Agenti semiotici, pazienti morali?

Agenti semiotici, pazienti morali?

Nell’articolo precedente (per leggerlo: www.filosofiapostumanista.it/2023/10/23/agenti-semiotici-pazienti-morali/) abbiamo visto perchè e come il concetto di agente semiotico possa essere utilizzato per determinare l’estensione della comunità morale: chi è un agente semiotico deve essere rispettato e quindi trattato moralmente. Ogni agente semiotico è un paziente morale. In questa sede, invece, vedremo se c’è un collegamento tra il concetto di agente semiotico e quello di agente morale, ossia se ogni agente semiotico, per essere paziente morale, deve anche essere un agente morale.

Come abbiamo visto, noi esseri umani siamo agenti morali, cioè siamo in grado di formulare certi principi etici e modellare la nostra condotta in accordo con essi. Agire moralmente implica molte restrizioni: rispettare l’altro e trattarlo in maniera etica significa non potersi comportare a piacimento, ma rispettare certi principi, limitandosi. Per esempio, potenzialmente potremmo uccidere, far soffrire senza motivo o derubare un altro ma, se egli è membro della nostra comunità morale, queste azioni sono moralmente scorrette, punibili e da evitare.

Una modalità molto diffusa e intuitiva per spiegare perchè è necessario limitarsi nei confronti del prossimo è ricorrere al concetto di reciprocità. Secondo questa tesi, un soggetto si autolimita solo nei confronti di coloro che possono fare altrettanto e i principi etici nascono grazie ad un accordo in grado di garantire il rispetto reciproco tra tutti coloro che ne prendono parte: tutti si limitano nei confronti di tutti, tutti si proteggono e rispettano reciprocamente.

Questo tipo di teoria etica è definita ‘contrattualismo morale’ e, sebbene diversi suoi sostenitori la riformulino in molteplici varianti, è possibile riassumere il suo nucleo con l’idea per cui i principi nascono da un contratto e un accordo reciproco tra pari. In questo modo, agenti morali e pazienti morali coincidono: ad essere protetti (e rispettati) sono tutti coloro che ‘firmano il contratto’ e che quindi si impegnano al contempo ad agire moralmente nei confronti degli altri firmatari. Si è pazienti morali, quindi, fintanto che è possibile comprendere i termini di questo contratto e avere coscienza tanto dei propri diritti quanto dei propri doveri.

Per fare in modo che i principi sanciti dal contratti siano equi, cioè non favoriscano gli interessi di una parte più o meno estesa dei firmatari, il filosofo statunitense John Rawls (1921-2002) immagina che essi vengano scelti da una società posta in una ‘posizione originaria’ (uno stato di natura non ancora organizzato e istituzionalizzato, dove tutti i soggetti sono eguali) caratterizzata da un ‘velo di ignoranza’ che fa sì che nessuno sappia che ruolo sociale rivestirà dopo l’entrata in vigore del contratto. Questo garantisce la scelta di principi equi, in grado di rispettare ognuno a prescindere da ruolo e posizione sociale, senza favorire interessi specifici.

Formulata così, la teoria contrattualista pone la razionalità come requisito fondamentale per essere agente e paziente morale: ad essere protetti e rispettati sono coloro che possono comprendere il contratto, impegnarsi a rispettare l’altro e quindi che hanno un certo grado di consapevolezza di sé, delle proprie azioni e degli altri. Questo significa che non solo vengono esclusi gli animali, ma anche gli esseri umani con problemi mentali, disturbi di apprendimento e i neonati. Quest’ultima esclusione, però, presenta diverse problematiche ed è contraria al senso comune, che invece generalmente accorda una rilevanza morale agli esseri umani ‘non razionali’. Una delle modalità per farli rientrare nella comunità morale è considerare questi uomini alla luce del canone di specie: la loro carenza di razionalità rappresenta un deficit rispetto alla normalità, un danno prodotto dal caso che non giustifica la loro degradazione a esseri moralmente irrilevanti. In quanto fondamentalmente esseri umani devono comunque essere rispettati.

Per gli animali, invece, la situazione è più complessa. Rimanendo nel framework del contrattualismo, essi possono entrare nella comunità morale solo in un secondo momento e per via indiretta, cioè facendo riferimento a ragioni di stabilità sociale o all’idea per cui chi fa del male agli animali è più disposto a farne anche agli uomini. Qualunque ragione venga apportata a sostegno di questa modalità indiretta di considerare gli animali come pazienti morali non mi soddisfa perchè significa negare che essi abbiano una rilevanza in sé. Credo sia necessaria, invece, una teoria che assegni direttamente valore morale agli animali.

Un’altra strada è quella percorsa da Tom Regan, filosofo americano (1938-2017) sostenitore di una teoria dei diritti degli animali. Nonostante sia contrario al contrattualismo ne elabora una versione in grado di estendere la moralità agli animali per via diretta. Egli ritiene che si possa immaginare una posizione originaria all’interno della quale il velo di ignoranza celi anche l’appartenenza di specie. Non sapendo, una volta sollevato il velo, in che essere vivente ci si ‘incarnerà’, verranno scelti principi equi intraspecifici, ossia principi che non rispecchino gli interessi umani e che siano in grado di proteggere e tutelare gli individui a prescindere dalla specie di appartenenza (Allegri, 2015, pp. 111-112).

Attività di immaginazione bellissima ma a mio avviso si tratta più di un esercizio retorico e astratto che di un’alternativa praticabile in modo significativo. Nella vita di tutti i giorni facciamo estrema difficoltà a prendere in considerazione come persone con disabilità vivono i nostri spazi, quali siano i loro interessi e bisogni. Non per forza per egoismo, ma perchè c’è un limite alla nostra esperienza dato ‘semplicemente’ dal nostro essere ciò che sì è: un uomo normo dotato ha un’esperienza del mondo che non è quella del disabile e alla quale non può realmente e direttamente accedere. Questo non significa, però, che nel formulare principi sociali, politici, morali, si debba sempre e solo proteggere i propri interessi nascondendosi dietro ‘eh ma io non lo posso capire’. Possiamo comprendere l’altro, ma sempre dal nostro punto di vista, cioè in maniera limitata. Con gli esseri umani è più semplice: immaginarci disabili è possibile, possiamo comprendere com’è l’esperienza di un disabile in maniera più intuitiva e veritiera rispetto a quanto possiamo farlo con l’esperienza di un altro animale. Questo perchè apparteniamo alla stessa specie, abbiamo le stesse coordinate generali di esperienza, gli stessi bisogni e interessi fondamentali. L’esercizio di immaginazione è più difficile da applicare quando l’altro appartiene ad un’altra specie, ma non è impossibile: siamo comunque tutti animali (e ciò significa che certi bisogni ci accomunano) e la conoscenze etologiche, biologiche e fisiologiche possono fornire gli strumenti adatti a comprendere più a fondo l’altro animale.

Il problema principale, però, è un altro ed è il cuore stesso delle teorie contrattualistiche: la reciprocità. È davvero necessario che un individuo, per essere paziente morale, debba anche essere agente morale? Potremmo comunque avere principi restrittivi nei confronti di qualcuno che non può ricambiarci il favore?

Una critica che a parer mio coglie nel segno è quella formulata da James Rachels nel testo “Creati dagli animali”. Il filosofo americano nota come ciò che dalle teorie contrattualistiche emerge come requisito per essere sia agente che paziente morale, in verità rappresenta solo le condizioni affinchè un individuo sia solo agente morale. Per poter agire moralmente è necessario avere un certo grado di razionalità: bisogna saper comprendere cosa siano e quali siano i propri diritti e doveri e quali azioni rappresentino un danno per le altre esistenze. Questi, però, non sono caratteri rilevanti per essere un paziente morale.

Si pensi alla sofferenza: manganellare un cane è sbagliato non perchè quest’ultimo è razionale, cioè, per esempio, in grado di comprendere il danno subito, ma perchè il cane è un essere sensibile e in grado di provare dolore. La razionalità è necessaria solo all’agente morale per comprendere chi ha di fronte, quali suoi gesti possono urtare l’altro, per stabilire e poi seguire principi etici, per ritenersi responsabile (ecc.). Ma non è la presenza di razionalità nel cane a rendere la manganellata moralmente scorretta nei suoi confronti: è il fatto che quel gesto lo urta, provocando dolore. Alla base c’è la capacità del cane di soffrire: questo lo rende, in questo caso, un paziente morale. Dico in questo caso perchè, come Rachels stesso nota, le caratteristiche moralmente rilevanti di un essere sono differenti, a seconda del trattamento in questione. Isolare un elefante in una gabbia, per esempio, è sbagliato perchè lede un bisogno fondamentale di socialità. Certo, produce sofferenza, ma non solo quella fisica dell’esempio della manganellata. Lo stesso isolamento potrebbe non essere moralmente scorretto per un animale solitario e non gregario, che non ha bisogno di relazioni sociali stabili e durature. Esseri viventi differenti hanno caratteristiche diverse e questo fa sì che i trattamenti giusti e sbagliati si diversifichino, a seconda dell’impatto che hanno su tali caratteristiche.

