uomo verrà distrutto dal mondo che lo circonda e non sarà più in grado di rialzarsi.

Quale sarà, quindi, il destino che avrà l’essere umano, in un futuro non tanto futuro?