La razionalità potrebbe rientrare tra i caratteri moralmente rilevanti ma non è la sola e non può essere utilizzata come unico attributo per qualificare un essere come paziente morale. A farlo sono piuttosto una serie di caratteri quali la sensibilità, il possesso di una vita autonoma che segue una propria traiettoria, che intesse relazioni significative e vitali con l’ambiente circostante. Tutti caratteri compresi nel concetto di ‘agente semiotico’. Per questo motivo credo che quest’ultimo sia il candidato ideale per delineare l’estensione della comunità morale e una volta fatta questa operazione, consenta anche di prestare attenzione a come ciascun individuo declini il suo essere un agente semiotico (in maniera tanto singolare quanto specie-specifica), a quali caratteristiche siano moralmente rilevanti per il tipo di trattamento specifico, e permetta di comprendere come egli debba essere trattato.

Ritornando ancora al contrattualismo, ci sono altre obiezioni che possono essere mosse all’idea per cui il cardine della moralità sia la reciprocità. La prima è che non possiamo aspettare che l’altro rispetti noi per fare altrettanto: si entrerebbe in un loop in cui nessuno mai inizia a comportarsi moralmente per paura che l’altro non faccia lo stesso. Una situazione di paralisi. Questo si lega al secondo aspetto: che un essere vivente sia in grado di comprendere che le sue azioni hanno il potenziale di urtare un altro soggetto, cioè che abbia coscienza di sé come agente morale, è sufficiente affichè egli si interroghi sulla moralità delle proprie azioni e agisca di conseguenza. Non ha bisogno della conferma che anche l’altro si preoccupi in tal modo. La responsabilità è prettamente individuale: le azioni compiute da un soggetto sono particolari, uniche, avvengono in situazioni e contesti spazio-temporali irripetibili e dunque possono essere compiute solo da quel particolare soggetto. Esse, perciò, sono imputabili soltanto a lui. Ognuno, dunque, avendo compreso il potenziale del proprio agire, deve ritenersi il primo responsabile ed agire di conseguenza, indipendentemente dal fatto che gli altri soggetti facciano altrettanto.

Certo, rimane la possibilità di giudicare un altro agente morale che non si fa carico di questa responsabilità, ma non credo sia possibile trovare nell’irresponsabilità altrui una giustificazione per la propria. Per lo stesso motivo trovo insensato biasimare il leone perchè uccide una gazzella e affermare che, dal momento che gli animali non seguono principi morali, noi non dovremmo seguirne nei loro confronti.

Noi esseri umani siamo in grado di formulare principi etici? Sì.

Comprendiamo di avere certe responsabilità, obblighi e doveri? Sì.

Se si concorda sul fatto che anche gli animali possono esseri lesi dal nostro agire, non possiamo tirarci indietro dalle nostre responsabilità nei loro confronti.

Ultimo aspetto che vorrei trattare è la possibilità che gli animali facciano del male all’essere umano. È vero, è possibile, allo stesso modo in cui ci si uccide tra esseri umani stessi. È indubbio, però, che l’influenza umana su di loro è enorme e la quantità di sofferenza che l’essere umano infligge è spropositata (e anche bel celata, se si pensa alla distanza dalle nostre vite e all’impenetrabilità di laboratori, allevamenti industriali e macelli). Non li colpiamo solo direttamente (uccidendoli, testando su di loro prodotti chimici, per esempio), ma anche indirettamente, con azioni che sono in grado di impattare sulle condizioni di vita sulla Terra. Mi riferisco all’inquinamento delle acque e dei suoli, all’emissione di anidride carbonica, alla deforestazione. È necessario tenere a mente che queste non sono dinamiche ‘più grandi del singolo’, o meglio, in un certo senso lo sono perchè non è nessuna singola azione a provocarle. Però esse sono il risultato di numerosissime azioni di singoli individui. Ognuno di noi ha la possibilità di agire in senso opposto, di fare qualcosa il cui impatto non sarà di certo visibile ma se unito ad una moltitudine di altra azioni può fare la differenza. Se un insieme di azioni individuali ha questi effetti devastanti sul pianeta, solo un insieme di azioni individuali può cambiare la rotta.

La responsabilità umana è enorme, l’impatto che le azioni di ognuno di noi possono produrre ha scala grandissima. Partiamo da qua: dal ripensarci come esseri inseriti nell’ambiente tra altri esseri viventi, e ripartiamo ripensando a cosa il nostro agire produce in questo ecosistema condiviso che è la Terra.

RIFERIMENTI:

Adams Carol J., Alice Crary, Lori Gruen, The Good It Promises, the Harm It Does : Critical Essays on Effective Altruism. Oxford University Press, New York, 2023.

Allegri Francesco, Gli animali e l’etica, Mimesis, Milano, 2015.

Franklin Julian H., Animal Rights and Moral Philosophy, Columbia University Press, New York, 2005.

Kahane Howard, Contract Ethics : Evolutionary Biology and the Moral Sentiments. Lanham, Md. ; Rowman & Littlefield, 1995.

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

PER APPROFONDIRE:

Rawls John, A theory of justice. Rev. Oxford University Press, Oxford, 1999.

Regan Tom, The case for animal rights, University of California Press, Berkeley, 2014.

Agenti semiotici, pazienti morali

Agenti semiotici, pazienti morali

La biosemiotica è un disciplina recente, sviluppatasi dagli anni ’90 del secolo scorso, anche se fa propri metodi, idee e concetti sviluppati precedentemente in altri ambiti (quello della semiotica, in particolare) e riprende intuizioni già presenti nei testi di Von Uexkull, biologo ed etologo vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900.

Se la semiotica è lo studio dei segni in particolare nell’ambito della cultura umana, la bio-semiotica estende questo studio all’ambito della vita biologica. Essa propone di pensare alla vita come a qualcosa che ha a che fare con la percezione di significati e l’azione ad essi coordinata. Il paradigma della biosemiotica si estende dalle piante agli animali, fino alle cellule e agli ecosistemi: tutto ciò che riguarda la vita, secondo la biosemiotica, può essere interpretato come qualcosa che intrattiene relazioni con l’esterno basate su scambio e interpretazione di segni.

In questa sede ci limitiamo a considerare l’interpretazione biosemiotica degli animali (zoosemiotica) e mostreremo perchè è rilevante per la nostra moralità.

Partiamo subito col dire che il paradigma biosemiotico si oppone a quello meccanicista, che vede gli animali come macchine, ‘qualcosa’ che risponde in maniera fissa e automatica agli stimoli esterni. Seppur questa interpretazione sia datata (risale a Cartesio, nel 600) e pochi ammetterebbero ad alta voce di sostenerla, è ancora più diffusa di quanto non si immagini. Ogni volta che si avanza un dubbio sulla capacità degli animali di imparare, sul loro disinteresse per le condizioni della propria vita, sulla loro incapacità di comunicare, ecco che si è Cartesiani.

L’animale biosemiotico è un agente semiotico, ossia un essere attivo in grado di percepire gli stimoli esterni, dotarli di un significato e agire in maniera coerente a questo. La novità di questo paradigma è l’interpretazione dei rapporti tra animale e ambiente esterno come rapporti basati su segni e significati. Quando percepito, uno stimolo non è mai neutro, ma riveste un significato, ossia è segno che rimanda ad altro. Una crocchetta non è ‘massa solida marrone’ ma ‘cibo’, un nido non è ‘struttura concava’ ma ‘riparo’. In accordo con questi significati, l’animale attua un comportamento coerente: mangiare la crocchetta, ripararsi nel nido.

Ora, i significati sono un’entità particolare. Ad ogni oggetto non corrisponde un solo significato, ma tanti quanti sono gli agenti semiotici che lo percepiscono. Un nido è ‘riparo’ ma è anche ‘luogo da saccheggiare per prendere cibo’. Ma, complicazione su complicazione, uno stesso oggetto o situazione esterna può avere diversi significati anche per lo stesso soggetto. Le condizioni interne di un organismo, ossia stato emotivo, bisogni e necessità contingenti, determinano il modo in cui esso percepisce l’esterno e i significati attribuiti. Sarà capitato a tutti di sedersi su una sedia per mangiare al tavolo o usarla come sgabello per arrivare allo sportello più alto della cucina: necessità differenti fanno sì che la stessa situazione sia dotata di diversi significati. Questo avviene anche per gli animali, come per il paguro che si ciba dell’anemone quando ha fame o la usa come riparo quando si sente in pericolo. Questa moltiplicazioni di possibili sensi significa che essi non sono immanenti agli oggetti. Non sono, però, nemmeno una libera invenzione degli animali: la realtà non si lascia plasmare ad libitum, ma pone limiti e freni alle possibili interpretazioni. Una crocchetta può essere cibo, ma non riparo. I significati, dunque, sono un’entità ibrida che sorge all’incrocio tra il soggetto, il suo stato interno e la situazione esterna dove quest’ultima suggerisce un range di possibili letture.

Tutto ciò implica il fatto che non esista un significato assolutamente vero e uno assolutamente falso: certo, è possibile che un organismo si bagli totalmente nell’interpretazione (pensiamo alle illusioni, per esempio), ma non è possibile affermare che esista uno e un solo modo di interpretare il reale. Ce ne sono tanti quanti organismi e ogni significato è vero per l’organismo che lo attribuisce.

Come si capisce, il paradigma biosemiotico non vede nulla di fisso e automatico nel comportamento animale come invece voleva il meccanicismo: ogni essere vivente è attivo nell’interpretare la realtà, libero di dare significati nei limiti posti dalla realtà stessa e in grado di agire sulla base della propria interpretazione. Per riassumere si potrebbe dire che l’agente semiotico è colui che, interpretando i segni esterni, utilizza questi come informazioni per modellare il proprio comportamento.

Passiamo ora all’aspetto della moralità che credo fortemente necessiti di una revisione alla luce della teoria biosemiotica. In particolare sono convinta del legame profondo tra i concetti di agente semiotico e paziente morale.

Per paziente morale si intende colui che è beneficiario di un trattamento morale, cioè colui verso il quale si dirigono le preoccupazioni morali. L’agente morale, invece, è colui che si pone il problema della moralità e agisce in base ai suoi principi. Non è questa la sede per discutere della possibilità (o necessità?) che ogni animale sia anche agente morale, ma è un argomento interessante di cui rimando la discussione al prossimo articolo.

Noi siamo agenti morali e ancora oggi ci preoccupiamo davvero troppo poco degli altri animali. Sono convinta che il paradigma biosemiotico possa rispondere in maniera esaustiva al domande come: perchè dovremmo estendere la nostra moralità a tutti gli animali? Perchè ci dovrebbe importare di loro? Perchè dovremmo farne dei pazienti morali? Le risposte stanno nel concetto di agente semiotico.

Come abbiamo visto, l’agente semiotico è un organismo in grado di percepire e dare autonomamente un senso a ciò che avverte dell’esterno. Anche le azioni umane incrociano gli organi percettivi degli altri organismi, che dunque le interpretano e dotano di un significato. Come già detto sopra, i significati non sono univoci, ma ne esistono tanti quanti sono gli agenti semiotici. Quando ci mettiamo in relazione con un essere vivente le nostre azioni possono essere percepite e interpretate in modi differenti dal nostro, in modi che noi, in quanto esseri umani, non possiamo né determinare né prevedere appieno perchè sono relativi all’altro soggetto, ai suoi organi percettivi e stati interni.

Come abbiamo già detto, non esiste un significato vero in assoluto, perciò non è possibile farne una scala gerarchica: il sistema semiotico umano è uno dei tanti possibili, non il migliore e non quello più ‘vero’, ma è uno dei tanti possibili, tutti differenti gli uni dagli altri e tutti posti sullo stesso piano valoriale. Questo perchè ogni sistema semiotico è vero relativamente al soggetto che lo ‘abita’. Questo significa che non possiamo appellarci ad una qualche ‘supremazia’ per schiacciare sistemi semiotici non umani.

Ogni animale, in quanto agente semiotico, è una prima persona percettiva che non recepisce passivamente gli stimoli esterni ma attivamente li interpreta e utilizza per agire: è interessato agli stimoli e sensibile nei loro confronti. Le nostre azioni nei confronti di un animale, dunque, lo concernono, vengono recepite e utilizzate da lui come segni e informazioni per l’azione: hanno, cioè, un impatto sulla conduzione della sua esistenza.

Le nostre azioni, però, non impattano solo direttamente sugli animali ma possono anche urtali indirettamente andando a ledere le relazioni semiotiche significative che intrattengono con l’ambiente circostante. Abbattendo una foresta, per esempio, potremmo aver cura di non uccidere attivamente gli animali che vi abitano, ma questo non è sufficiente: la foresta è significativa per questi esseri. Abbattendola stiamo facendo venir meno una relazione importante per loro. Il nostri interesse deve prevalere? Abbattere foreste è un bisogno vitale per l’essere umano? No. Se facciamo nostro il paradigma biosemiotico dobbiamo riconoscere che foresta non è solo ‘legna su cui guadagnare’ ma anche ‘casa’, ‘protezione’, ‘luogo di caccia’ e non siamo giustificati a far prevalere il nostro interesse (non vitale) su altri (ben più vitali) di altri soggetti. Preservare un organismo, insomma, significa preservarne la vita e anche le relazioni significative e vitali che intrattiene con l’esterno.

In conclusione, in quanto esseri umani dobbiamo riconoscere di non essere gli unici agenti semiotici, che i nostri significati, le nostre relazioni con l’esterno non sono né le uniche né quelle di maggior valore. Dobbiamo fare un passo indietro e chiederci giorno dopo giorno se con le nostre azioni stiamo urtando qualcuno che ha il nostro stesso diritto ad essere.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Rachels James, Created From Animals. The Moral Implications of Darwinism, Oxford University Press, Oxford, 1990. Edizione utilizzata: Creati dagli animali: implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1996.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Agency in Non-human Organisms, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 95-122, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, p. 96.

Sharov Alexei, Tønnessen Morten, Conceptualizing Agency, in Semiotic Agency. Science beyond mechanism, a cura di Alexei Sharov, Morten Tønnessen, Springer, New York, 2021, pp. 153-188, disponibile on line https://doi.org/10.1007/978-3-030-89484-9_6, consultato in data 21/11/2022, pp. 163-164.

Tønnessen Morten, Umwelt Transitions: Uexküll and Environmental Change, in “Biosemiotics”, Vol. 2, n° 1, 2009, pp. 47-64, DOI 10.1007/s12304-008-9036-y, consultato in data 11/11/2022.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale”: rileggere un testo del 1962.

“Psicologia umana e psicologia animale” è un testo ormai datato. Scritto da Frederick Jacobus Johannes Buytendijk (1887-1974), antropologo, biologo e psicologo olandese, nel 1962 rimane un testo affascinante per diversi aspetti e, nonostante la psicologia comparata e in generale gli studi sul comportamento animale abbiano fatto passi da gigante da allora, vi si possono leggere note importanti soprattutto di carattere epistemologico e metodologico.

Così come fa l’autore nel testo, partiamo da una chiarificazione: la psicologia comparata non si occupa di ciò che uomini o altri animali hanno ‘nella mente’, ma “ha il compito di ricercare, cioè di descrivere e spiegare le affinità, le analogie e le differenze nel comportamento”(p. 7).

Cosa centra la psicologia col comportamento? Molto, a dire il vero e questo perchè il comportamento è un certo tipo di azione, un’azione con caratteri peculiari che la contraddistinguono dalla caduta di un masso o dal movimento delle foglie, per esempio. Il comportamento è un agire che ha significato in una specifica situazione, è una “forma di manifestazione di un rapporto significativo fra un uomo o un animale e il mondo che lo circonda” (p. 17). Il comportamento ha a che fare con l’essere in situazione di un soggetto, cioè il suo essere calato in un contesto dinamico che ha per lui un certo significato, sulla base del quale modula le sue azioni.

Si capisce, dunque, perchè Buytendijk ritenga analisi fisiologica e anatomica insufficienti a spiegare il ‘perchè’ un organismo si comporti in un certo modo: studiando le cause fisiche e chimiche dei processi vitali e quelle strutturali del corpo vengono messe in luce solo le condizioni del comportamento, cioè il range di possibilità di movimento ed espressione proprie di ogni animale. Esse spiegano ciò che un animale può fare, non il perchè faccia ciò che fa. Una più completa analisi del comportamento non può prescindere da uno studio sui motivi di esso. Il motivo è un fattore che agisce qualitativamente e non quantitativamente nella determinazione del comportamento di un soggetto e, sebbene non se ne trovi una definizione esplicita nel testo, possiamo intenderlo come la risultante del rapporto tra l’animale, la situazione e il significato che essa riveste per il primo.

Chiariamo questo punto. Secondo Buytendijk il rapporto tra organismo e ambiente non è unidirezionale, ma vicendevole. L’ambiente è sorgente di stimoli che non agiscono semplicemente come cause meccaniche in grado di determinare automaticamente certe reazioni nell’animale. Gli stimoli hanno un aspetto qualitativo: il significato che viene loro attribuito dall’organismo che li percepisce.

Ogni soggetto, quindi, non è totalmente passivo di fronte all’ambiente, non è un contenitore vuoto che accoglie gli stimoli così come sono, ma, come già affermava Uexkull nei suoi testi, è attivo sia nel dare un significato agli stimoli percepiti, sia nella percezione stessa. Da una parte, infatti, gli organi sensoriali agiscono come a-priori esperienziali permettendo al soggetto l’accesso solo a determinati stimoli, dall’altra perchè lo stato interno del soggetto stesso determina il modo in cui tali stimoli vengono percepiti. In ogni istante della sua vita, ogni organismo si trova nell’ambiente in una certa ‘disposizione’, cioè con certi stati d’animo, desideri, necessità che determinano la maniera in cui il soggetto percepisce la situazione e il significato che le attribuisce. Personalmente trovo molto efficace per chiarire questo punto l’esempio fatto da Uexkull in “Ambienti animali e ambienti umani” circa il rapporto tra paguro e anemone: quanto incontra quest’ultima, il primo attua diversi comportamenti, dimostrando di proiettare diversi significati sull’anemone. Se è affamato, il paguro si avvicina per mangiarla: l’anemone, in questo caso è ‘cibo’; ma se si trova privo di una conchiglia protettiva e in situazione di pericolo, il paguro la utilizza come riparo nascondendosi al suo interno: l’anemone, ora, è ‘rifugio’.

Il rapporto soggetto-ambiente, dunque, non è unidirezionale, ma circolare, dove l’uno determina l’altro e viceversa, ed è “implicativo, cioè (…) corrisponde all’espressione ‘quando-allora’” (p. 51), poiché, date certe condizioni ambientali percepite in un certo modo e rivestite di un certo significato, l’animale attua un comportamento in risposta ad esse. Ecco allora che la motivazione è quel fattore qualitativo nella determinazione di un comportamento che sorge all’incrocio tra i due vettori di questo rapporto reciproco; essa è uno stimolo significativo, letto attraverso la lente della disposizione del soggetto, che spinge quest’ultimo a comportarsi in un determinato modo.

Questo nucleo teorico mi sembra interessante e attuale. Diversi filosofi si troverebbero d’accordo con questa lettura del comportamento e, personalmente, la ritengo incredibilmente trasformativa: è una lente concettuale che ci permettere di pensare in maniera differente noi esseri umani, gli altri animali e i rapporti che ci legano. Non macchine, non esseri passivi, ma ‘menti’ che interpretano il mondo e rispondono ad esso.

Altro spunto interessante è la convinzione di Buytendijk nel considerare come condizione preliminare per lo studio della psicologia comparata il riconoscimento di una continuità tra uomo e animale. Per questo motivo afferma che la psicologia comparata è legata all’antropologia: a seconda della concezione dell’uomo assunta cambia la possibilità e la metodologia con cui si effettua la comparazione. Se si concepisce l’umano come elevato, lontano e totalmente differente dagli altri animali, non c’è spazio per la comparazione.

Buytendijk opta per la continuità e quindi per la possibilità di una comparazione. Nel farlo, però, è importante non cadere nell’errore di utilizzare ciò che è umano come metro di misura per valutare le altre esistenze. Più volte l’autore mette in guardia circa la necessità di tener conto del fatto che quando si parla di comportamento, situazione o azione ‘significative’, questo ‘significative’ è da intendere come ciò che è tale per il soggetto che la osserva o compie, non per l’osservatore che la studia. Questo è estremamente importante e assolutamente in linea con le ricerche attuali in campo biosemiotico: se consideriamo ogni organismo un soggetto il cui comportamento è motivato da un certo significato che una situazione riveste ai suoi occhi, allora per comprendere le azioni altrui non dobbiamo rifarci al significato che la situazione assume per i nostri occhi umani, ma a quello assunto per l’occhio dell’animale coinvolto. Questo significa riportare l’uomo tra gli animali come uno di essi, come uno dei tanti sguardi sullo spettacolo del mondo. Ma significa anche ammettere la possibilità di non comprendere affatto un comportamento osservato. Non possiamo sapere tutto perchè non siamo osservatori puri o onniscenti, ma sempre calati in un certo modo di vedere, percepire, dare significato al mondo. L’agire altrui è un comportarsi ed esiste come tale anche quando non lo comprendiamo: è un agire significativo per altre menti, altri corpi e altre letture del mondo cui non possiamo accedere. Non dobbiamo farlo scadere a meccanismo pur di affermare di poterlo studiare e analizzare per comprenderlo a fondo ed esaurirlo. Lasciamo che l’ignoto continui a sorprenderci.

Lungo il testo, comunque, Buytendijk non rinuncia a sottolineare e ricercare ciò che contraddistingue l’uomo, ritrovandolo in diversi aspetti del comportamento che vanno dalla capacità astrattive, creativa e immaginativa al linguaggio articolato. Ci sarebbe molto da dire e puntualizzare: non sembra che questa analisi proceda verso una ricerca di elevazione dell’uomo (come abbiamo detto, opta per una continuità e quindi le differenze sono più gradi che salti qualitativi), ma molti aspetti del comportamento da lui definiti come ‘propri dell’uomo’ non mi soddisfano e oggi non li riterremmo più tali. Per un approfondimento vi invito a leggere il testo ma potrebbero essere temi ripresi nei prossimi articoli su questo blog.

Spunti estremamente interessanti si trovano nell’ultimo capitolo, dedicato all’analisi dell’intelligenza. Coerentemente con quanto sostenuto lungo il testo, Buytendijk afferma che “l’intelligenza del comportamento può essere giudicata solo dal punto di vista del soggetto, dalla sua esperienza, dai suoi impulsi e dal tipo di significato che alla situazione dà il soggetto stesso” (p. 137). Questo passaggio è estremamente fecondo. Innanzitutto perchè mette in dubbio la validità di tutta una serie di esperimenti sugli animali grazie ai cui risultati è stato possibile giudicare come privi di intelligenza gli animali non umani. La stessa situazione, si è detto, è percepita e interpretata in modi differenti da esseri viventi differenti. Sottoponendo un animale ad un test tarato sulle abilità percettive e cognitive umane per determinare se sia intelligente o meno stiamo in realtà sostenendo che l’unica forma di intelligenza possibile sia quella umana; stiamo dando per scontato che l’unico modo di leggere il mondo sia quello umano e stiamo disconoscendo il punto di vista dell’animale sulla situazione.

Con questi esperimenti stiamo sottoponendo all’animale le domande sbagliate, domande tarate sulle capacità e percezione umane, domande che, se incrociano i sensi dell’altro animale, non lo fanno allo stesso modo nostro e che, se rivestono ai suoi occhi un significato, è possibile ne rivestano tanti differenti quanti sono i sensi che li percepiscono. A parità di situazione e di problema da risolvere specie diverse possono comportarsi in maniera diversa, ma questo non significa che certi comportamenti sono più intelligenti di altri: sono modi diversi di rispondere ad una stessa situazione percepita in maniera diversa e dotata di significati differenti (p. 150). Dunque, non esiste una sola risposta ‘intelligente’ o ‘corretta’ ed è ingenuo giudicare come non intelligente un animale che semplicemente non si comporta come farebbe l’essere umano. Intelligenza non è sinonimo di intelligenza umana: ci sono tante intelligenze differenti che fanno riferimento alle possibilità fisiche, biologiche e cognitive di ogni animale (p. 146).

Per giudicare come intelligente un certo comportamento, dunque, dobbiamo prima conoscere a fondo l’animale e i suoi comportamenti ‘normali’. A partire da questo, Buytendijk definisce come intelligente un comportamento non dettato dall’abitudine, ma dall’esperienza sensibile (p. 138), “un comportamento organizzato” (p. 140) che ha senso nei confronti della situazione. Intelligente è un comportamento che tiene conto del contesto e si adatta ad esso, rispondendo in modo adeguato secondo la lettura, il significato che una situazione ha per ciascun soggetto.

Per quanto ormai datato questo testo è una miniera di spunti di riflessione da riprendere, contestualizzare e aggiornare con l’apporto delle scoperte più recenti. Credo che proprio per la sua capacità di veicolare un certo modo di pensare ad uomo e animale che oggi non è ancora stato metabolizzato dal pensiero comune si possa considerare ‘attuale’ e suggerire come una lettura ancora valida, ancora in grado di parlare.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Frederik Jacobus Johannes Buytendijk, Psicologia umana e psicologia animale, Garzanti, Milano, 1962.

Jakob von.Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani : una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata, 2019.

Il mondo delle simbiosi narrato da Josef Reichholf

Il mondo delle simbiosi narrato da Josef Reichholf

“Ogni amico è un tesoro” è il titolo del testo di Josef Reichholf, zoologo, biologo ed ecologo tedesco, edito per la prima volta nel 2017 e pubblicato in Italia da Aboca nel 2022.

Se volete farvi affascinare, stupire e conoscere qualcosa in più del mondo ricco e sorprendente in cui viviamo, non potete non addentrarvi nelle sue pagine. Con una scrittura scorrevole e accessibile Reichholf ci accompagna nel mondo delle simbiosi, raccontando trenta casi di convivenza intraspecifica esistenti in natura.

Con il termine ‘simbiosi’ l’autore non intende solo i casi di stretta interazione biologica, come il classico esempio del lichene (cui, comunque, dedica un capitolo), bensì ogni relazione di reciproca utilità e vantaggio instauratasi tra forme di vita differenti.

Una simbiosi è una convivenza che apporta vantaggi a tutte le parti coinvolte: attenzione, però, a credere che tali vantaggi siano paritari ed equamente distribuiti. Essendo coinvolti organismi differenti, i benefici che essi traggono dalla relazione sono ‘personali’, relativi ai bisogni e necessità di ciascuno e quindi non facilmente paragonabili. Non è possibile trovare un’unità di misura comune in grado di quantificare i vantaggi per distribuirli equamente. Ciò che noi esseri umani potremmo giudicare un ‘piccolo’ vantaggio per una forma di vita potrebbe invece essere essere di estrema importanza dal suo punto di vista. Ciò che intendo dire, insomma, è che le simbiosi non devono essere necessariamente relazioni di simmetrica reciprocità e pari vantaggi: organismi diversi possono convivere pacificamente e scambiarsi benefici anche là dove per uno dei due il guadagno pare minimo.

La simbiosi è un legame che può essere più o meno stretto, in cui gli organismi possono raggiungere livelli di dipendenza reciproca più o meno marcati. Così accanto al caso dei licheni, un’interazione strettissima tra fungo e alga, c’è la simbiosi che unisce le bufaghe agli erbivori della savana, o l’oca al capriolo, caso, quest’ultimo, in cui il rapporto è maggiormente circostanziale e i protagonisti rimangono largamente indipendenti gli uni dagli altri.

Le simbiosi, casi di convivenza cooperativa tra forme di vita, sono più all’ordine del giorno di quanto immaginiamo e sono testimonianza del fatto che in natura tutto è connesso, nessuno è un’isola, ognuno dipende da ciò che lo circonda e viceversa.

Il punto su cui il testo mi ha fatto più riflettere, però, è un elemento non espresso direttamente da Reichhof ma che corre sottotraccia all’intero volume e di cui ogni ogni esempio è eco: la fragilità. Le relazioni simbiotiche, ogni rapporto vitale tra organismi con differenti obiettivi, bisogni, interessi e visioni del mondo è intrinsecamente fragile.

In primo luogo, come abbiamo visto, la simbiosi è un rapporto di reciproco vantaggio: essa sussiste finchè il bilancio tra vantaggi e svantaggi, tra i guadagni derivanti dalla relazione con l’altro e la fatica e tensione nel mantenerla, va a favore dei primi. Questo bilancio è una contrattazione continua, che si dà lungo il tempo, all’interno di una relazione non retta da codici o leggi, ma autoregolata. Basta poco perchè la relazione si spezzi e un attore decida che non vale più la pena fare sacrifici per mantenerla in vita. La simbiosi è sempre instabile, delicata proprio perchè autoregolata.

In secondo luogo, essa è fragile anche perchè basta poco a farla sfociare nel parassitismo e nello sfruttamento. Il lupo potrebbe mangiare l’intera preda trovata morta tra la neve, scovata grazie al richiamo dei corvi, senza lasciare nessuna parte a quest’ultimi; potrebbe sfruttare il loro gracchiare e saziarsi più del sufficiente, egoisticamente. Il rapporto diventerebbe di vantaggio unilaterale a spese dell’altro: appunto, una forma di parassitismo. È l’autolimitazione del lupo, la sua capacità di saziarsi quanto basta e lasciare il resto a coloro che lo hanno condotto lì, a far sì che questa relazione perduri e funzioni, apportando vantaggi reciproci (capitolo 5).

Queste fragilità ne rivelano un’altra: ogni simbiosi funziona e perdura in un ambiente e in un contesto determinati. Solo in specifiche condizioni ecologiche una determinata forma di convivenza può sussistere e funzionare nel tempo. Questo significa che basta un minimo cambiamento ambientale per stravolgerla, ridefinirne i termini o renderla inutile e farla venir meno. Per esempio, la cooperazione tra oche e caprioli si è consolidata solo negli ultimi secoli, per via della caccia praticata dagli uomini con armi a lungo raggio. Per fronteggiare questa novità, le due specie hanno imparato a fare affidamento sui rispettivi segnali d’allarme: le oche contano su udito e olfatto dei caprioli, questi ultimi sulla vista delle prime per avvertirsi reciprocamente di un pericolo imminente (capitolo 2). Il venir meno della caccia potrebbe far venir meno la collaborazione tra oche e caprioli, così come potrebbe essere bastata l’estinzione dei Dodo a provocare la progressiva estinzione della pianta che si affidava a questa specie di uccello per spargere i suoi semi e riprodursi (capitolo 9). Ogni minimo cambiamento nelle condizioni ambientali, insomma, può apportare novità per fronteggiare le quali gli organismi potrebbero necessitare di certi tipi di rapporti mentre altri potrebbero risultare ormai inutili.

Ogni rapporto cooperativo, dunque, nasce e ha senso in un contesto e quindi non è ‘assoluto’, non esiste da sempre e per sempre e non è sempre e comunque vantaggioso. Ogni relazione tra organismi è frutto di un lento adattamento reciproco avvenuto lungo tempo in risposta a certe sfide ambientali e a certi contesti. Ogni simbiosi parla di un dialogo tra organismi diversi che si sono sintonizzati, adattati l’uno alle esigenze dell’altro e viceversa, sfruttando l’uno le abilità e i punti di forza che l’altro mette a disposizione per fronteggiare le stesse pressioni ambientali. Ogni rapporto cooperativo è fragile, instabile, provvisorio e dipendente dal contesto.

Reichholf conclude il suo testo chiedendosi se il rapporto che l’uomo intrattiene con la natura e le forme di vita intorno a lui sia un caso di simbiosi. Esistono vantaggi reciproci o l’essere umano è più un parassita per la natura? Lascio a voi la curiosità di leggerne le argomentazioni e la volontà di riflettere su questa domanda.

Oltre alla relazione uomo-natura, ciò su cui questo testo mi ha fatto più riflettere (e con cui vorrei concludere questo articolo) è il ruolo dell’essere umano in quanto ‘terzo’ rispetto alle relazioni simbiotiche esistenti. Quanto le nostre azioni impattano sulle relazioni sussistenti tra forme di vista? Quanto interferiamo in esse? Nella nostra quotidianità tale interferenza è per lo più indiretta: non ci immergiamo nelle barriere coralline a impedire ai pesci pagliaccio di ripararsi nelle anemoni. L’interferenza non è diretta e perciò è più difficile da scorgere, comprendere e averne consapevolezza. Le azioni umane, però, hanno un grandissimo impatto sulla terra. Pensiamo alla deforestazione, all’inquinamento di acque, suolo e aria, ad allevamento e agricoltura intensivi, alla crescita dei centri urbani a discapito delle campagne e delle zone incolte: tutte azioni che modificano radicalmente e profondamente l’ambiente e con lui le condizioni di vita degli organismi che ci vivono. Abbiamo parlato della fragilità delle relazioni simbiotiche, del loro essere dipendenti dal contesto, dal loro sussistere solo in determinate condizioni: con le nostre azioni siamo stati (e ancora lo siamo) in grado di stravolgere queste condizioni e quindi di impattare anche sui rapporti vitali esistenti. Chissà quante specie animali e vegetali a noi sconosciute si sono già estinte a causa nostra, da aggiungere a quelle di cui già sappiamo aver causato l’estinzione. Chissà quanti legami vitali abbiamo interrotto. E non possiamo far nulla per riparare: quel che è stato è stato, quel che è mutato lo è per sempre, non si ripropongono due volte allo stesso modo identiche condizioni e quindi relazioni.

Nuove circostanze, però, portano con sé nuove relazioni. Se quello che imponiamo al mondo è un semplice cambiamento allora vecchi rapporti verranno rivisti e nuovi si stabiliranno, dov’è il problema? Perchè dovrebbe essere un ‘male’ questo cambiamento? Dopotutto, non è ciò che succede naturalmente nel corso del tempo con l’evoluzione? La si potrebbe pensare così solo a patto di due considerazioni: in primo luogo, che l’impatto antropico sul mondo crei nuove condizioni vivibili e abitabili. Il che non è scontato. In secondo luogo, a patto che non ci curiamo dei singoli individui danneggiati dai cambiamenti. Se ogni esistenza ha lo stesso valore non possiamo giustificare la distruzione di questa e delle sue relazioni in nome di una futura vita che verrà e beneficerà del cambiamento.

Mi piace, però, pensare che ogni giorno è una novità, che in ogni giorno ciascuno di noi agisce e compie delle scelte. Nolenti o volenti abbiamo un impatto ma ci è data la possibilità, giorno dopo giorno, di scegliere come vivere, quali gesti compiere, come condurre la nostra esistenza. Abbiamo la possibilità di scegliere di conoscere la natura e le sue relazioni e di rispettarle attraverso azioni quotidiane sostenibili e compatibili. Possiamo scegliere se vivere da parassiti o intessere relazioni simbiotiche con le forme di vita con cui condividiamo il pianeta. Possiamo scegliere di vivere con la consapevolezza di essere parte di un tessuto vivente di cui non siamo proprietari, ma solo parti prese in mezzo.

Mimetismo: forme fatte per essere interpretate

Mimetismo: forme fatte per essere interpretate

Il mimetismo è un fenomeno naturale la cui complessità e varietà sono direttamente proporzionali a fascino e stupore suscitati. La prima immagine che comunemente gli si associa è il camaleonte che cambia il colore della propria pelle riprendendo in modo talmente accurato quello dell’ambiente circostante da risultare invisibile. Questo è un esempio di ‘mimetismo criptico’, solo una delle tante tipologie con cui si è tentato di categorizzare il fenomeno. Accanto a questo ricordo solo quello batesiano in cui una specie imita forme, colori, comportamenti o suoni di una specie differente, più temuta dai propri predatori, e quello peckhamiano quando avviene l’opposto, quindi una specie nociva o pericolosa ne imita una meno aggressiva per far avvicinare le prede [per approfondimento si veda Maran 2017, pp. 16-18].

Gli studi che hanno cercato di classificare il mimetismo sono tanti, variegati e i risultati poco concordanti perchè il fenomeno è talmente complesso, ricco e variegato da rendere ogni tentativo classificatorio insufficiente. Basti pensare a quante sotto-categorie del mimetismo criptico sono pensabili: ci sono animali che nascono con un pelo adatto al camuffamento, altri che cambiano il colore lungo la vita come alcuni granchi, altri in grado di cambiarlo repentinamente come il camaleonte o ancora altri che usano materiali naturali per nascondersi, scegliendo quelli più adeguati e funzionali in base al contesto [Maran 2017, p. 75-76].

Accanto a questo si aggiunge la complessità dovuta al punto di vista con cui lo studioso che intende classificare il fenomeno si approccia ad esso: può essere interessante suddividerlo a seconda della tecnica utilizzata dall’animale (come fa la distinzione tra batesiano e peckhamiano), o della tipologia di segnali utilizzati (distinguendo quelli che coinvolgono stimoli visivi, uditivi o chimici), o della funzione che ha per colui che mette all’opera la strategia mimetica. Non dimentichiamoci, infatti, che il mimetismo serve a sfuggire dai predatori non facendosi riconoscere o scongiurandone gli attacchi (per esempio, il mimetismo criptico impedisce il riconoscimento, mentre colori sgargianti o pattern del pelo striati interrompono e disturbano l’immagine visiva dei predatori disorientandoli [Stevens, Merilaita 2009, p. 425]), ma può essere anche rivolto ai conspecifici e avere funzione sociale e comunicativa. Il mimetismo, poi, può essere studiato come fenomeno filogenetico ed evolutivo, concentrandosi sugli aspetti genetici ed ereditari, o ontogenetico e coinvolto in processi di apprendimento, concentrandosi questa volta sulla performance del singolo.

La biosemiotica offre una delle tante prospettive possibili ed è caratterizzata dal suo intendere il mimetismo come un processo comunicativo che coinvolge mimo, modello imitato e ricevete (il destinatario della strategia). È comunicativo perchè in esso avviene uno scambio di informazioni e segnali tra i partecipanti: il mimo invia un segnale al ricevente, il quale lo interpreta nello stesso modo con cui lo interpreterebbe se provenisse dal modello, scambiando, così, il mimo per quest’ultimo [Maran 2017, p. 2]. Secondo questa prospettiva, infatti, il mimetismo non è tanto una somiglianza tra organismi, ma tra messaggi [Maran 2017, p. 9]: il mimo imita una caratteristica del modello sfruttando il significato che esso ha per il referente e impedendo a quest’ultimo di percepire il mimo per quello che è. In natura, infatti, sono rari i casi in cui una specie imita perfettamente e completamente un’altra specie: la maggior parte delle strategie mimetiche riprendono solo alcuni segnali, quelli necessari e sufficienti a ingannare al predatore.

Ma facciamo un passo indietro: quando si pensa al mimetismo, la prima cosa ad essere evidente sono le forme esterne: come afferma Portmann nel suo brillante testo La forma degli animali, ciò che conta nel mimetismo è l’apparenza. Ricordare una foglia, avere il mantello simile allo sfondo o un pattern cromatico alare identico al tronco degli alberi, sono tutti escamotage che coinvolgono la superficie esterna. Portmann le chiama ‘strutture ottiche’ intendendo sottolineare il fatto che sono strutture fatte per essere guardate, che hanno senso in relazione ad un occhio che le osserva [Portmann 2013, pp.112-114]. La maggior parte di tali strutture sono specie-specifiche, non sono scelte dal soggetto ma ereditate e legate al patrimonio genetico.

Ma la forma non è tutto: la cosa più meravigliosa e affascinante del mimetismo è che esso non funzionerebbe se la forma non fosse supportata da un comportamento adatto in un contesto adatto [Portmann 2013, p. 121]. L’insetto stecco riesce a mimetizzarsi e passare inosservato non solo perchè la sua forma imita quella di un ramoscello, ma anche perchè assume una posizione coerente in un ambiente ricco di ramoscelli. La mantide Hymenopus coronatusè, con le tibie che ricordano petali e un colore tra il bianco e il rosa, risulta indistinguibile dai fiori delle orchidee solo se rimane immobile tra essi assumendo una posizione corporea specifica [Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Hymenopus_coronatus].

Il mimetismo è anche performance e in essa l‘apparenza visibile non è tutto, anzi! Il mimetismo è per lo più multisensoriale, ossia può sfruttare sguardo, odorato o udito dei predatori cui intende sfuggire. Il caso forse più estremo e impressionante è quello dell’opossum: il piccolo mammifero si finge morto sdraiandosi a pancia all’aria, spalancando la bocca e facendo uscire la lingua. Questa si colora di blu e il corpo inizia ad emettere un sentore di morte e ad espellere feci e urine. Il battito del cuore rallenta, seguito dalla respirazione [Monsó 2022, p. 174]. Impressionante finezza, vero?

Ma sono comportamenti scelti, appresi e intenzionali? O innati e istintivi? L’opossum sa che atteggiandosi a quel modo sembra morto? Difficile dirlo, ma evidentemente deve sapere almeno che la strategia funziona: lungo la sua vita ogni individuo deve aver fatto esperienza di un conspecifico scampato in questo modo ad un’aggressione e deve aver testato la funzionalità della strategia in un momento di pericolo sulla sua stessa pelle. Forse l’opossum non sa che così sembra morto, ma a saperlo è di certo il predatore che, disgustato, rinuncia al banchetto. Se la tecnica funziona è perchè quest’ultimo sa distinguere una preda morta (cattiva e nociva se mangiata) da una viva [Monsó 2022, pp. 230-232].

Questo per dire che forse il mimo potrebbe mimetizzarsi anche ‘inconsapevolmente’, potrebbe non sapere che forma assume e a cosa somiglia, ma solo che la tecnica funziona. Ma, come la biosemiotica sottolinea, è l’occhio del ricevente ad essere centrale nel sistema semiotico: questo è da ingannare, questo è il destinatario della performance. Perchè la strategia mimetica funzioni poco importa che i segnali coinvolti siano compresi e interpretati dal mimo: importa solo che vengano percepiti e significhino qualcosa per il ricevente. La strategia mimetica è fatta per lui e funziona sfruttando i suoi concetti, scelte e sensi. Non è importante che la preda riconosca la propria apparenza e la interpreti allo stesso modo del predatore: è solo l’apparato percettivo di quest’ultimo ad essere importante per la riuscita della strategia [Maran 2011, pp.170-175].

Il mimetismo è benefico per il mimo oppure no a seconda dell’interpretazione che ne fa il ricevente e del suo conseguente comportamento ed è quindi il ricevente stesso a determinare le dinamiche del sistema mimetico: sono i suoi apparati, preferenze, paure e categorie a determinare cosa e in che modo la preda imiterà [Maran 2017, p. 29]. Il caso dei polpi aiuta a chiarire questi punti: il polpo sa cambiare colore molto velocemente per mimetizzarsi con il contesto ma lui, con una sola classe di fotorecettori, ha una vista monocromatica cui sfugge la complessità di sfumature colorate che può assumere [Yong 2023, pp 118-119]. Compie un mimetismo criptico ma di fatto lui non può vederlo e apprezzarlo: questo per dire che la strategia è fatta non per il suo occhio, ma per quello del predatore. Evidentemente tale strategia non ha un valore sociale. Il polpo, poi, sa sfruttare i suoi tentacoli per imitare altri predatori e in questo caso sa assumere forme e sembianze differenti a seconda della specie che vuole imitare: la scelta è fatta in base a quale predatore vuol allontanare e spaventare con la sua tecnica. Ecco, in questo caso è chiaro che è il ricevente a decidere le dinamiche della strategia imitativa [Maran 2017, p. 73].

L’enfasi che l’approccio biosemiotico pone sul ricevente getta nuova luce sul fenomeno, considerandolo da una prospettiva differente: ciò che conta sono i concetti, i sensi e le categorie del destinatario che fanno sì che per lui un certo segnale del mimo significhi qualcosa. Cosa deve significare? Dipende. Il mimetismo criptico funziona sfruttando l’incapacità del predatore di distinguere il contorno dell’animale dallo sfondo, l’opossum sfrutta (tra le altre cose) l’odore che il predatore associa alle carcasse. È possibile comprendere una strategia mimetica, allora, ‘osservandola’ con i sensi del ricevente, cogliendola alla luce della struttura del suo Umwelt. È necessario comprendere come il destinatario del mimetismo percepisce, che significato hanno per lui gli stimoli esterni, come li interpreta, cosa non riesce a distinguere e cosa lo disorienta: solo così si può capire a pieno perchè una strategia sia performata in certo modo e abbia certe caratteristiche.

Per questi motivi il mimetismo è molto diverso da un generico ‘nascondersi al mondo’, come afferma Marchesini: nulla è generico, tutto è perfettamente calibrato sull’ambiente circostante e sullo specifico ricevente. La tecnica dell’insetto di imitare un ramoscello funziona solo in un contesto adeguato, così come imitare il suono di una specie pericolosa funziona solo in relazione ad un predatore in grado di udire quel suono e di essere spaventato dall’animale imitato. Le strategie mimetiche sono un’opera di immersione nel contesto e somatizzazione delle relazioni di significato e interpretazione che legano tra loro gli organismi in un ambiente [Marchesini 2018, p. 88].

Proprio perchè il mimetismo non è generico ma fatto per uno specifico ricevente, per comprenderlo è necessaria un’opera di decentramento che prenda atto del fatto che l’essere umano è un terzo osservatore della strategia. Non si può comprendere il mimetismo guardando ad esso solo con occhi umani se non è fatto per ingannare i nostri occhi [Stevens, Merilaita 2009]. Non solo non siamo in grado di capire perchè alcune strategie funzionano (ciò che a noi pare perfettamente distinguibile, non lo è per un animale con sistemai percettivi differenti), ma alcune strategie possono completamente sfuggirci, come quelle che sfruttano i raggi UV per esempio. L’occhio dell’uomo non è l’unico ad osservare i fenomeni, non è l’unico a cogliere in essi significati. E così questo ci insegna che in natura probabilmente solo più le cose che ci sfuggono rispetto a quelle che percepiamo e che quelle che percepiamo hanno migliaia di altri significati per migliaia di altri esseri che li percepiscono.

Queste riflessioni ci conducono al cuore del motivo per cui ho deciso di indagare il mimetismo e al perchè è coerente con questo blog: esso rappresenta un fenomeno importante attraverso cui indagare in che modo in natura si tiene conto del fatto di essere osservati. Mimetismo è tener conto di avere un’apparenza esterna, percepita ed interpretata in un certo modo, mimetismo è prendere in considerazione l’occhio dell’altro e il come l’altro percepisce, è modellare la propria apparenza per indurre nel predatore un’interpretazione specifica che vada a favore della preda. Il mimetismo porta con sé l’occhio dell’altro: è sapere di essere visti, di avere un’apparenza che viene percepita in un certo modo e che questa apparenza determina certe azioni dell’altro. Il mimetismo è comprensibile solo comprendendo i sensi dell’organismo per cui è fatto e a cui è rivolto.

Ritengo insondabile la questione della consapevolezza e autonoma scelta del mimo nella sua strategia. Ma invece di tentare di ridurre tutto a modelli appresi, a istinti o condizionamento genetico potremmo lasciare loro il beneficio del dubbio. Se gli uomini sono in grado di consapevolezza e autonomia non vedo perchè non potrebbero farlo anche gli altri animali: partire da questo presupposto ci aiuta a sprecare meno energie nel cercare a tutti i costi un modello che spieghi il fenomeno senza parlare di soggettività e coscienza. Concedere il beneficio del dubbio significa permettere a noi stessi di rimanere affascinati di fronte al mondo e alle sue stranezze, ci permettere di abbassare le nostre pretese di onniscienza, ridurre la nostra presunzione: non possiamo spiegare tutto, non siamo gli unici sguardi interpretanti gettati sul mondo, il mondo non è fatto esclusivamente per i nostri occhi.

Gli animali sanno sorprenderci, lasciamo che continuino a farlo.

 

RIFERIMENTI:

Hymenopus coronatus” in Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Hymenopus_coronatus.

Maran Timo, Mimicry and Meaning: Structure and Semiotics of Biological Mimicry, Springer International Publishing, 2017, https://doi.org/10.1007/978-3-319-50317-2.

Maran Timo, Structure and semiosis in Biological Mimicry, in Towards a Semiotic Biology : Life Is the Action of Signs, a cura di Kull Kalevi e Claus Emmeche, Imperial college press, London, 2011, pp. 167-178.

Marchesini Roberto, Geometrie esistenziali : le diverse abilità nel mondo animale, Apeiron, Bologna, 2018.

Monsó Susana, L’opossum di Schrödinger: come vivono e percepiscono la morte gli animali, Ponte alle grazie, Milano, 2022.

Portmann Adolf, La forma degli animali : studi sul significato dell’apparenza fenomenica degli animali, Cortina, Milano, 2013.

Stevens Martin, Merilaita Sami, Introduction: Animal Camouflage: Current Issues and New Perspectives, in “Philosophical Transactions: Biological Sciences”, Vol. 364, No. 1516, 2009, pp. 423-427, https://www.jstor.org/stable/40485806 .

Yong Ed, Un mondo immenso : come i sensi degli animali rivelano i regni nascosti intorno a noi, La nave di Teseo, Milano, 2023.

La vicinanza di uno sguardo

La vicinanza di uno sguardo

Guardo la Balli negli occhi. Profondi occhi scuri. Chissà cosa hanno visto, prima che ci conoscessimo. Mi piacerebbe me lo potesse raccontare.
Aguzzo la vista: forse, attraverso gli occhi, posso guardarle dentro? Scoprire cosa pensa? Scrutarne l’interiorità?
No, ciò che trovo è una superficie riflettente. Ciò che trovo, guardando meglio, sono solo me stessa mentre fisso i suoi occhi. Credevo di poterle guardare dentro e invece trovo solo me stessa.
Io sono in lei, tanto sulla superficie del suo occhio quanto nel suo sguardo, come ‘oggetto’ osservato e intenzionato.

Sulla superficie del suo occhio si gioca uno sdoppiamento interessante: ci sono io che osservo la Balli ma vedo solo il mio riflesso e la Balli, il cui occhio si rivolge a me e mi tematizza. Sulla superficie del suo occhio il mio essere si sdoppia tra come io appaio a me stessa e come appaio a lei. Sulla superficie del mio, a sdoppiarsi è l’immagine della cavalla per me più speciale.
Ma allora chi sono io? Chi è la Balli? Io sono ciò che io stessa vedo di me o ciò che appare a lei? O forse entrambe le cose?

Ma, poi, come mi riconosco nel suo sguardo? Faccio parte dell’orizzonte da lei percepito, ma come appaio? Come si presenta la mia figura? Che odore ho? Cosa sono per lei? Come posso sapere tutto questo?
Le nostre strutture oculari sono molto diverse e determinano colori, ma anche orizzonti visivi e prospettive, totalmente diversi. Non posso mettermi completamente nei suoi panni e vedere con i suoi occhi, ma la scienza può aiutarci a comprendere: i cavalli hanno una vista di quasi 360°, due punti ciechi (uno immediatamente di fronte a loro e uno posteriore) e percepiscono una gamma di colori inferiore alla nostra (vedono meglio il giallo, il verde e il blu, non percepiscono in maniera dettagliata lo spettro del rosso).
Per la Balli probabilmente sono tutta una sfumatura di giallo e grigio/blu, a dispetto dei colori reali come il rosa della mia pelle e il rosso della T-shirt che indosso.
Reali? È della realtà che stiamo parlando? Non stiamo forse confrontando solo due percezioni diverse, la mia e la sua, condotte con strumenti differenti? Reale è per ognuno ciò che percepisce come tale.
Ma allora come sono io realmente? È più vera la me che vedo riflessa o quella che la Balli vede?

Facciamo un passo di complessificazione ulteriore: lo stesso assunto che io sia innanzitutto vista è antropocentrico. In quanto essere umana, privilegio la vista come accesso al mondo, ma questo non è vero per un vastissimo numero di specie animali. Prima di essere una cosa vista, posso essere un rumore o un odore, o posso percepita in modalità che non riesco neanche a immaginare.

E poi c’è la memoria. La Balli per me non è solo un cavallo, ma la Balli, un essere vivente unico, con cui ho passato momenti fantastici, giorni felici e tristi, soddisfazioni e delusioni, successi e fallimenti. Ma per lei io sono la Giulia? Si ricorda delle esperienze fatte insieme? E quelle esperienze che sfumature hanno? Si è sentita bene, accanto a me? Le piaccio? A quali ricordi sono associata?
Non c’è modo di saperlo: non intendo impiantarle nel cervello elettrodi per sondare l’attività cerebrale e cercare di cavarne qualche risultato. Smettila di speculare, Giulia, e concentrati sull’adesso. Chi sei tu, qui ed ora, di fronte a lei? Sicuramente sono collegata alle tonnellate di cibo che le porto ogni volta che vado a trovarla, come oggi. La mia voce le dice qualcosa, deve essere così se è l’unica che si sporge dal box e mi nitrisce quando da un capo all’altro della scuderia la chiamo con il suo nome.
Il suo nome. Lei lo sente? Sa che quelle sillabe le appartengono? Sa che ‘Balli’ è il diminutivo che le ho dato io, partendo dalla falsa credenza che il suo nome avesse due L e non una sola? Lei è Balettina, non Ballettina, come credevo.
Nata in Belgio, come pronunciava il suo nome il suo primo padrone umano? Forse per lei il suo nome è connesso a quella esclusiva vocalizzazione? O forse è il richiamo che sua madre le rivolgeva? Che suono avrà avuto, mi chiedo. In ogni caso, non potrei replicarlo, non saprei ricordarle la madre e chiamarla con quel nome.

Sono quasi sicura, però, che per lei solo la sola essere umana che presta il proprio corpo come morbida superficie per grattarsi senza replicare o scacciarla; sono colei che le permette di entrare in box da sola accompagnandola da lontano; colei che fa sempre lo stesso rituale prima di salire, che le dà i biscottini sempre con la stessa cadenza durante le lezioni: uno prima, un certo numero a lavoro finito facendole allungare il collo prima a destra poi a sinistra, e uno una volta scesa. Sono quasi sicura di rappresentare per lei queste cose perché se le aspetta, anticipa le mie mosse gettando la sua testa verso il mio busto per grattarsi, chiedendomi i biscotti nel momento esatto del nostro rituale, allungandosi dalla parte giusta per afferrare quello successivo quando sono in sella.
Forse per lei più che un insieme di ricordi, di cose vissute e momenti passati insieme, sono un insieme di cose che faccio, un set di comportamenti specifici, un fascio di aspettative che determinano il futuro delle nostre ore insieme.
Io sono il mio comportamento. Una frase semplice all’apparenza, ma credo anche in grado di portare con sé la complessità e profondità del tema e delle riflessioni che stiamo svolgendo.
Io sono il mio comportamento significa che sono ciò che faccio: come dice Merleau-Ponty, il mio comportamento è frutto della relazione di senso tra me e l’esterno. Ogni gesto nasce come risposta sensata e adeguata ad uno stimolo esterno, il quale viene sempre contestualizzato in un orizzonte ambientale percepito e rivestito di un significato specifico da parte del soggetto che lo esperisce. Ogni stimolo assume un significato specifico per ogni soggetto in virtù del suo incrociare interessi e bisogni peculiari di colui che lo percepisce. Quindi essere il proprio comportamento significa essere quell’intenzionalità interna che si cela dietro il gesto concreto, la ‘coscienza’ che legge il mondo, lo interpreta e vi si adegua rispondendo ad esso, cercando un equilibrio tra sé e il mondo.
Ma essere un comportamento significa essere un corpo che si muove sotto altri sguardi. Questo porta con sé il fatto che i gesti vengono osservati e interpretati da altri esseri che non ne sono gli autori. Nei loro confronti, essere il mio comportamento significa prestarsi a loro come gesto esterno e come costitutiva impossibilità di accedere alla mia coscienza, cioè alle intenzioni che danno forma all’azione stessa: significa che ai loro occhi io sono ciò che faccio. E significa, quindi, che se il rapporto con gli altri mi sta a cuore, ossia se voglio che la mia ‘coscienza’, nascosta dietro ai miei gesti, emerga in essi, devo tener conto di come questi appaiono e di che significato assumo agli occhi altrui. Ecco allora che il decentramento è la chiave della relazione tra esseri che non hanno la lingua per comunicare e chiarirsi a vicenda.

Quando voglio fare una carezza affettuosa alla Balli so che non devo toccarle la pancia o precipitarmi con la mia mano immediatamente sulla fronte: lei odia essere toccata sull’addome e la zona compresa tra i duo occhi è uno dei punti ciechi degli equini. Toccarla lì non è farle un piacere, non è dimostrarle affetto: quelli per lei non sono gesti d’amore.
Ecco che allora l’amore e il rispetto passano per la comprensione dell’altro, comprensione necessaria a permetterci di comunicare e comprenderci, cioè di attuare comportamenti che possano veicolare la nostra intenzione e che al contempo possano significare per l’altro questa nostra stessa intenzione.

Sono consapevole che questo articolo è piuttosto differente dagli altri presenti nel blog: sembra più un flusso di coscienza, un trasporto emotivo. Non credo, però, che questo lo renda meno interessante. La forma con cui è scritto è stata scelta proprio perchè intendevo veicolare quel coinvolgimento emotivo che mi ha portato a interessarmi allo sguardo animale. Tutto è nato da un incontro con l’alterità animale, da una vicinanza fisica e affettiva che mi ha fatto pensare che se fosse sperimentata da ogni essere umano sarebbe davvero possibile costruire un mondo di rispetto e comprensione inter-specifico.

RIFERIMENTI:

Merleau-Punty Maurice, La struttura del comportamento, a cura di Alessandra Scotti, Milano, Mimesis, 2019.